
Ad un monaco benedettino la paternità della Maior Ecclesia di Orvieto
Nuovi studi gettano nuova luce su Frate Bevignate da Cingoli, autore della Fontana maggiore di Perugia di Matteo Parrini
Le origini del Duomo di Orvieto sono state tanto a lungo motivo di dissidi e accesi dibattiti, che il francescano Guglielmo Della Valle nella sua Storia del Duomo del 1791, senza avventurarsi troppo nella débàcle, lasciò piena libertà ai lettori di propendere per una costruzione dovuta alla grande risonanza del Miracolo di Bolsena del 1264 o al «pensiero di fabbricare un tempio, che avesse fama tra i principali d’Italia, venisse agli Orvietani dalla costante, ed antica devozione verso la SS. Vergine Assunta in Cielo, principale loro Avvocata» [1]. Ancora più indeterminata è stata quindi la paternità del progetto di un sì mirabile edificio dalla profonda e gradevole ispirazione spirituale. Il nome dell’autore è rimasto a lungo sepolto negli archivi, per variegate ragioni non sempre limpide ed estranee dagli influssi filosofici, campanilistici ed ideologici che hanno condizionato la storia d’Italia. Di certo a qualcuno potrebbe essere sembrato persino poco rilevante se non sconveniente ed inopportuno riconoscere che a progettare uno dei monumenti più celebri d’Europa fosse un umile monaco marchigiano, Fra Bevignate da Cingoli [2], appartenente alla congregazione dei silvestrini o «de Monte Fano», fondata da san Silvestro Guzzolini di Osimo (1177-1267) con l’obiettivo di riportare il monachesimo benedettino allo spirito delle origini. Nomi ben più prestigiosi del livello di Arnolfo di Cambio o del senese Lorenzo Maitani sono stati proposti nel tempo ed intensa comunque è stata la ricerca di documenti per scovare un tanto grande architetto per un edificio «fuori scala» [3]. Tra i primi che sono giunto all’individuazione del nome di Fra Bevignate da Cingoli, grazie a documenti d’epoca in parte inediti, sono stati due suoi illustri confratelli e studiosi, autori di numerosi e rilevanti testi in materia di archivistica, arte e storia del monachesimo benedettino: don Mellito Papi, che dedicò anni allo studio del monaco cingolano [4], e don Ugo Paoli, noto per essere stato viceprefetto dell’Archivio Segreto Vaticano dal 1997 al 2002. Grazie proprio al materiale raccolto nelle loro ricerche è stato quindi possibile di recente gettare nuova luce su quanto avvenne ad Orvieto a fine Duecento e sulla presenza di numerose maestranze umbro-marchigiane nel cantiere della «Maior Ecclesia», la struttura monumentale che prese il posto delle antiche chiese di Santa Maria e di San Costanzo [5].
La città di Orvieto in quegli anni viveva un momento molto particolare, essendo da poco terminata la lotta contro l’eresia dei Catari ed essendosi diffusa ovunque la notizia del clamoroso prodigio di Bolsena del 1264 avvenuto a quanto sembrerebbe nelle mani del prelato Pietro da Praga [6]. Il papa regnante, Martino IV, da tempo aveva scelto la città come residenza, preferendola alla guelfa Perugia, dove con delibera consiliare del 24 ottobre 1284 era stato incaricato il monaco silvestrino frate Bevignate da Cingoli, per procedere al restauro del palazzo vescovile in accordo e collaborazione con l’ingegnere pontificio Giovanni di Incassa. Stando allo storico Rossi, per invogliare il pontefice, «in pochi mesi l’interno poteva offrire tutte le comodità richieste per ospitare una corte, e l’esterno con le dodici finestre arcuate, adorne di capitelli, archetti e rosoni, faceva di sé bella mostra, degna di essere ammirata anche da gente avvezza alla magnificenza di Roma».[7]
Per la prima volta appare nella vicenda della fondazione del Duomo il nome del monaco silvestrino che soleva firmarsi «Bevignas de Cingulo». Era nato presumibilmente intorno al 1250 a Cingoli, nella Marca Anconetana e probabilmente aveva completato gli studi in Francia, a Parigi, tanto da essere conosciuto alla corte angioina. Fra Begnivate divenne per le sue straordinarie capacità «professor in economia et arte architettonica celebris», tanto da mettere persino mano direttamente nell’amministrazione del potente Comune di Perugia e salvarlo dalla ormai prossima bancarotta («res totius communis perusinae, quae fere in pressura abierant, in optimum statum reduxit»).