
di Maria Stelladoro.
Introduzione
Assieme al compatrono Euplo/Euplio(2), Agata elargì a Catania il dono della gloria del suo cruento martirio e dell’effusione del suo sangue innocente in difesa della cristianità, della verginità e della fede.
Agata, è, infatti, celebrata per la duplice corona della verginità e del martirio, consumato a Catania in quel lontano 251 d. C. e precisamente durante quella prima sistematica, cruenta e calcolata persecuzione ordita contro i cristiani dall’apostasia di Decio. Tuttavia, nel De laude virginitatis di Adelmo e nel martirologio del Venerabile Beda Agata è celebrata non sotto Decio ma sotto Diocleziano (sec. IVin.).
Gravitano attorno alla figura di questa eroina della fede, due problemi fondamentali:
- Uno, relativo alla patria dell’eroina, che, per secoli ha fatto fluire fiumi d’inchiostro.
Infatti, secondo la tradizione manoscritta degli atti greci del martirio, Agata sarebbe nata a Palermo e martirizzata a Catania. Invece, secondo la tradizione latina manoscritta di Agata Catania sarebbe sia il luogo di nascita sia quello del martirio. Violente diatribe sono insorte proprio a questo proposito fra Palermo e Catania raggiungendo la tensione più alta nel 1600, quando sotto papa Clemente VIII [Ippolito Aldobrandini] fu riformato il Breviario Romano e, davanti al cardinale Roberto Bellarmino, fu presa una decisione del tutto salomonica: lasciare la questione insoluta! - L’altro, relativo al codice in greco conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi: il Paris. gr. 999, dal quale deriverebbe il testo pubblicato da J. P. Migne nella Patrologia graeca(3): tale codice contiene, invece, opere di Gregorio di Nissa. Il Paris graec. 1452 (il cui testo è assai simile a quello editato dal Migne, come ha evidenziato un puntuale confronto), appartenne un tempo al cardinale N. Ridolfi, la cui biblioteca passò, poi, alla regina Caterina de’ Medici e solo negli ultimi anni del 1500 fu ingressato nelle collezioni reali, ricevendo l’attuale collocazione nel 1740, come tutti gli altri codici del fondo greco della Biblioteca Nazionale di Parigi e, prima di allora, non ha mai avuto la collocazione ricordata dal Migne nella Patrologia Graeca.
1. La storia dalla tradizione greca manoscritta
Questo il racconto tramandato dai manoscritti in greco del martirio: correva l’anno 251, allorché l’imperatore Decio, quando in Sicilia governava Quinziano, bandì una violenta persecuzione contro quei cristiani che rifiutavano di abiurare il cristianesimo. Pervaso, inoltre, da un’incontenibile passione per una giovane e bella ragazza originaria di Palermo, di nome Agata, la trasse in arresto con l’accusa di non volere professare il culto pagano.
Con tale pretesto Quinziano ordinò alle sue guardie di condurla da Palermo a Catania. Proprio durante tale tragitto, si verificò il tanto celebrato miracolo dell’oleastro: la giovane donna, fermatasi ad allacciare i calzari e voltatasi indietro, non vedendo nessuno dei cittadini che l’avevano accompagnata fu presa da meraviglia frammista a stupore. Sentendosi sola e abbandonata, innalzò preghiere a Dio affinché desse una visibile dimostrazione a quanti avevano dubitato della sua battaglia in favore di Cristo: immediatamente spuntò un oleastro sterile come l’animo di quanti l’avevano abbandonata mettendo in dubbio la potente forza della sua fede.
A Catania, Quinziano, auspicando una morbosa rieducazione della giovane vergine, l’affidò alla custodia di Afrodisia assieme alle sue figlie, donne di perversi e depravati costumi, per iniziarla all’idolatria sia con blandizie che con minacce. Ma la tenacia e la risolutezza della giovane donna, alimentarono nel governatore un’ira incontenibile tanto che, fattala condurre in tribunale, nel secretarium, dall’accesso interdetto al pubblico, ordinò che fosse sospesa e che il suo gracile corpo fosse dilaniato con appuntiti pettini di ferro. Ma, rivelandosi inutile ed effimero qualsiasi tentativo, lo spietato Quinziano, nel suo cieco furore iracondo, ordinò il più esecrabile dei tormenti perpetrato alla femminilità di una vergine: la tortura e poi l’amputazione della mammella. Non pago di questo nuovo e atroce supplizio per Agata, sempre risoluta e ferma nella sua fede, inasprì quella pena vietando categoricamente che la giovane donna fosse curata e nutrita. Ma, in piena notte, l’eroina fu miracolosamente guarita in carcere dall’apostolo Pietro, che aveva assunto, nella sua apparizione notturna, le sembianze di un uomo anziano, preceduto da un giovanetto che teneva in mano una lampada. Rifulse nel carcere, per tutta la notte, un bagliore candido e tale da incutere timore nei custodi che, fuggendo in preda al panico, lasciarono il carcere aperto: invano gli altri prigionieri esortavano la martire a fuggire ma la vergine voleva portare a compimento il suo martirio per Cristo, né mai desistette da questo proponimento. Ricondotta in tribunale, per ordine di Quinziano, dopo quattro giorni, e, avendo questi appurato che la giovane era stata guarita, fu sopraffatto dall’ira a tal punto da ordinare contro la donna un altro aspro supplizio: che la giovane fosse rotolata su cocci di carbone accesi. Mentre si compiva quest’immane tortura, un violento terremoto distrusse parte del palazzo.
Spaventato dalla catastrofe naturale e sconvolto dal tumulto del popolo, Quinziano fece ricondurre la santa in carcere, dove spirò, per l’efferata violenza degli ingiusti supplizi. Presto la notizia fu divulgata, il popolo accorse a frotte nel carcere, tumulando la vergine e martire in un luogo sicuro con ogni onore. Un giovane, sconosciuto ai cittadini di Catania, accompagnato da cento fanciulli splendidamente vestiti, depose una tavoletta marmorea nell’urna funeraria, vicino il capo della santa, scrivendovi queste parole divenute celebri: «Mente santa, spontaneo onore a Dio e liberazione della patria».
