
Amatrice. Tesori di una terra di mezzo di Furio Cappelli
Situata in una conca pianeggiante nell’alta valle del Tronto, a 955 metri di altitudine, Amatrice nasce come insediamento fortificato nell’alto Medioevo, in una posizione di cerniera tra il Piceno, la Marsica e la Sabina. Il suo era un territorio di confine già all’epoca di Augusto, poiché era un lembo della Regio V (Picenum) a ridosso della Regio IV (Samnium). Sin dal 1927 Amatrice fa parte del Lazio, ed è compresa nella provincia di Rieti, ma era in precedenza una città «regnicola» che ricadeva nella provincia dell’Aquila, e prima ancora era parte del Giustizierato d’Abruzzo Ultra (al di sopra del fiume Pescara), una circoscrizione amministrativa creata da Carlo I d’Angiò nel 1273. A complicare le cose, fino al 1965 era compresa nella diocesi della città marchigiana di Ascoli Piceno.
Il castello di Matrice è attestato proprio tra i possessi della Chiesa di Ascoli Piceno in una bolla concessa da papa Leone IX (1052). L’abitato conosce poi sviluppi determinanti nella seconda metà del Duecento, quando acquisisce una compiuta forma di città dal punto di vista amministrativo e urbanistico, nel periodo più travagliato della storia della frontiera tra la Chiesa e il Regno. Rifiutandosi di aderire al partito di Manfredi, subisce nel 1265 per mano dello Svevo una devastante spedizione punitiva. E dopo che Corradino di Svevia, l’ultimo pretendente alla corona, venne sconfitto a Tagliacozzo (1268), Carlo I d’Angiò, nel 1282, dispose che alcune vecchie campane presenti nel convento di S. Francesco di Amatrice fossero destinate alla chiesa cistercense di S. Maria della Vittoria (1274-1283), edificata a ricordo della battaglia presso Scurcola Marsicana.
Passata definitivamente sotto il controllo degli Angioini, Amatrice venne a costituire uno strategico avamposto pedemontano del Regno di Napoli, direttamente sottoposto alla corona. Si ribellò allo stesso re Carlo I nel 1274, durante uno dei tanti sommovimenti delle terre di frontiera, ma nel 1283 venne elogiata da Carlo principe di Salerno (il futuro re Carlo II) per la fedeltà dimostrata al sovrano nella crisi dei Vespri Siciliani, e ottenne il privilegio di organizzare una fiera. Divenne ben presto fiorente e popolosa (contava 5 mila abitanti all’apice del suo sviluppo). Trovandosi tra i Monti della Laga e lo snodo delle vie centroappenniniche, svolse un prezioso ruolo mediatore tra i pascoli d’alta quota e i percorsi dei mercanti, avendo anche modo di esprimere una discreta attività manifatturiera nel campo della lavorazione dei filati di lana. Pannilana di Amatrice erano smerciati a Roma, e nel 1426 erano anche stoccati a L’Aquila, nel magazzino dei Bardi, la famosa dinastia di mercanti fiorentini.
Non a caso, Amatrice si colloca sulla via Picente (la statale 260), un tempo assai frequentata, che connette L’Aquila all’asse della via consolare Salaria nel tratto Rieti – Ascoli Piceno. La città rientrava così in un vivace sistema di rapporti che raccordava il Lazio e le Marche alla «via degli Abruzzi», la nodale direttrice del commercio che nel tardo Medioevo si sviluppava tra Firenze e Napoli. D’altronde, come testimonia tra gli altri il viaggiatore settecentesco Giovan Girolamo Carli, Amatrice era divenuta una tappa d’obbligo sull’itinerario che congiungeva Roma all’Adriatico: percorsa la Salaria fino ad Antrodoco, si preferiva dirottare per L’Aquila, da lì si giungeva appunto ad Amatrice, e solo in seguito ci si ricongiungeva all’antico percorso della strada consolare.
Nonostante le trasformazioni subite nel tempo e i gravi danni causati dagli eventi tellurici, Amatrice ha mantenuto intatte le componenti essenziali del suo particolare assetto urbano, improntato ai principi di simmetria e di regolarità delle «città nuove» angioine, riscontrabili in altre fondazioni di confine: Leonessa, Montereale, Cittaducale, ad esempio. Il rettilineo asse principale (l’attuale Corso Umberto I) incrocia l’ortogonale via Roma in corrispondenza dell’isolata torre civica. Quest’ultima è databile nell’assetto attuale al XV secolo, ma la sua più antica edizione è attestata nel 1293, quando risulta una «torre regia» che visualizzava nello scenario cittadino l’autorità del sovrano. Le cospicue chiese degli ordini mendicanti (S. Francesco e S. Agostino) si situano sulle direttrici principali, a ridosso delle mura civiche: la torre campanaria di S. Agostino (XV secolo), di fianco alla Porta Carbonara, era in origine una torre della cinta difensiva.