[8] Tanta era la fiducia in lui, che il Consiglio delle Arti di Perugia il 15 giugno 1277 lo nominò soprintendente alle acque («superstansfontis») e con tale incarico affrontò e risolse in appena sei mesi l’annoso problema dell’approvvigionamento idrico della città umbra, al posto dell’ingegnere Boninsegna da Venezia [9], precedentemente individuato dal consiglio di Perugia, ma già impegnato nella costruzione dell’acquedotto di Orvieto. Frate Bevignate presumibilmente era in contatto o collaborava con l’ingegnere veneziano, considerati i suggerimenti ricevuti e l’acquisto anche ad Orvieto di piombo per le tubazioni perugine («ivit ad Urbemveterem pro fratre de conducto»)[10]. Sappiamo infatti che il monaco aveva avuto licenza di acquistare il piombo di cui necessitava dai porti di Venezia, Ancona e da qualsiasi luogo fosse possibile rintracciare il migliore («Venetis Anchoni et in omnibus locis ubicumque melius ipsum plumbum valeat invenire») [11]. L’efficienza del monaco silvestrino era determinata da una meticolosa organizzazione tecnica e dai tanti esperti che componevano la squadra di professionisti denominata «laborerium», nata sulla falsa riga di quanto aveva fatto un secolo prima l’abate Sugerio di Saint-Denis, ideatore del primo gotico in Francia, ottenendo l’adesione dei migliori artisti del tempo. La realizzazione della costruzione della fontana maggiore e della nuova rete idrica, conclusa in tempi record e con il massimo risultato, divenne motivo di vanto per Perugia ed un vero exemplum della capacità di raggiungere determinati risultati. Il silvestrino fu da allora considerato uno dei più insigni cittadini residenti, un «pater patriae» della città, tanto da figurare talora come Frate Bevignate da Perugia. Certamente non sbaglia lo storico Pellini nello scrivere che tanta fama si doveva a tre buone ragioni per Perugia: aver procurato l’acqua alla popolazione, aver garantito cibo a sufficienza rivendicando il possesso della piana di Chiusi ed il lago Trasimeno, aver consegnato alla comunità la celebre fontana monumentale abbellita dagli scultori Niccolo e Giovanni da Pisa, della quale fu l’indiscusso architetto, muratore ed ingegnere («structor et per omnia ductor») [12].

La notizia di quanto realizzato ebbe vasta eco e non a caso di lì a poco il monaco silvestrino fu incaricato per la costruzione del mausoleo di papa Martino IV a Roma, sfarzoso sepolcro che fu celebrato dallo stesso Vasari e del quale resta traccia in un documento di archivio a Perugia [13].
Subito dopo Fra Bevignate si sarebbe trasferito a Gubbio per completare la grande chiesa dedicata a San Francesco, terminata nel 1290, come riportato in un’epigrafe all’interno dell’edificio, ex fondaco di Jacopo Spadalonga, amico del santo di Assisi.
Nello stesso anno il cingolano lo ritroviamo ad Orvieto, dove l’assenza della corte pontifica aveva generato non pochi dissidi interni verso la stessa Perugia, così da dare inizio ad un’inconsueta gara edilizia ed intraprendere i primi lavori per realizzare una nuova cattedrale, che doveva contraddistinguersi agli occhi dei fedeli per magnificenza. Dai documenti sappiamo che già il 6 settembre 1290 pervennero carichi di pietre ed altre elargizioni monetarie «pro opere sanctae Mariae populi et comunis Urbisveteris» ed il 15 ottobre iniziò lo sterramento, dopo aver abbattuto le due vecchie cadenti chiese di Santa Maria e di San Costanzo, mentre la benedizione papale della prima pietra giunse, tra la pubblica esultanza, solo il 13 novembre per la festa di san Brizio [14].
I monaci silvestrini risultavano giunti ad Orvieto da appena tre anni, ospitati nel monastero di San Gregorio di Sualto, «de Sualtolo», o «Soaltolo» o «Subaltulo», in località Settecamini, un cenobio fondato dai monaci cistercensi e lasciato in gestione alla congregazione di San Silvestro di Montefano almeno per un trentennio, considerato che l’ultimo documento disponibile è datato 17 febbraio 1327, in occasione del capitolo conventuale dei silvestrini che elesse «procurator generalis» frate Gentile da Sassoferrato per rendere obbedienza e riverenza al nuovo priore generale Matteo, nominato da papa Giovanni XXII. In questo lasso di tempo è a dir poco curiosa la presenza di un gran numero di monaci di origine marchigiana, lasciando aperta l’ipotesi che fossero fidati collaboratori di Fra Bevignate, giunti per lavorare nel prestigioso cantiere, provenienti da Fabriano, Cingoli, Matelica, Esanatoglia, Sassoferrato [15].
L’arrivo dei monaci della congregazione marchigiana potrebbe essere stato addirittura favorito dallo stesso vicario generale del vescovo Francesco Monaldeschi, che, tra il 1285 ed il 1288, fu «Nicolao de Mathelica», verosimilmente identificabile con l’abate del potente monastero benedettino di San Pietro di Gubbio [16].