Avendo quindi sigillato la cassa, partì e nessuno lo vide più a Catania, per cui è opinione diffusa credere che fosse l’angelo della martire. Dopo la morte della giovane eroina, Quinziano, si recò a Palermo per confiscare le sue proprietà, ma morì proprio durante questo tragitto, mentre guadava il Simeto. A questo punto è narrato un miracolo post mortem, la cui tradizione pare derivare da una testimonianza oculare: l’anno successivo, proprio il giorno dell’anniversario della sua morte, il 5 febbraio, il monte Etna incominciò ad eruttare e poiché minacciava di distruggere tutta Catania, coloro che abitavano intorno e vicino al monte si recarono al tempio della martire e, preso il velo che ricopriva la sua urna, lo misero davanti al fuoco, che si arrestò immediatamente. Da allora, è consuetudine, per gli abitanti di Catania, portare in processione tale velo per arrestare le colate laviche delle più devastanti eruzioni etnee.
2. Agata, donna virile di Cristo (4)
Agata, mulier virilis di Cristo e il suo martirio, come forma di salvezza, si pongono su un piano di eccezionalità in quanto la martire ha reso testimonianza a Cristo con il suo supplizio, che, nella sua cruenta emblematicità, ha assunto tratti straordinari all’interno della storia culturale delle persecuzioni della prima cristianità del sec. III d.C. Agata, quindi, è una vergine e martire, morta sia per la fede sia per la salvezza della propria pudicizia e, in quest’ottica, la sua morte ha una duplice finalità: da un lato si salda con la certezza della resurrezione; dall’altro si collega con l’imitatio Christi o cristomimesi, perché Cristo è da sempre considerato il martire per eccellenza. Pertanto, il martirio della vergine Agata, virile donna di Cristo, assume il valore di modello a fini edificanti in seno alla difesa della cristianità.
Agata, vergine e martire, rappresenta la mulier virilis , cioè la donna virile, che si distacca dal modello delle altre donne tradizionali in quanto ha saputo reagire con ferma determinazione al dolore superando le debolezze della gracilità del suo stesso sesso sul piano fisico ma anche morale: è l’ideale di una figura femminile spiritualmente virile in quanto ha avuto la forza non solo di accettare altera ma anche di affrontare impavida il martirio e poi la morte per il suo sposo celeste: Cristo.
Agata, vergine e martire rappresenta, quindi, un virile modello martiriale femminile, alla quale si riconosce una maggiore autonomia, rispetto a quella solitamente concessa o riconosciuta alle donne del suo tempo. Questo nuovo sentimento di sé e questa nuova individualità peculiare, si fonda sulla fede e sulla libera adesione a un credo nuovo. È questa soggettività maschile che avrebbe creato in Agata lo stereotipo della martire virile, che è riuscita a liberarsi dalla debolezza del sesso femminile per affrontare con forza i supplizi cruenti del martirio culminanti nello strazio del seno, simbolo della femminilità, e poi della morte. Agata, vergine e martire, è diventata in virtù di questo martirio, una giovane donna dall’animo virile, che supera quella che solitamente era chiamata debolezza, caratteristica del sesso femminile: ma solo l’anima diventa virile, non il corpo, che combatte la propria terrena battaglia mortale per la fede e, infine, affronta con coraggio la morte abbandonando nel sangue la sua reale esistenza terrena. Ed è proprio in questa spiritualità sublimata che pare evincersi la virilità mascolina di Agata, vergine e martire, che è riuscita ad ignorare l’angoscia dei supplizi, l’orrore dello strazio del seno, il terrore della morte, grazie all’invocazione a Dio, che le ha infuso virilità, forza e coraggio. Contro il comune stereotipo, la vergine e martire per paura del martirio e della sofferenza, invoca Dio perché le dia la forza, quella virile forza indispensabile ad affrontarlo e in cella riceve pure il conforto nella visione della vecchia figura maschile personificante l’Apostolo Pietro, saggia, paterna e tranquillizzante figura che mentre la cura, le infonde pure coraggio. Partecipe della sofferenza di Cristo, Agata vergine e martire è dotata di un eccezionale carisma, che ha avuto, però, un triste epilogo: la morte cruenta.
Nella lotta per affrontare il processo e il martirio, la vergine Agata, ha avuto bisogno di trovare una forza più grande di sé nella propria fede e già apologisti e agiografi hanno da tempo adattato a quest’esperienza cristiana un termine desunto dal linguaggio agonistico pagano: atleta. Infatti, in un primo tempo, il martire era rappresentato dai cristiani come una vittima sacrificale, come l’agnello di dio immolato ma, a questa immagine del Christus patiens terreno, presto si è sostituta (già dal secondo secolo), quella dell’atleta di Cristo, cioè di chi gareggiava con successo, riportando la palma della vittoria contro i pagani.
L’immagine dell’atleta vittorioso, nella volontà cristiana, riflette il tentativo di costruire per i martiri un ruolo vittorioso, ricorrendo proprio ad immagini care ai pagani desunte dall’atletica, che puntava proprio sulla competitività: agon è la prova affrontata; agonistai o athletai sono gli stessi martiri; stephanos è la palma della vittoria. Per Agata, vergine e martire, rivestirsi dell’atleta di Cristo, significa trascendere la propria identità femminile e riconquistare una sorta di androginia primordiale.
La potenza e la forza della vergine Agata emerge proprio quando il martirio tocca la fragilità del corpo femminile, risaltandone la forza virile nella sua capacità di resistenza ai cruenti martiri e di superamento del dolore fisico, nella capacità di resistenza del suo vergine corpo all’annullamento della propria identità e della propria integrità fisica e morale. Quindi, Agata, vergine, martire e mulier virilis riflette un mutato modello di prospettiva in cui viene considerato il martire: non più umile, ma fermo e saldo testimone della salvezza nella fede alla divinità di un unico Dio, atleta vittorioso di Cristo proprio attraverso l’audacia della sfida lanciata al persecutore Quinziano nell’interrogatorio e nella sovrumana capacità di resistere a tutti i cruenti supplizi.
Oltre a ciò, la nobile origine di Agata, riflette il decisivo ruolo delle nobili e facoltose matrone nella diffusione del cristianesimo nei primi secoli dell’era cristiana e il potere della vergine e martire è pure rafforzato proprio dalla centralità del suo martirio e dalla forza protettrice e rassicurante di Dio.
3. Il celebre miracolo di Costantinopoli: l’olio traboccante dalle lampade(5)
A Costantinopoli nella prima metà del sec. IX d. C., proprio il 5 febbraio si verificò un miracolo, ormai celebre: in una chiesa, intitolata ad Agata, incominciò prodigiosamente a traboccare l’olio di alcune lampade votive.