La chiesa di S. Maria delle Laudi (oggi S. Emidio), già attestata nel 1398 ma ampiamente ristrutturata in molteplici fasi, accoglie il Museo Civico «Cola Filotesio», istituito nel 2002 in onore del versatile pittore e architetto meglio noto come Cola dell’Amatrice (1480 ca. – 1547 post), che ha legato il suo nome, tra l’altro, alla superba facciata di S. Bernardino a L’Aquila. L’esposizione, molto accurata, offre un piacevole spaccato dell’arte sacra del territorio che ben dialoga con gli affreschi del XV secolo e con gli arredi originali dell’edificio. Tra le oreficerie del Quattrocento spicca l’elaborato Reliquiario della Filetta eseguito nel 1472 dall’ascolano Pietro Vannini, racchiudente uno splendido cammeo romano con l’immagine di una nobile donna, interpretata come un’immagine della Madonna a seguito del miracoloso rinvenimento. Ma l’opera esposta di gran lunga più preziosa è l’icona di Cossito, una tavola d’altare di altissima qualità che può essere annoverata tra i dipinti più significativi del Duecento italiano, nonostante la scarsa attenzione che le è stata sinora accordata.
Già conservata nella chiesa della frazione Cossito, la tavola era in origine corredata da due ante laterali mobili che raffiguravano scene della vita della Vergine, ridipinte in epoca più tarda. La sua datazione può essere avanzata solo sulla base dell’analisi stilistica. I pareri in merito oscillano grosso modo tra il 1250 e il 1280. Punta su una datazione alta chi vi vede un’opera di elevato magistero. Punta invece al 1280 chi vi riconosce l’impronta di correnti locali, che reinterpretano gli indirizzi di stile già affermati nei decenni precedenti. Ad ogni modo, basta uno sguardo su questo dipinto per essere avvinti dalla fissità severa delle figure e dalla corposa stesura dei colori. Tonalità marroni finemente graduate si contrappongono a verdi cupi e a rossi squillanti, che quasi trasfondono la pittura in materia preziosa, con lo stesso effetto visivo dello smalto traslucido in un’opera di oreficeria.
La Vergine rientra nel «tipo» della Madonna Nikopeia («Colei che mostra la vittoria»), proprio perché esibisce trionfalmente suo Figlio. Grandi medaglioni di colore dorato affiancano come insegne di labari l’aureola della Vergine, con la scritta rosso sangue che recita «Madre di Dio», per metà in latino, per metà in greco. Il Bambino benedicente si staglia sulla Madre come un imperatore seduto in trono, con il globo del potere universale in mano.
È evidente che si tratti dell’opera di un artista colto e originale, aperto con ingegno a molte suggestioni. L’iconografia di base è già attestata a Roma nell’alto Medioevo, e ritrova un «revival» intorno alla metà del Duecento, quando si realizza la Madonna della Catena di S. Silvestro al Quirinale, assai simile alla nostra anche dal punto di vista formale. La conduzione del colore e la resa dei dettagli risentono dell’opera dei musivari bizantini attivi in Italia (ad esempio a Monreale) tra la seconda metà del XII secolo e i primi decenni del secolo seguente. La singolare posa del Bambino a braccia aperte e con il globo in mano, sembra parodiare in modo plateale le effigi imperiali dei sigilli di Federico II.
Un simile complesso di apporti dava man forte anche a un pittore come Margarito d’Arezzo, la cui nota Madonna di Montelungo (1250), oggi esposta al Museo civico della città toscana, è ben confrontabile con la Madonna di Cossito, anche se animata da una intonazione più dolce e «realistica». Da queste coordinate si vede bene come la tavola di Amatrice si collochi in modo «strategico» tra Roma, il Regno e la Toscana, in un momento cruciale nella storia della pittura italiana, e forse di quel momento costituisce un prezioso tassello finora ignorato.