Stando allo studio condotto da Papi, la nuova chiesa doveva avere sicuramente un determinato stile stabilito nel progetto, considerando pure che nell’atto rogato dal notaio Nicola di Trevi era stabilito che l’edificio dovesse essere «nobilis et solemnis ad istar sanctae Mariae Majoris de Urbe», ovvero presentare le linee architettoniche solenni della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, che a quel tempo però era in stile romanico. All’apparenza potrebbe essere un semplice dettaglio, ma in realtà la questione stilistica è un punto fondamentale del nuovo edificio. Il Fumi e lo Gnoli in merito hanno sottolineato come un richiamo allo stile della basilica romana fosse dovuto alla scelta fatta nel 1288 dal papa ascolano Niccolò IV (1288-1292) di renderla nuova residenza pontificia e di sottoporla ad importanti e profondi restauri, che portarono tra l’altro all’aggiunta del transetto ed al rinnovo dell’abside, con l’inserimento dei celebri mosaici di Jacopo Torriti e del presepe con le sculture di Arnolfo di Cambio [17].
Resta solo incomprensibile la totale discordanza tra lo stile chiaramente indicato nell’atto e quello prodotto di lì a poco. Nel tempo non sono mancate congetture e supposizioni che tra il vescovo, il consiglio cittadino e lo stesso costruttore fossero emersi contrasti in corso d’opera, ma nessuna delle tante ipotesi prodotte è stata in grado di spiegare appieno il motivo che portò ad un’architettura gotica. Esula invece completamente e lascia un ampio margine di chiarimento la tesi avanzata dallo studioso Aldo Lo Presti, che trova fondamento nella punteggiatura dell’atto, dove la chiesa di Santa Maria Maggiore non è la basilica romana («de Urbe»), quanto invece la stessa cattedrale di Orvieto («de Urbe.[vetere]»), il cui nome è semplicemente abbreviato. A supporto della tesi c’è un sigillo episcopale di quel periodo (1279-1295), dove il vescovo di Orvieto, Francesco Manaldeschi, appare con il pastorale sotto ad una chiesa monocuspidale, come doveva essere stato appunto il primo progetto del Duomo di Orvieto [18]. Inoltre la congregazione silvestrina aveva avuto l’opportunità, sotto il regno di san Luigi IX e dietro suggerimento di papa Innocenzo IV, di fondare un cenobio sull’Ile de France, vicino all’abbazia di Saint-Denis, il luogo dove nacque lo stile gotico, l’«opus modernum sive Francigenum» e dove si sarebbe recato per completare gli studi lo stesso Fra Bevignate [19].
Un elemento di grande rilievo in questa vicenda e che evidentemente era a lungo sfuggito a chi aveva attribuito ad altri la paternità del duomo, è che Fra Bevignate era presente ad Orvieto nei giorni della posa della prima pietra. A riportarlo è una pergamena, oggi custodita nel ricco archivio dell’eremo di San Silvestro di Montefano, contenente tre rogiti redatti ad Orvieto il 17 giugno, il 19 luglio ed il 6 settembre 1291, dove frate Bevignate figura nei primi due come testimone e nell’ultimo come beneficiario di un terreno in località Maculano o Manculano, ricevuto a nome della congregazione silvestrina [20]. Gli atti furono tutti redatti nella sede vescovile di Orvieto, sotto il pontificato di papa Niccolò IV, nell’abitazione che fu del cellario del capitolo di Orvieto: nel primo rogito Fra Bevignate viene chiaramente denominato «operarius» del vicino cantiere del duomo; nel terzo il chierico Guidetto di Bernardo dona il campo di località Maculano «in civitate urbevetana, in hospitio Episcopatus, in domo qui olim fuit cellarium capituli Urbevetani fratri Bevignati de Cingulo ordinis sancti Benedicti de Montefano et fratri Simoni frati dicti fratris Benvegnatis recipientibus et stipulantibus» [21].
Da questo documento di eccezionale importanza si viene a conoscenza dell’esistenza tra i suoi più stretti collaboratori di un consanguineo di Fra Bevignate, il fratello Frate Simone, che era al suo fianco mentre procedevano i lavori ad Orvieto, tra scalpellini e mastri scultori («magistri scultores») per lavorare pietre di travertino, marmo e basalto. Sappiamo poi che il materiale lapideo in parte proveniva dalla cava di Montespini ed in parte era di risulta di antichi edifici in abbandono. Stando a quanto risulta dai documenti comunque l’attività del «laborerium», organizzato e diretto da frate Bevignate, subì un arresto a causa di contrasti, forse con gli stessi orvietani e con lo stesso vescovo Francesco, promotore dell’opera che per ordine papale, nel rispetto del pratico principio promoveatur ut removeatur, ai primi del 1295 fu trasferito a Firenze. Il vescovo Monaldeschi però portò con sé quale vicario e procuratore un altro benedettino marchigiano, il monaco silvestrino Andrea di Giacomo da Fabriano, al quale assegnò delicati incarichi, tra cui l’acquisto di un terreno in località Cafaggio, dove poi fu fondato dai silvestrini il celebre monastero di San Marco, passato nel 1435 ai frati domenicani e tra le cui mura visse anche Girolamo Savonarola Andrea di Giacomo non era per altro un personaggio secondario all’interno della congregazione silvestrina: primo biografo di san Silvestro Guzzolini, divenne prima priore generale della congregazione di Montefano, poi nel 1325 fu nominato da papa Giovanni XXII abate commendatario del monastero romano dei Santi Andrea e Gregorio in Clivo Scauri, oggi più noto come San Gregorio al Celio [22].