Il celebre miracolo di Costantinopoli è narrato da Metodio, un erudito e dotto ecclesiastico siciliano, nativo di Siracusa (sec. VIII d. C.), che si recò a Costantinopoli, che allora era la capitale dell’impero bizantino, per proseguire gli studi umanistici e per fare carriera burocratica. Ma lì fu rapito da un fervente amore per la vita ascetica e abbracciò, quindi, la vita monastica. Tra l’815 e l’821 fece poi ritorno a Roma, dove curò una collezione di vite di santi. In seguito rientrato a Costantinopoli, fu perseguitato dagli imperatori iconoclasti Michele II e da Teofilo per il suo appoggio al culto iconodulo.
Nell’843, dopo la morte di Teofilo, Metodio salì sul soglio patriarcale di Costantinopoli che detenne fino all’847, anno della sua morte. Tra l’830 e l’847 Metodio compose, nella ricorrenza della festa agatina, l’Encomio di sant’Agata in cui espose il martirio della vergine, seguendo la tradizione greca ed aggiungendo anche il celebre miracolo dell’olio traboccante dalle lampade, ammantandolo, all’inizio, da un voluto e suggestivo alone di mistero. Infatti, da abile e forbito oratore quale era, inizialmente ci presenta tale miracolo come uno straordinario prodigio di cui muti testimoni erano solo gli astanti silenti e sbigottiti in preda allo stupore e alla meraviglia: all’inizio Metodio tace volutamente la natura del prodigioso evento, allo scopo di accrescere la suspence e la curiosità che così incita indubbiamente i lettori a leggere d’un fiato le vicende del martirio fino alla fine. È, infatti, solo alla conclusione dell’esposizione che Metodio espone finalmente la natura del prodigioso evento senza, tuttavia, a lungo soffermarvisi, proprio al fine di accrescere ancora lo stupore e la meraviglia dei lettori antichi ma soprattutto dei posteri e dei moderni ma tace la posizione delle lampade traboccanti l’olio. Non sappiamo, cioè, se esse erano poste davanti ad un’icona o sopra l’altare o se, infine, se erano sospese né aggiunge qualche particolare artistico o archeologico. Infatti, in quanto teologo, Metodio persegue un altro obiettivo: fare comprendere il significato e l’importanza, per gli abitanti di Costantinopoli nel sec. IX d. C., dell’olio traboccante dalle lampade votive.
E così, richiama alla memoria la ricorrenza, nel primo anniversario del martirio della vergine, della famosa eruzione dell’Etna, facendo ricorso, da abile dotto ed erudito, ad una serie di citazioni letterarie e non mancando di ricordare che quell’eruzione fu miracolosamente arrestata grazie all’esposizione del velo della martire. E suggestivo è pure il paragone evidenziato dal profondo conoscitore di cose sacre, che, proprio per la sua emozionante potenza evocativa, non possiamo esimerci dal riportare: nel primo anniversario del cruento martirio della giovane vergine Agata, si assistette a Catania all’eruzione della lava dall’Etna: dal vulcano fuoriuscì un inarrestabile flusso di fuoco che si scontrò inevitabilmente con un altro non meno ardente flusso e cioè quello dell’amore della vergine Agata per il suo sposo celeste: Cristo. Accadde, allora, che il primo flusso, altamente distruttivo e mortale, fu sconfitto dal secondo, più potente per l’imperiosa forza del più puro dei sentimenti: il divino amore che su tutto trionfa, imponendosi ed ergendosi incontrastato in tutta la sua sovrumana potenza.
E fu così che la distruzione e la morte fu sconfitta da una potente forza costruttiva e vitale: l’amore. Ed ecco un sapiente fluire di immagini in Metodio, la cui scelta non è casuale ma mira a introdurre Agata, santa siciliana, a Costantinopoli, in una nuova dimensione e in una nuova realtà: quella del miracolo dell’olio. In tale modo vengono volutamente rievocate le memorie siciliane della martire: il distruttivo fuoco dell’Etna, le lampade ardenti, il liquido olio traboccante dalle lampade e l’immancabile effondersi del minaccioso flusso della lava del vulcano. Il patriarca di Costantinopoli, il siciliano Metodio, testimone oculare e narratore del prodigioso evento, ha visto in questo portentoso fatto un mezzo tanto prezioso quanto efficace di attivazione e/o riattivazione dei complessi rapporti tra la martire di Sicilia e la capitale dell’impero bizantino, Costantinopoli, profondamente radicata, in quel tempo, nella cultura cristiana.
Nemmeno casuale è il fatto che il prodigioso evento riguardi proprio l’olio, assai ricco di reminiscenze bibliche e valenze simboliche strettamente correlate con il miracolo in quanto l’olio è un potente strumento di polivalenti taumaturgie (con l’olio sono state da sempre operate molteplici e svariate guarigioni ed esorcismi). E ancora, Metodio riporta, in greco, il celebre inciso su una tavoletta marmorea che, secondo una consolidata e inveterata tradizione popolare, un angelo avrebbe adagiato nella tomba della martire, accanto al suo capo. Metodio pur conferendo veridicità a tale iscrizione, aggiunge, tuttavia, un particolare denso di significato: Agata non può più essere definita solamente una liberazione della patria, in quanto proprio quell’annuale miracolo dell’olio traboccante dalle lampade a Costantinopoli, apriva all’eroina di Cristo nuovi orizzonti cultuali e devozionali, rendendo fattibile il contatto della vergine e martire con la quotidianità di Costantinopoli, allora capitale dell’impero bizantino. E, in virtù di questo nuovo miracolo, esposto per mano di Metodio di Siracusa, poi patriarca di Costantinopoli, Agata diventa pure una santa bizantina: il miracolo dell’olio evocava il fuoco ardente dell’Etna, il potente flusso lavico, perpetuando così le più antiche memorie di Sicilia e legando in un continuum storico, devozionale e tradizionale Catania a Costantinopoli, anziché a Roma, come invece, vuole l’esemplare politica ecclesiastica di Gregorio Magno nei confronti della Sicilia.

4. La devozione
Nel caso di Agata, è molto stretto il rapporto sia tra agiografia e drammaturgia della santità sia fra iconografia e drammaturgia.
Il nome di Agata, ricorre:
- associato a quello di Lucia, nel Martirologio Geronimiano in varie date: 5 febbraio, 12 e 25 luglio, 5 ottobre, 6 dicembre
- inserito nel Canone della messa di Roma, Milano e Ravenna già dal sec. V
- inserito nel Martirologio della Chiesa di Cartagine, già dal sec. VI
Pare che il testo liturgico più antico su Agata sia quello vergato da Ambrogio(6). Agata è pure menzionata, a partire dal sec. V, nel Sacramentario di papa Gelasio I, in quello del papa Gregorio Magno, che fu in vigore fino a quando non lo riformò prima Pio V [Antonio Ghislieri] e poi il Concilio Vaticano II. Pare, inoltre, che l’Ufficio Romano delle Ore sia nato a Catania e successivamente importato a Roma, dove papa Gregorio Magno lo avrebbe poi rimaneggiato. I formulari liturgici mozarabici di Isidoro derivano, invece, dalla liturgia orientale dei Goti. Quando la Sicilia passò sotto il controllo di Costantinopoli, probabilmente molti furono i formulari liturgici greci in uso pure a Catania; così anche l’innografia greca in onore di Agata, a fini liturgici, dovette essere consistente così come le testimonianze nei martirologi e nei rituali.
Il culto di Agata si è precocemente irradiato dal Mediterraneo e velocemente diffuso sia in Oriente sia in Occidente. Dalla Sicilia e da Malta il suo culto raggiunse presto Roma per rinvigorire i complessi rapporti tra Sede Apostolica e Sicilia tanto che presto papa Simmaco sulla via Aurelia fece edificare una basilica che dedicò alla vergine e martire; papa Gregorio Magno ne fece erigere un’altra nella Suburra intitolandola ad Agata. Nel Medioevo la devozione a Roma per la vergine Agata si rafforzò ancora a tal punto che le furono innalzate e intitolate chiese in varie parti della Capitale: sul Celio, sul Monte Mario e in Trastevere.
Anche le testimonianze archeologiche, oltre agli atti martiriali, sembrano attestare una diffusione immediata del culto per la martire da Catania nei centri abitati limitrofi, ma anche nella Sicilia occidentale: è in latino un’epigrafe risalente al sec, IV, rinvenuta a Catania: essa offre un’interessante notizia relativa ad una bambina, di nome Iulia Florentina, che, morta in tenerissima età, ad appena diciotto mesi a Hybla, fu battezzata proprio in punto di morte e tumulata in prossimità delle tombe dei martiri; è pure in greco un’epigrafe rinvenuta ad Ustica e coeva alla precedente: essa offre notizie della commemorazione di una donna di nome Lucifera, morta proprio nel giorno della ricorrenza della vergine e martire Agata. Queste due testimonianze epigrafiche sembrano suffragate anche dagli atti greci del martirio di Lucia, vergine e martire di Siracusa, martirizzata 53 anni dopo Agata, durante la persecuzione di Diocleziano, nel 304: tutte comprovano la consuetudine dei pellegrinaggi alla tomba di Agata sin dall’antichità. La giovane Lucia si era recata da Siracusa in pellegrinaggio a Catania per implorare sul sepolcro della martire Agata la guarigione della madre, affetta da un inarrestabile flusso di sangue. Si tramanda che Agata, apparsa in sogno alla vergine Lucia, mentre da un lato la rassicurava dell’esaudimento della sua supplica, dall’altro, invece, le prediceva il suo futuro martirio.
Anche a Roma il culto della martire si diffuse rapidamente: già nel sec. V, papa Gelasio I attesta l’esistenza di una basilica a Roma dedicata a S. Agata; papa Simmaco fonda a Roma una chiesa intestata a S. Agata; il vescovo Giovanni Angeloptes attesta a Ravenna l’esistenza di una basilica intestata alla vergine e martire. Più tardi, il generale Ricimero, durante il suo combattimento in Sicilia contro l’esercito di Genserico (metà sec. V), venne a conoscenza della fama di Agata, così, quando fece ritorno nell’ Italia settentrionale, volle intitolare a Sant’Agata dei Goti l’antica città sannita di Saticola; inoltre a Roma intestò pure una basilica a S. Agata.
Nella metà del sec. VI Agata la si riscontra in Istria, nei mosaici della basilica di Parenzo e, più tardi, anche a Ravenna, nei mosaici di S. Apollinare Nuovo. Sotto Gregorio Magno il suo culto continuò a propagarsi inesorabilmente, tanto che a Roma il papa le dedicò la basilica di s. Agata nella Suburra, che prima era ariana, inoltre, le fece consacrare a Palermo il monastero latino Lucuscanum che fu cointestato a S. Agata e S. Massimo, incaricò pure il vescovo di Sorrento di riporre le sue reliquie a Capri, precisamente nel monastero di S. Stefano.
Il 5 febbraio di ogni anno si assisteva a Costantinopoli, in una delle due chiese dedicate alla vergine e martire Agata, come si diceva, al miracolo dell’olio traboccante dalla lampada. Tale prodigioso evento è conosciuto anche dalla tradizione occidentale: pure a Roma, infatti, nella chiesa di S. Agata in Suburra, dedicatale da Gregorio Magno, le lampade si accesero miracolosamente durante la cerimonia di ridedicazione alla vergine e martire della basilica che, una volta, era stata ariana. Questo episodio, come abbiamo visto, è esposto nel celebre encomio pronunziato per la festa della santa da Metodio di Siracusa, divenuto patriarca di Costantinopoli durante il periodo iconoclasta.
Fin dal Medioevo, Agata fu venerata non solo in Sicilia e in Italia (Milano, Piemonte, S. Marino) ma anche in Francia, presso popolazioni bizantine, africane, germaniche e romanze fino alla lontana Scandinavia. Tale diffusione sembra dovuta sia a missionari romani presso popolazioni longobarde dell’Italia settentrionale, sia alla presenza del suo nome nel Martirologio Geronimiano e all’introduzione del suo nome nel canone della messa accanto a quello di un’altra illustre martire di Sicilia: Lucia di Siracusa.
Nel periodo islamico il culto di Agata subisce, tuttavia, un marcato affievolimento anche in considerazione del trasferimento delle sue reliquie da Catania a Costantinopoli, nel 1040, ad opera del generale bizantino Giorgio Maniace. Infatti, il sepolcro vuoto della martire non ne alimentò più il culto, venendo meno proprio la consuetudine dei pellegrinaggi. Ruggero il Normanno si trovò di fronte a popoli di lingue e culture diverse: greci, arabi, ebrei, amalfitani, ecc.; non solo, ma i cristiani stessi erano divisi in tre riti: arabo, bizantino, latino. Vista la situazione, il suo progetto mirava al ripristino del cristianesimo e del rito latino, e, a tale fine, fondò a Catania un’abbazia benedettina, dedicata a S. Agata, che fece reggere dal vescovo bretone Ansgerio (1092), affidandogli pure il governo della città. Quindi, nelle mani di una sola persona, appositamente designata da Ruggero, coesistevano tre tipi di autorità: civile, episcopale e monastica.