Resta invece il dubbio se davvero il vescovo di Orvieto, Francesco Monaldeschi «de Bagnorea», abbia davvero voluto interferire nella realizzazione dell’opera oppure sia stato costretto al trasferimento a seguito della bolla Significaverunt nobis, emanata dal nuovo papa Bonifacio VIII il 27 dicembre 1294, in cui revocava tutti gli incarichi stabiliti dai suoi predecessori, quasi a volersi liberare degli avversari politici e dei sostenitori della rivale famiglia Colonna che pare vedesse ovunque. Certamente non deponeva a suo favore il fatto che il Monaldeschi, nel luglio 1294, fosse stato uno dei cinque messi esterni al conclave incaricati dal sacro collegio di raggiungere Sulmona per informare l’eremita Pietro da Morrone, divenuto quindi Celestino V, dell’elezione pontificia [23]. E se davvero disaccordo ci fosse stato con Fra Bevignate ed il suo «laborerium», qual era lo stile che desiderava il vescovo di Orvieto? Difficile rispondere di fronte al silenzio delle fonti, ma se non altro abbiamo qualche indizio che dimostra il suo favore verso lo stile gotico. Il Monaldeschi, com’è noto, fu vescovo di Firenze negli ultimi anni che precedettero l’esilio di Dante Alighieri[24] e come tale, talvolta usando le stesse sue elemosine, pose le prime pietre a celebri edifici gotici come le chiese di San Marco, di San Domenico, di Santa Croce o di Santa Maria del Fiore al posto dell’antica cattedrale di Santa Reparata [25]. Infine, ulteriore indizio resta il sigillo episcopale già citato, dove il Monaldeschi appare di fronte alla cattedrale gotica ancora monocuspidale.
Se dunque al vescovo, che pur non essendo di certo riluttante allo stile gotico, toccò il trasferimento da Orvieto nel bel mezzo di un conflitto politico apertosi dopo l’elezione del nuovo pontefice, al clero orvietano invece venne inibita ogni interferenza nel cantiere del Duomo, confermando tutti i poteri al monaco silvestrino progettista ed architetto [26]. La cosa che lascia davvero stupiti è l’esclusione dai lavori di magistri e maestranze orvietane a tutto vantaggio di artigiani di sua fiducia: un fatto certamente non consueto per il tempo. Potrebbe dunque trattarsi, come sottolineato dal Papi, di un fatto eccezionale che rende Fra Bevignate un antesignano di certi grandi artisti rinascimentali, dotato di una volontà tetragona, di una consumata esperienza di fatti e di persone, conscio delle sue capacità e di godere di una grande reputazione nelle alte sfere della Curia romana. Sarebbe stato perciò geloso, in campo tecnico ed artistico, della sua libertà di azione, non sopportando ingerenze di alcun genere, da qualunque parte venissero.
In un atto stilato su pergamena pochi mesi dopo il trasferimento del vescovo Francesco, il 26 novembre 1295, oggi conservato al Museo dell’Opera di Orvieto, si legge chiaramente che «Ubaldo Antelminelli, nobiluomo di Lucca, capitano del popolo della città di Orvieto, con i sopraddetti sette consoli hanno decretato e ordinato che frate Bevignate sia autore dell’opera («operarius») della chiesa di Santa Maria con il salario in precedenza pattuito per lettera dal precedente vescovo orvietano e che abbia pieni poteri di scegliere come gli pare sia i maestri che le maestranze, a condizione però di far lavorare quegli orvietani che troverà idonei, altrimenti non li prenda».[27]
Tale libertà d’azione doveva garantire al monaco la possibilità di superare ogni nuova eventuale lite e di accelerare i tempi di realizzazione del duomo. Fra Bevignate ebbe così modo di assoldare non solo magistri senesi, umbri, lombardi e pisani come Gino da Siena, Guglielmo da Pisa, Orlando e Guido da Como, ma addirittura maestranze d’oltralpe, come testimonia un documento del 23 maggio 1293 in cui si dichiara che i lavori del cantiere stavano procedendo celermente ed efficientemente, grazie al lavoro di uomini come «Lambertus gallicus», «Martinus de Schotia» o «Johannes gallicus».[28]
Al tempo con il termine «magistri» venivano indicati tutti i tecnici qualificati che, disponendo spesso di una propria bottega, esercitavano con perizia un’arte. Nel nostro contesto potevano quindi essere raffinati scalpellini o fabbri, imbianchini (o «parietarii»), orafi e decoratori. Ecco allora che Fra Bevignate è talora definito nei documenti perugini «operis structor», ovvero capo dei muratori costruttori specializzati in opere architettoniche particolarmente difficili e non quale semplice impresario o direttore tecnico dei lavori come interpretato da qualcuno [29]. Si tratta perciò di una qualifica di merito, che va unita a quelle di «incignerius», «magister», «superstans», «professor in architectonica arte», «operarius». Ciò sta a dimostrare la poliedricità del suo estro artistico, in grado di esprimersi come fine miniatore, progettista di fortificazioni militari e condutture idrauliche (incarichi che assunse a Perugia) o di ponti come quello sul Tevere a Deruta (realizzato nel 1276 e distrutto dai tedeschi in ritirata nel 1944), travalicando le più comuni conoscenze, fino ad essere considerato persino unico valido uomo esecutore dell’autorità legale («unum bonum et legalem virum») [30].