Fu importante nel periodo normanno il ritorno delle reliquie di Agata da Costantinopoli a Catania (1126, cioè 86 anni dopo), che ne fece rifiorire il culto alimentando nuovamente i pellegrinaggi. Stando alla testimonianza del vescovo normanno Maurizio, dopo il trafugamento delle reliquie, perpetrato a Costantinopoli dai soldati Gisliberto e Goselino, esse furono traslate al castello di Aci e poi nella Cattedrale di Catania(7). Ma, come spiegare i disastrosi eventi (terremoti ed eruzioni) che seminarono distruzione e morte, malgrado le suppliche alla santa? A proposito dei disastrosi eventi del terremoto del 4 febbraio 1169, che provocò la morte di circa quindicimila persone e di quello ancora più devastante del 1693 e, a proposito delle grandi eruzioni dell’Etna del 1669, nel corso delle quali neppure il velo della martire riuscì ad arrestare l’impetuoso fiume di fuoco, si è parlato di insensibilità della martire a causa dei gravi misfatti del popolo di Catania.
Invece, risultarono prodigiosamente efficaci le suppliche dei devoti, che portarono alla cessazione delle eruzioni dell’Etna, rispettivamente del 1444 (processione guidata dal beato Geremia) e del 1886 (durante l’eruzione che minacciava di distruggere il comune di Nicolosi, l’arcivescovo Dusmet invocò il patrocinio della santa); la fine della peste rispettivamente del 1576 (quando le reliquie della santa furono portate nell’ospedale della città, la peste cessò) e del 1743 (quando una statua della santa fu posta su una stele, all’ingresso della città, cioè nell’attuale piazza dei Martiri, la città fu liberata miracolosamente dalla peste). Nella città di Catania, un tempo, si celebravano tre ricorrenze, in onore della vergine e martire Agata:
- 5 febbraio, che era la ricorrenza del suo martirio e anche il suo dies natalis
- 17 agosto, che era la ricorrenza della traslazione delle reliquie a Catania dopo essere state trafugate a Costantinopoli (introdotta nel 1126)
- 17 giugno, che era la ricorrenza della cessazione della peste del 1576, oggi non è più celebrata.
Vari sono i miracoli attribuiti dalla pia devozione popolare alla santa sia a beneficio degli abitanti di Catania, sia beneficio della stessa città: avrebbe salvato, come abbiamo detto, più volte la città dalla lava dell’Etna, dall’assedio di varie popolazioni nemiche nel corso dei secoli
Oltre che dell’arcidiocesi di Catania, Agata è protettrice anche della diocesi di Gerace in Calabria, dell’Isola di Malta e della Repubblica di S. Marino.
5. Culti pagani e loro influsso
Secondo un’inveterata tradizione, il culto di Agata sarebbe stato influenzato da culti pagani femminili assai diffusi originariamente in Sicilia, come ad es. quello delle Veneri locali, tra le quali: Afrodite, Demetra, Iside, Persefone-Kore, Venere-Astarte Ericina. Tracce di questa affinità si riscontrano, tra l’altro, nel confronto tra l’antico corteo in onore di Iside, in cui i fedeli indossavano un camice bianco, e la processione dei devoti di Agata durante la festa locale (ma anche a S. Marino, ov’ è pure a tutt’oggi diffuso il culto della martire, sfilano in processione delle giovinette vestite di bianco) in occasione della sua festa nella ricorrenza del suo martirio e del suo dies natalis (il 5 febbraio), che ancora oggi indossano il tradizionale abito bianco, denominato «sacco», che, a simboleggiare umiltà e penitenza, è stato indossato per la prima volta dagli abitanti di Catania nel 1126, quando essi, preceduti dal vescovo Maurizio, si erano recati fuori le mura della città per accogliere le reliquie della martire trafugate a Costantinopoli dal francese Gisliberto e dal calabrese Goselino. Erano detti ignudi coloro che lo indossavano ed erano soliti recare a spalla, come offerte votive, enormi ceri (le cosiddette candelore, che a tutt’oggi i devoti sono soliti portare in processione)(8).
Conclusione
È inquadrato nel cruento scenario martiriale della prima cristianità nella Catania del sec. III, l’efferato supplizio della giovane Agata, vergine e martire, che, nella sua gracile figura femminile rivela, tuttavia, una prodigiosa e straordinaria forza interiore, costantemente alimentata dalla potenza della fede in Dio, che giammai fa desistere la vergine dall’affrontare impavida i supplizi, neppure di fronte al più alto dei tormenti perpetrato alla sua femminilità da una mente umana perversa, ignobile, esecrabile e spietata nella sua ferocia: lo strazio e l’amputazione della mammella. E su questa delicata immagine femminile, incastonata in un cruento quadro e immersa in un bagno di sangue aleggiano le note soavi del canto gregoriano, inneggiato, a suscitare palpitanti emozioni in quell’atmosfera tutta fiabesca e surreale delle prime luci dell’alba, a salutare il giorno che nasce, dalle voci delle clarisse benedettine nella magica via Crociferi di Catania, per celebrare il rientro della santa, al termine dell’annuale processione:
«Stando la beata Agata all’interno del carcere, tese le mani al cielo, pregava Dio con tutta la sua mente: Signore Gesù Cristo, buon Maestro, ti rendo grazie perché mi hai permesso di superare i tormenti dei carnefici, fa, o Signore, che io possa felicemente pervenire alla Tua eterna gloria»(9).
Le armoniose evanescenti e appena percettibili (tale è la delicatezza della loro armonia!), voci angeliche delle conventuali benedettine, sembrano scendere proprio dal cielo a irrorare di beatitudine la femminilità agatina, pure essa evanescente e appena palpabile eppure trionfante nella casta pudicizia del candore verginale, raffigurata e rammemorata nell’antinomia femminilità/androginia, gracilità/forza. Un aspetto significativo delle immagini è proprio la rievocazione della memoria, essendo il culto agatino espresso sia in momenti liturgici che in momenti non-liturgici assai incisivi nell’aspetto cultuale e devozionale. È importante, quindi, il rapporto tra iconografia e memoria e in quest’ottica l’iconografia è intesa proprio come memoria, sottolineando il legame tra memoria e icona e puntualizzando sull’analogia icona-ricordo ad perpetuam rei memoriam. Anche per gli antichi Greci la memoria era una fonte di immortalità, così come Mnemosine (dea della memoria, figlia di Urano e Gea, che con Zeus generò le Muse) era la dea che si opponeva a Lete (l’oblio. Era un fiume infernale che scorreva nei Campi Elisi; le sue acque, che le anime dei morti dovevano bere, avevano il potere di fare dimenticare la vita trascorsa). Affinché il rapporto con il passato non rimanga però solo sterile e declamatorio, il martirio di Agata ha saputo trasmettere il messaggio più recondito che dal passato ci è giunto, non solo sapendolo leggere e interpretare ma pure vivificandolo nel presente al fine di impostarvi insegnamenti per il futuro. Non si può certamente ridurre a mera retorica l’accostamento alla memoria, in quanto la memoria non significa restare irretiti in un mondo che è stato e che ora più non è, né implica restare necessariamente prigionieri di un passato ormai morto, significa, invece, riconoscere la valenza di quel mondo, irrimediabilmente perduto, per assumerlo a modello del presente: uno sguardo nel passato per porre le basi del futuro.
Ma, Mnemosine è possibile senza Lete? Trascendere e/o obliare i consueti canoni dell’iconografia di Agata non implica necessariamente la rinnegazione del passato, significa, invece, non trascinare ciò che è stato, come un peso inerte ma sublimarlo e renderlo assoluto, universale ed eterno. Pertanto l’exemplum agatino oggi acquista un senso nuovo non solo quando annualmente ripropone ciò che è stato ad perpetuam rei memoria ma quando lo rende vivo, non solo quando si limita a rammemorare una morte definitiva che non prevede più rinascita materiale ma quando tra i vivi di oggi ne celebra la vividezza e il nostalgico rimpianto. In questo senso si può collegare l’umile eroina di Cristo, ignobilmente torturata, con la necessità di prolungarne l’ideale e le virtù nel presente e le sue sacre icone sono inevitabilmente connesse con una forma di magia simpatetica, in cui il simile agisce con il simile nell’indubbio desiderio di perpetuarne la memoria tra i vivi e assicurarne sempre il potere taumaturgico. Ma, in senso metaforico si allude pure mitridatizzazione della stessa natura di Agata, sia nel corpo che nello spirito.
E così Agata appare alla nostra memoria in tutto il suo pudore infinito, leggiadria nella sua femminilità, soffusa e languida nel mesto candore verginale. Le scene del martirio di Agata, vergine e mulier virilis di Cristo, diventano nell’annuale pia devozione popolare, funzionali a visualizzare il contrasto tra la fragilità della vergine e la sua sovrumana grandezza, celebrata nel coraggio e nella forza della giovane vergine con il richiamo alla tortura e alla morte e con il conseguente connesso repertorio di dettagli assai cruenti in un crescente contrappunto di palpitanti sensazioni dense di una suggestione dall’afflato altamente evocativo, che, partendo dai supplizi culmina infine nella morte cruenta. La vergine Agata ha offerto alla memoria dei devoti un modello martiriale di lotta e di combattimento come comportamento femminile da imitare; un modello di giovane mulier virilis della prima santità martiriale femminile; un modello dell’ indissolubile legame tra verginità e martirio, avendo la giovane donna strenuamente difeso fino alla morte e alla morte cruenta la castità del proprio corpo dalla lussuria, un modello di perfezione, incentrato sull’astinenza sessuale del corpo tentato eppure vittorioso sull’oscura pulsione dei sensi della debole carne. La memoria che Agata offre del pudico corpo femminile, contiguo alla lussuria (Afrodisia e le sue figlie) ma sempre inviolato, rafforza l’efficacia pedagogica del messianico messaggio martiriale: l’oscuro stimolo della concupiscenza della carne sottolinea la conflittualità che la scelta della verginità comporta per la giovane martire cristiana ai fini della salvezza eterna. Infatti, la conflittualità con il corpo, rappresenterà, poi, nel monachesimo la conflittualità con il saeculum e quindi, come affermava Cipriano, seguire Cristo, significava un perpetuo martirio, sine cruore ma sempre martirio: la sessualità era un continuo rischio che la fragile carne umana correva giorno dopo giorno per cui l’astinenza sessuale diventava un esempio del bisogno di sottomettere il corpo, sottoposto all’immane sofferenza del mondo e a dura disciplina. Il modello martiriale agatino, nel processo, è esemplato in un susseguirsi di immagini mnemoniche della vergine e martire in un crescendo gioco di mestizia e languore. Eppure una sottile e soffusa malinconia tutte le pervade: il suo martirio è un altalenarsi di binomi di dolcezza e furore, di speranza e ferocia, di fede e bramosia, di candore e orrore, di sangue e invocazioni. Palpita in ogni scena del processo e delle torture una soffusa malinconia mista a speranza: la mestizia la si coglie là nelle suggestive ed evocative scene del martirio, dello strazio al seno, della tortura, dei pettini che dilaniano la giovane carne; la speranza la si coglie là nella visione dell’apostolo Pietro preceduta da un giovane virgulto che tiene in mano la lampada, visione densa di molteplici significati simbolici: da un lato indica la luce, profusa da mano innocente e casta come pudico e innocente era il corpo della giovane vergine del quale ovunque si coglie un delicato candore; dall’altro il gusto molto singolare del fine realismo psicologico, che si alterna fra passato e presente rappresentati da un lato dalla saggia vecchiaia (il canuto Pietro), dall’altro dall’innocente giovinezza (il fanciullo e la vergine) in una sorta di continuità tra passato (vissuto da Pietro con Dio e in Dio) e presente (vissuto dalla giovane con i suoi progetti di fede e le sue realizzazioni tra i più atroci spasimi) e in questo iter continuativo il passato diventa linfa vitale del presente e nel presente in quanto da questo passato Agata trae alimento per la propria condizione attuale pur dolorosa. Agata ora sa che i suoi sogni in difesa di Cristo si sono realizzati e che quel Dio, al quale ha profuso lacrime e innalzato preghiere nei momenti di umano sconforto, non l’ha disingannata né abbandonata. Il profilo agatino, qui presentato, evidenzia la quiete e la sicurezza di un’eroina cristiana che, ancora oggi, non manca di impartire ammaestramenti con saggezza tutta femminile. In questo gioco languido e sottile di opposti il candore è destinato a primeggiare e l’alba della divina Grazia rifulgerà nel dolce bagliore di quel sangue innocente, ingiustamente versato nel solo nome di Dio. La femminilità è tramandata in tutto il suo candore verginale, in tutta la sua giovanile bellezza e in quella dignitosa scelta di volere essere modello di martire cristiana che con superbo orgoglio e tenacia difende impavida la sua pudicizia e la sua fede. E in quel bagno di sangue e in quello strazio innocente è proprio la fede che trionferà e librerà in alto in tutta la sua fulgida potenza.