Un alone mistero rimane circa le ragioni dell’abbandono del cantiere di Orvieto da parte di Fra Bevignate. A quanto si ricava dai documenti pervenuti, tutto fa pensare che la causa sia da ricondurre ad un appello giunto al monaco da Perugia per realizzare la nuova cattedrale, a seguito della proclamazione nell’anno 1300 del primo Giubileo da parte di papa Bonifacio VIII. Infatti, in una riunione delle autorità comunali perugine, avvenuta il 22 marzo 1300 nel chiostro di San Francesco al Prato, si discusse e deliberò per l’immediata costruzione di un nuovo grande edificio, «in maniera che superasse i circostanti edifici».[31]
Si ritenne infatti opportuno affidare il progetto di tutta l’opera a Frate Bevignate dell’ordine di San Benedetto di Montefano, in quanto «oltremodo esperto e celere nel compiere l’opera».[32]
Sicuramente però, grazie ai traffici commerciali o per il diffondersi delle voci popolari, ad Orvieto si venne a sapere per tempo di ciò che i perugini stavano progettando e così, già undici giorni prima, l’11 marzo 1300, le autorità comunali (i sette consoli, rappresentanti delle sette arti maggiori) su sollecitazione di una commissione dei rappresentanti delle stesse arti fissarono una pubblica riunione, nel corso della quale fecero una sorta di richiamo al monaco di Cingoli. Nel riconoscergli l’unicità della persona e l’insostituibile capacità a completare l’opera, lo confermarono nell’incarico di soprastante, ovvero di soprintendere ai lavori, ammonendolo a ritornare dai suoi «magistri» e ad incitarli a lavorare con impegno e con l’abituale sollecitudine [33]. Cosa stava accadendo? E’ di certo anomalo l’iter procedurale adottato. A differenza di quanto accadde con il successore Lorenzo Maitani (1275-1330), verso il quale le sedute delle autorità comunali votarono in maniera libera e differente e talvolta persino contro lo stesso architetto, per Fra Bevignate negli atti intervennero sempre le massime magistrature, il capitano del popolo ed i sette consoli, i quali non procedettero con nomina a votazione, ma decretarono e ordinarono («decretaverunt et ordinaverunt») che il progettista avesse potere di stabilire la scelta dei tecnici e delle maestranze, quasi sicuramente perché stabilito dalla stessa autorità pontificia. Infatti, come ha giustamente sottolineato il Papi, «il capitano non avrebbe potuto conferire questo incondizionato potere, che nuoceva agli interessi dei maestri orvietani, se non gli fosse stato imposto dalla Curia romana».[34]
Eppure proprio i rancori nell’ambito delle maestranze locali, le ostilità che si accesero tra le famiglie Monaldeschi, di parte guelfa, e Filippeschi, di parte ghibellina, portarono a sempre più forti attriti in città, finché, con il trasferimento della sede papale ad Avignone, la stessa autorità di frate Bevignate fu probabilmente messa in discussione. Tutto ciò ebbe delle pesanti ricadute sulla stessa conduzione dei lavori, giungendo al culmine quando Giovanni di Uguccione, capomastro orvietano, forse sospinto da qualcuno, non volle più attenersi al progetto e innalzò la crociera gotica con volte, mettendo a rischio la stessa stabilità dell’edificio [35].
Per queste ragioni poi si sarebbe reso necessario l’intervento del capomastro senese Lorenzo Maitani, autore dei quattro archi rampanti a sostegno delle parete rese pericolanti. Secondo vari autori comunque Fra Bevignate rimase al suo posto in quanto incaricato della Chiesa, almeno finché il 7 luglio 1307 il Consiglio si riunì lamentando le condizioni disagevoli in cui ormai era tenuto il cantiere, fra bande di giovani che giocavano a dadi e tasselli «infra muros nove ecclesie» e che lanciavano pietre e palle con baliste od onagri causando danni a statue e finestre («multe figure et opere fenestrarum dicte ecclesie») [36]. Al di là dei singoli episodi vandalici narrati il testo aiuta però a capire che esistevano già decorazioni figurate attorno ai portali del Duomo, molto prima della nomina del Maitani a nuovo responsabile dei lavori, datata solitamente tra il 1308 ed il 16 settembre 1310, quando una deliberazione consiliare a maggioranza dei votanti lo rese «universalis caput magister», seppur con condizioni meno vantaggiose e rassicuranti del suo predecessore, tanto che in un atto del 13 marzo 1322 si dichiara che il Maitani lasciò Orvieto per inadempienze nei pagamenti, ovvero «salarium, quod promissum sibi fuit quando venit ad dictum opus faciendum, pauco tempore habuit» [37].
Quanto al monaco cingolano pare sia tornato prima a Perugia nel 1310 e poi sia stato mandato a Roma, dove divenne vice priore del monastero di San Giacomo in Settimiano o alla Lungara. Proprio nell’Urbe nel 1311 avrebbe lavorato al restauro di una chiesa con convento, appartenuti ai cavalieri gerosolimitani, dove si trasferirono delle monache benedettine [38].

La sua morte sarebbe avvenuta molti anni dopo, a Perugia, dove «se ne stette per alcun tempo solitario nel monistero pensando solamente all’eternità, e all’anima», spegnendosi quasi centenario, «compianto da tutto il popolo e autorità» [39].
Restano infine da capire solo le ragioni della damnatio memoriae o dell’oblio di Fra Bevignate a tutto vantaggio del Maitani, che dal 1421 divenne per tutti un esempio di parsimonia («Ecclesie costructorem primeveum qui parvo contentus stipendio»),[40] ovvero l’autore del Duomo, come riportato in una lapide incisa in quell’anno («Primus mirifici huius operis magister»). E’ indubbio che le vicende storico-politiche italiane finirono con il mettere in risalto l’opera del laico toscano Maitani piuttosto che quella del monaco benedettino marchigiano. Lo stesso Enea Silvio Piccolomini, verso il 1450 nei suoi Commentari [41] attribuisce i plastici della facciata a scultori «ex parte senenses». Eppure, a fronte dei dubbi espressi da altri autori anche sulla possibilità che il Maitani sia stato uno scultore, quello che scrisse il futuro pontefice era chiaramente senza finalità storiche, ma retoriche, con una mal celata punta di campanilismo, perché il futuro Pio II era anch’egli di Siena come il Maitani [42]. Così, se c’è stato chi ha sostenuto che «oggi al Maitani è destinata la sorte opposta di quella di Fra Bevignate; quel che si va aggiungendo alla fama del monaco benedettino, viene tolta alla sua»,[43] potrebbe risultare opportuno rivedere l’apporto reale del primo progettista e mettere di nuovo in discussione la paternità del secondo progetto tricuspidale della facciata. Dalla rilettura dei documenti, soprattutto di quelli ancora in parte inediti emerge quindi un Fra Bevignate ben diverso dall’immagine scolorita e male tratteggiata da taluni che lo hanno descritto come un semplice amministratore poco attento e presente. Ancora più interessante è che il disegno della seconda facciata non sia attribuibile al Maitani, ma piuttosto sia anch’esso del monaco silvestrino di Cingoli, considerato che, come dedusse il Papi mezzo secolo fa, «questo progetto in un inventario del 1356 già risultava smarrito, perché il Camerlengo dell’Opera in quell’anno annotava nei suoi registri solamente quello del Maitani». Anzi come sosteneva già il Fumi «ciò dimostra che il primitivo disegno ritrovato nel 1383 presso persone private, non apparteneva al Maitani, perché totalmente differente nel concetto fondamentale, nelle proporzioni, nell’ascendenza delle linee, nelle decorazioni. Questo progetto non può attribuirsi che ad un maestro di preferenza scultore e miniatore, che predilige le forme gotiche ideali con lo slancio delle cuspidi» [44].

Lo stesso «laborerium» che coadiuvava come una bottega d’arte il monaco di Cingoli e nel tempo venne preso a modello di fervore artistico e valorizzazione delle singole capacità ed attitudini professionali, con una ripartizione degli incarichi e nella specializzazione delle professioni stesse, in una feconda armonia tra preghiera e lavoro monastici. L’impostazione del «laborerium» fu infatti l’amalgama di artisti di primo piano, tanto diversi tra loro per educazione e temperamento, e potrebbe perciò aver continuato a dare i suoi buoni frutti ben oltre l’allontanamento del monaco in quella visione figurativa di «certi aspetti immaginativi delle concezioni dantesche» [45].
Fatto sta che nell’originale impianto del duomo si denotano ancora oggi le tracce architettoniche di ispirazione certamente monastica come la tribuna quadrangolare o l’austera nudità dell’interno ritrovata con i restauri ottocenteschi della Cattedrale fortemente voluti da Luigi Fumi e Paolo Zampi. Questo raro e delicato fiore artistico, che come imponeva la liturgia, è volto ad oriente dove sorge il sole, nella sua impostazione di fondo resta dunque il frutto delle conoscenze e della profonda fede di un monaco benedettino, che attraverso l’arte ha voluto cantare la bellezza del creato e spiegare sotto varie forme ed aspetti i testi sacri alle masse. Fra Bevignate alla luce delle nuove ricerche risulta essere non solo un accorto organizzatore ed attento costruttore, ma soprattutto un precursore nel mondo dell’arte ed un perfetto seguace della regola benedettina e della tradizione spirituale del monachesimo occidentale.
Note
- DELLA VALLE, Storia del Duomo di Orvieto dedicata alla Santità di Nostro Signore Pio Papa Sesto Pontefice Massimo, Roma 1791, pp. 91-94.