Note
1) Su Agata, si rimanda al puntuale studio: M. Stelladoro, Agata. La Martire, Milano, Jaca Book 2005 (Donne d’Oriente e d’Occidente 16); Ead., ad vocem, in M. Fiume (a cura di), Siciliane, Siracusa 2006, pp. 43-46.
2) Su Euplo/Euplio, martirizzato lo stesso anno di Lucia di Siracusa e cioè nel 304, esattamente 53 anni dopo Agata, si rimanda a M. Stelladoro, Euplo/Euplio martire. Dalla tradizione greca manoscritta, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006.
3) Patrologiae cursus completes. Series graeca, a cura di J. P. Migne, 1857-1866, spec. 114, coll.
1331-1346.
4) Per un maggior approfondimento si rimanda a M. Stelladoro, I Martiri: Vergini e Mulier Virilis, Testimoni e Atleti della salvezza, in Pagani e Cristiani alla ricerca della salvezza (secoli I-III). XXXIV.Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma 5-7 maggio 2005), Roma 2006, pp. 107-135 [Studia Ephemeridis Augustinianum 96]. Utile anche Stelladoro, Agata, pp. 43 ss.
5) Al riguardo si rimanda agli studi di C. Crimi, S. Agata a Bisanzio nel IX secolo. Rileggendo Metodio patriarca di Costantinopoli, in Euplo e Lucia 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Convegno di Studi, Catania-Siracusa, 1-2 ottobre 2004 (in corso di stampa); Id., Ancora sull’encomio” lacerato”. Due epistole inedite di Emerio Bigot a Leone Allacci, in Synaxis 5, 1987, pp. 261-275; Id., L’Encomio “ lacerato “. A proposito di un apocrifo secentesco su S. Agata, in Synaxis 3, 1985, pp. 387- 412; E. Mioni, L’encomio di S. Agata di Metodio Patriarca di Costantinopoli, in Mélanges, Paul Peeters, Analecta Bollandiana LXVIII, 1950, pp. 58-93.
6) Cfr. A. Longhitano, Il culto di s. Agata, in V. Peri (a cura di), Agata la santa di Catania, Gorle,
1996, pp. 67-125. Al riguardo anche Stelladoro, Agata, cit.
7) Sulla duplice traslazione delle reliquie di Agata da Catania a Costantinopoli e ritorno, si rimanda all’apposito capitolo in Stelladoro, Agata, pp. 71 ss. (con bibliografia).
8) Di seguito riportiamo un elenco delle principali divinità pagane, il cui culto avrebbe influenzato quello di Agata:
- Afrodite, dea della bellezza, dell’amore e dei vincoli coniugali, la cui nascita è circondata da
molte mitiche leggende. Secondo Omero nacque da Zeus e dalla ninfa Dione; secondo altri da Urano e Gea; mentre, secondo Esiodo Afrodite nacque dalla spuma del mare, fecondata dai genitali di Urano, gettati in mare da Crono, che aveva evirato il padre, in preda a un incontenibile moto di ribellione. Emersa nuda dalle acque, sopra una conchiglia di madreperla, Zefiro spinse Afrodite fino all’isola di Citera e poi a Cipro, dove fu ricevuta dalle Ore, che la rivestirono e la incoronarono. Condotta sull’Olimpo fu accolta con ammirazione e giubilo da tutti gli dei, che rimasero estasiati dalla superba bellezza di Afrodite tanto che persino Athena e Artemide ne subirono il fascino. Zeus, però, la concesse in moglie al deforme Efesto, per ricompensarlo di avergli forniti i fulmini nella guerra contro i Giganti; tuttavia stabilì pure che la bellissima Afrodite elargisse il suo amore a molti altri mortali e immortali. Infatti Afrodite rappresentò sempre l’amore. Compagni di Afrodite erano le Cariti, il Riso, gli Amori, i Giochi: la dea di tutti si serviva per conquistare il cuore degli dei e degli uomini. Fu pure involontaria causa della sanguinosa guerra di Troia, favorendo l’unione tra Paride ed Elena, moglie di Menelao. In seguito venne distinta in Afrodite Urania adorata come “amore spirituale” e Afrodite Pandemia, adorata come “amore terreno”. Ebbe un culto assai diffuso e fu onorata anche come protettrice della navigazione; le città che maggiormente la venerarono furono Cipro, Citera, Corinto e Argo. Tra le piante le erano sacre il mirto, la rosa, il melo e il papavero; tra gli animali il passero, la colomba, la lepre, il capro, il cigno, la tartaruga e il delfino. I Romani la identificarono con Venere. - Demetra, dea delle piante e delle biade, personificava la forza generatrice della terra. Figlia di
Crono e di Rea, sorella di Zeus e di Ades, fu madre di Persefone. Il mito e il culto di Demetra sono strettamente legati proprio al rapimento della figlia Persefone. Demetra insegnò l’agricoltura agli uomini, che vagavano per i boschi e si nutrivano di ghiande. Fu pure chiamata Thesmophoros, cioè legislatrice, in quanto istituì le leggi che governavano la convivenza civile. Da Iasone, un nume della terra fertile, generò Pluto, dio della ricchezza (perché dall’agricoltura, secondo gli antichi, si traeva la ricchezza), ma Zeus, geloso, accecò Iasone, quindi si unì a Demetra, che ebbe da lui una figlia, Persefone o Kore. Ades la rapì mentre un giorno, assieme ad altre giovani donne, raccoglieva fiori in Sicilia. Zeus aveva dato ad Ades il consenso per la sua violenta azione. Demetra, in preda all’angoscia, abbandonò l’Olimpo e, sopra un carro trainato da due draghi alati, vagò a lungo per la terra, alla ricerca della figlia, trascurando l’agricoltura che non diede frutti. In questo suo lungo errare fu rappresentata dagli antichi con due pini, usati come torce e che erano stati accesi nell’Etna. Alla fine, intervenne Zeus, che, per mitigare il dolore della dea, concesse a Persefone di ritornare dalla madre, sulla terra, per due terzi dell’anno. Così, quando Persefone tornava sulla terra, tutta la natura si ridestava e germogliava, ma quando Persefone ritornava agli Inferi, dal suo sposo, la terra piombava nella cupa stagione invernale. Durante