- MAROCCO, Monumenti dello Stato Pontificio e relazione topografica di ogni paese, Roma, Tipografia Boulzaler, 1836, t. XIII, p.122; R. BONELLI, Bevignate architetto o amministratore?, in «Critica d’arte», 1958, pp.329-331.
- FUMI, Il Duomo di Orvieto e i suoi restauratori. Monografie storiche condotte sopra i documenti, Roma 1891; A. SATOLLI, «Quel benedetto Duomo», in Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano XXXIV, 1978.
- Il Papi rivolse lo studio su Fra Bevignate in due scritti: Il poema figurativo di Fra Bevignate nella Fontana di Perugia, edito nel 1965, e La visione del Duomo di Orvieto del 1974.
- PARRINI, Fra Bevignate da Cingoli e le origini contese della Maior Ecclesia, in Altastrana. Arte, storia, letteratura, a cura di Aldo Lo Presti, n.3 -2019. Spine Editore, Orvieto, 2019, pp.9-24.
- TATTA, Pietro di Praga, in Colligite Fragmenta. Bollettino di storia, arte e cultura, X – 2018, Tipografia Tuderte, Todi 2019, pp.413-422.
- ROSSI, Uomini illustri: Frà Bevignate architetto perugino, in Vecchio Grifo, rassegna perugina, vol. I, pp.2-3; vol. II, p.4; vol. III, p.3.
- M. FELIZIANI, Silvestrinae Congregationis selectiora monimenta, manoscritto del 1683 presso l’Archivio del Monastero di San Silvestro di Montefano (Fabriano), p.440.
- PAPI, Poema figurativo di Fra Bevignate nella Fontana di Perugia, Abbazia di Casamari, 1965, p.37.
- BELARDI, Il Palazzo dei Consoli a Gubbio e il centro urbano trecentesco, Quattroemme, Ponte San Giovanni 2001, p.45
- SANTINI, Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, Calzetti-Mariucci, 1996, p.107.
- PELLINI, Dell’historia di Perugia, Venezia, appresso Giovanni Giacomo Hertz, 1664, parte I, pp.293-294.
- Archivio di Stato di Perugia, Anni Decemvirali, anno 1287, a c.42 r.
- PAPI, La visione del Duomo di Orvieto, Tipografia di Casamari, 1974, p.111.
- DI NICOLA, Documenti dell’Archivio di Montefano relativi al primo periodo della Congregazione Silvestrina (sec. XIII), in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, Bibliotheca Montisfani, Fabriano 1982, vol. I, pp.426-427; U. PAOLI, Il monachesimo silvestrino nell’ambiente marchigiano del Duecento: atti del Convegno di studi tenuto a Fabriano, Monastero di San Silvestro abate, 30 maggio-2 giugno 1990, Fabriano 1993, p.374; R.L. COOPER, The Benedictine Face of Religious Poverty. The Formation and Growth of the Silvestrine Congregation in the Medieval March of Ancona, University of California, Davis, 2007, pp.193-196.
- DELLA VALLE, Storia del Duomo di Orvieto, Roma, presso i Lazzarini, 1791, pp.241, 244; M. PAPI, La visione del Duomo …, pp.99-101; U. PAOLI, San Silvestro di Fabriano: antiche pergamene, Cassa di risparmio di Fabriano e Cupramontana, Fabriano 1984, p.173.
- GNOLI, Archivio storico dell’arte, Roma, Danesi Editore, 1890, vol. II, pp.190-191; L. FUMI, Statuti e regesti dell’Opera di Santa Maria di Orvieto: il Duomo di Orvieto e i suoi restauri, Roma, Tipografia Vaticana, 1891, p.1; M. PAPI, La visione del Duomo…, p.111; D. QUAGLIONI, La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), Edizioni San Paolo, 1994, p.88; G.A. VERGANI, San Francesco e “compagni” nella pittura camerte, in Presenze francescane nel camerinese (secoli XIII-XVII), a cura di Francesca Bartolacci e Roberto Lambertini, Gianni Maroni Editore, Acquaviva Picena, tipografia Fast-Edit, 2008, pp.342-343.
- PERALI, Orvieto: note storiche di topografia e d’arte dalle origini al 1800, Roma, 1919, pp.78, 117.
- PAPI, La visione del Duomo…, p.111.
- FUMI, Statuti e regesti dell’Opera … op. cit., p.1; D. GNOLI, Archivio storico dell’arte, Roma, Danesi Editore, 1890, vol. II, pp.190-191.
- Archivio di San Silvestro, Pergamena EO. 1291, Eremo di San Silvestro di Montefano
- PAPI, La visione del Duomo…, p.69; U. PAOLI, L’Archivio storico del monastero…, pp.13, 15-16, 27, 87-88, 276-277, 285-288, 292-294.
- MOSCATI, I monasteri di Pietro Celestino, in Bollettino dell’Istituto Italiano per il Medio Evo, 68 1956, pp. 136-137; P. GOLINELLI, Celestino V, il papa contadino, Ugo Mursia Editore, Milano, 2007, p. 129; A. PARAVICINI BAGLIANI, Bonifacio VIII, RCS Quotidiani spa, Milano, 2006, pp.88-89.
- Il sommo poeta si esprime solo sulla famiglia Monaldeschi: «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura, color già tristi, e questi con sospetti», D. ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio VI, cc.106-108.
- G. CERRACCHINI, Cronologia sacra de’ Vescovi e Arcivescovi di Firenze, Firenze, Stamperia di S.A.R. di Jacopo Guiducci e Santi Franchi, 1716, pp.83-87, L. BIADI, Notizie sulle antiche fabbriche di Firenze non terminate, Firenze, Stamperia Bonducciana, 1824, pp.74-75; T. VERDON, Alla riscoperta di Piazza del Duomo in Firenze. I tesori di Piazza del Duomo, Firenze, Centro Di, 1996, pp.109-112.
- FUMI, Il duomo di Orvieto e il simbolismo cristiano, Roma, Tipografia Poliglotta, 1896, pp.6, 177.
- FUMI, Il duomo… , p.177; T. ULRICH – F. BECKER, Lessico universale degli artisti, Lipsia 1909, vol. III, p. 55; M. PAPI, La visione del Duomo…, p.115.
- DELLA VALLE, op. cit., pp.263-264; M. PAPI, La visione…, pp.115-119.
- VV. Studi Medievali, Nuova Serie, G. Chiantore, Torino 1951, p.123; M. PAPI, Il poema figurativo…, pp.43, 53; P-Y LE POGAM, Les maîtres d’œuvre au service de la papauté dans la seconde moitié du XIII siècle, Roma, Ecole française de Rome, 2004, pp.67-72, 96.
- PAPI, La visione del Duomo…, pp.121-126.
- CERNICCHI, L’acropoli sacra di Perugia e i suoi archivi, Perugia, Tipografia perugina, 1911, p.13.
- Nel documento della riunione in questione si legge infatti che «cuius ecclesiae totius operis opportuni superstans esse debet frater Bevegnate ordinis sancti Benedicti, qui ad huiusmodi opera facienda sollicitus et expertus», Archivio di Stato di Perugia, Pergamena del Libro Verde della Cancelleria, pp.48-50.
- Archivio storico di Orvieto, Rif. ad an c.63, 11 marzo 1300.
- PAPI, La visione del Duomo…, pp.138-139; L. RICCETTI, «L’Uopara de Sancta Maria Maghure». Protasi ad una storia sociale dell’Opera del Duomo di Orvieto, in Quaderni di Storia dell’Architettura, 15-16 (1990-1992), Saggi in onore di Renato Bonelli, vol. I, pp.173-174..
- MATTIONI, Il Duomo di Orvieto, Firenze, Edizioni Alinari, 1938, p.8.
- PAPI, La visione del Duomo…, p.142.
- PAPI, La visione del Duomo…, pp.143-145.
- CRISPOLTI, Augusta Perusia, Perugia 1648, p.101.
- PASCOLI, Vita dei pittori, scultori e architetti perugini, Roma, Antonio de’ Rossi, 1732, p.20.
- FUMI, Il Duomo di Orvieto e i suoi restauri, Roma, Società laziale tipografico – editrice, 1891, p.4.
- «Frons altissima et admodum lata, plenastatuis, quasoptimisculpsereartificesmajori ex parte senenses», E. S. PICCOLOMINI, Commentarii, vol. IV, 36, pp.790-792)
- CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo di Napoleone, Venezia, Tipografia Picotti, 1813, p.222; M. PAPI, La visione…, p.148.
- SPAGNOL, Le Vie d’Italia del Touring Club Italiano, Gennaio 1961, p.70.
- PAPI, La visione del Duomo…, pp.130, 149-153.
- LECLERQ, Economia monastica occidentale, in Dizionario degli istituti di perfezione, Roma, 1976, vol. III, DIP 3 (1679) 1024; F. MARUFFI CECCO-PIERI, FràBevignate grandissimo architetto dimenticato, in L’Osservatore Romano del 17 dicembre 1965, p.5; M. PAPI, La visione del Duomo…, p.157; G. FATTORINI, La spiritualità nell’Ordine di S. Benedetto di Montefano, EditionesMontisfani, Fabriano, 1976, pp.241-242.

Matteo Parrini, nato a Jesi nel 1977, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Macerata e vive con la sua famiglia a Matelica, dove lavora presso la Halley Informatica. Giornalista pubblicista, corrispondente locale del Resto del Carlino, curatore dell’Archivio storico diocesano di Matelica, collabora da anni con il Centro Studi Pientini ed altri istituti ed associazioni con i quali ha realizzato una ventina di pubblicazioni a carattere storico. Tra i testi più noti e recenti Matelica segreta e scomparsa (Geronimo, 2007), La schola grammaticae di Matelica (Centro Studi Storici “Don Enrico Pocognoni”, 2016), La famiglia Maccafani di Pereto: i documenti presso Matelica (Edizioni LO, 2017), Fra Bevignate da Cingoli e le origini contese della Maior Ecclesia (Edizioni Spine, 2019).
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