il suo lungo errare, Demetra capitò, nelle sembianze di una vecchia, nella città di Eleusi, in Attica, dove fu accolta benevolmente da Celeo, re di quei luoghi. In segno di gratitudine Demetra insegnò a Trittolemo, come lavorare la terra. Demetra ebbe un notevole culto nella città di Eleusi, ma fu pure venerata in Beozia, in Tessaglia, nel Peloponneso, a Megara, a Corinto e in Sicilia. In suo onore si celebravano le Eleusinie e le Tesmoforie. I Romani identificarono Demetra con Cerere e la figlia Persefone con Proserpina. - Iside, insieme con Osiride, fu la più grande divinità degli Egiziani. Questa dea egiziana corrispondeva per i Greci a Io (secondo alcuni mitografi sarebbe da identificare con Io, giunta in Egitto in seguito alle persecuzioni di Era e ivi deificata dagli abitanti), Cibele, Demetra, Ecate, Persefone e molte altre ancora. Secondo Plutarco nacque da Saturno e Rea, era sorella gemella e sposa di Osiride (con il quale si sarebbe unita in matrimonio già nel seno materno) e madre di Horus, con i quali formava una sacra triade. Era apportatrice di vita e di prosperità, ed anche guida e protettrice dei defunti. Attributi della dea erano il serpente e la cornucopia, il loto, le corna e il sistro. Quando il marito fu ucciso da suo fratello Tifone (o Seth, che catturò il fratello Osiride con un tranello, lo chiuse in una cassa e lo gettò nel Nilo), che ne sparpagliò le membra per tutto l’Egitto, Iside le raccolse (trovò, infatti, la cassa in un canneto del delta del Nilo e vegliò il corpo dell’amato sposo morto, ma Tifone, mentre cacciava al chiaro di luna, scorse il cadavere e lo fece in tanti pezzi, che sparse nelle paludi), le ricompose (con l’aiuto di Anubi e lo seppellì a File o ad Abido) e ridiede la vita a Osiride (il quale risuscitò, comparve al figlio Horus e lo addestrò a lottare contro Tifone, che infatti fu vinto dal giovane dio). Secondo gli Egiziani, le inondazioni del Nilo erano provocate proprio dalle copiose lacrime sparse dalla dea per la perdita dello sposo, così malvagiamente assassinato dal suo stesso sangue: il fratello Tifone. I Greci la identificarono con Demetra, Afrodite e Selene. I Romani adottarono il culto di Iside con una certa riluttanza, ma poi questa divinità straniera ebbe largo seguito, specialmente fra le donne che la venerarono come protettrice dei loro amori.
- Venere-Astarte, antica divinità dei popoli italici, presiedeva alla vegetazione. Era dea dei Sidoni e dei Fenici (moglie e sorella di Baal), era considerata dea della luna ma anche madre originaria degli esseri viventi e quindi dea della fecondità e dell’amore. Assimilata dai Romani, fu prima identificata con Libertina, poi con l’Afrodite dei Greci e, come dea protettrice dell’amore coniugale, ebbe numerosissimi templi: a Biblo, Cartagine, Sidone e Tiro. Fu identificata con Afrodite e con Cibele dai Greci, con Iside dagli Egiziani. Ericina è, invece, il sorpannome di Venere, così chiamata perché venerata nel santuario eretto in suo onore dal figlio Erice in Sicilia, sul monte omonimo.
9) «Stans beata Agata in medio carceris, expansis manibus tota mente orabat ad Dominum: Domine Jesu Christe, magister bone, gratias ago tibi, qui me fecisti vincere tormentata carnificum, jube me, Domine, ad tuam immarcescibilem gloriam feliciter pervenire».
Secondo una consolidata tradizione popolare, questo delicato inno sarebbe stato composto per le monache del convento di S. Benedetto di Catania dal Maestro Filippo Tarallo, un devoto musicista siciliano, nato ad Aidone, in provincia di Enna nel 1859 e morto a Catania nel 1918. Fu organista nella Cattedrale di Catania e compositore di musica sacra. Tra le altre sono a lui attribuite: l’ Ester (composta nel 1883) e l’Aglaia (nel 1913: teatro Bellini, Catania). Su di lui si rimanda alla voce curata da G. Idonea, in Enciclopedia di Catania, 1-3, Catania 1987, spec. 2, p. 702; A. Sessa, Il melodramma italiano (1861-1900). Dizionario bibliografico dei Compositori, Firenze 2003 (Historiae Musicae Cultores, 97), sub voce.
Maria Stelladoro è docente ordinario di lettere classiche e specialista in paleografia e codicologia greca presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatistica e Archivistica. Ha pure conseguito un perfezionamento in Studi Patristici e Tardo Antichi presso l’Istituto Patristico Augustiniano della Pontificia Università Lateranense e due perfezionamenti in Paleografia e Codicologia Greca e titolo equipollente al dottorato di ricerca.
Ha pubblicato saggi di agiografica siciliana greco-latina e di paleografia greco-latina su riviste specializzate (Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, Analecta Bollandiana di Bruxelles, Codices Manuscripti di Vienna, Hagiographica del SISMEL, Studi sull’Oriente Cristiano) e ha partecipato a Convegni Internazionali i cui Atti sono stati pubblicati in Studia Ephemeridis Augustinianum di Roma) e a progetti di ricerche pubblicate in Raccolta di Studi Internazionali su Pecia Resourcess en Médiévistiques a Saint-Denis.
Socio ordinario dell’Associazione Italiana per lo Studio dei Santi, dei Culti e dell’Agiografia promossa dal Dipartimento di Studi Storici, Geografici e Antropologici della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tre.
Ha pubblicato la monografia Agata. La martire. Dalla tradizione greca manoscritta, Milano, Jaka Book, 2005. Euplo/Euplio martire. Dalla tradizione greca manoscritta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, Lucia la martire, Jaca Book 2010.