La tavola di Cossito ottenne gli onori della cronaca nel 1967, allorché venne recuperata in Svizzera, a conclusione di una intricata vicenda che è stata rievocata dal giornalista americano Hugh McLeave nel suo saggio sulla moderna «piaga» dei furti d’arte (2003). Nel 1964, dopo essere stata esposta in mostra a Roma, la tavola era stata trafugata, sicuramente su commissione. Dopo un intervento di restyling presso un «restauratore» di Milano, che mascherò alcuni particolari dell’opera per renderne più difficoltoso il riconoscimento, il dipinto finì nel catalogo di un’asta organizzata nel Liechtenstein, in mezzo a opere mediocri e a banali oggetti da collezione. Si trattava naturalmente di una montatura per fornire un passaporto alla refurtiva: il prezzo di offerta era bassissimo e i personaggi convenuti all’asta, accuratamente selezionati, erano tutti d’accordo tra loro. Passati tre anni, il ricettatore tentò di piazzare il dipinto avvalendosi di un mediatore di lusso, Heinrich Zimmermann, che era stato direttore del Karl-Friedrich-Museum (oggi Bode Museum) di Berlino all’epoca di Hitler per poi emigrare in Uruguay, nella esclusiva località balneare di Punta del Este. Zimmermann intendeva piazzare il dipinto sul mercato americano, e proprio un antiquario di New York, sentito odor di bruciato per via del prezzo troppo elevato per un’opera qualsiasi (300 mila dollari), segnalò il fatto agli investigatori, mettendoli sulla giusta pista. La tavola fu riconosciuta da una foto, e si venne a sapere che era nelle mani di un ricco «intenditore» italo-svizzero. Fu così ordita un’operazione in grande stile, coordinata dall’infaticabile Rodolfo Siviero (1911-1983), poliedrica figura di agente segreto e intellettuale, noto soprattutto per le attività di recupero delle opere d’arte trafugate dai nazisti in Italia durante l’ultimo conflitto mondiale: tra le sue imprese spicca il salvataggio dell’Annunciazione del Beato Angelico, richiesta nel 1944 da Hermann Göring in persona. Siviero fece proseguire le trattative di acquisto fino alla richiesta di una perizia sul dipinto. L’esperto di fiducia del finto acquirente e un restauratore (in realtà si trattava di due agenti del Ministero italiano degli Affari esteri), ebbero così modo di trovarsi di fronte alla «merce» a Weggis, sul Lago dei Quattro Cantoni, in una lussuosa villa che traboccava di opere d’arte e di oggetti d’antiquariato. A quel punto, la polizia svizzera fece scattare le manette, il 27 giugno 1967, e la tavola poté fare ritorno in Italia. E molte altre opere risultate «in deposito» in quella stessa villa ripresero la strada dell’Inghilterra, dell’Austria e della Germania.
La chiesa di S. Francesco, che nelle forme attuali è stata ricostruita alla fine del XIV secolo e ampiamente restaurata nel secolo successivo, risultava già presente nello scenario cittadino nell’ultimo quarto del Duecento, e i suoi frati ottennero da parte di papa Niccolò IV, nel 1291, la facoltà di concedere ai fedeli un’indulgenza. Alla più antica fase costruttiva risalgono alcune parti del portale in travertino della facciata, chiaramente esemplate sul portale maggiore di S. Francesco di Ascoli Piceno (1290-1330). I pregevoli elementi superstiti furono rimontati nei decenni iniziali del Quattrocento nel nuovo ingresso monumentale, arricchito sulla lunetta da un gruppo scultoreo con la Maestà della Vergine tra due Angeli omaggianti. L’interno, che conserva le linee rigorose di un tipico assetto di chiesa «a fienile», presenta cospicue testimonianze di una decorazione pittorica che interessò tutte le pareti tra il XIV e il XV secolo, sulla scorta dell’iniziativa di molteplici devoti che si affidavano in modo non pianificato a pittori di varia esperienza. Spicca sulla parete sinistra una Natività di ampio respiro, come una grande pagina miniata gremita di figure e di elementi scenografici attentamente definiti, opera di un artefice abruzzese dell’ultimo Trecento, ben aggiornato sui modi della pittura umbra dell’epoca, e noto alla critica come Maestro di Campli.
Ma l’episodio più intrigante è costituito dalla raffigurazione lacunosa dell’Albero di Iesse che si osserva in fondo alla chiesa, su una parete del coro. Il dipinto, databile all’ultimo quarto del Trecento e riconducibile alla mano di un artista marchigiano, presenta una elaborazione iconografica piuttosto singolare. L’albero che si fonda su Iesse, il padre dormiente del re Davide, e che si sviluppa come di consueto con l’immagine della Vergine e del Messia (quest’ultimo in stato frammentario), presenta al centro, in basso, un trono vuoto. Ai fianchi si osservano due coppie di figure, nell’atto di esibire citazioni di vario genere in allusione alla nascita di Cristo e alla redenzione.
Come ha rivelato Giuseppe Capriotti in un recente contributo dedicato al dipinto di Amatrice, le figure in basso a sinistra sono un Angelo e il re Davide, mentre a destra si osserva Virgilio (il cui rotolo cita l’Ecloga IV delle Bucoliche, nel famoso verso che prelude all’avvento di una nuova stirpe) affiancato dalla Sibilla Tiburtina, che indica al poeta la Vergine e sfoggia un libro con il testo dell’oracolo sul Messia. La presenza della profetessa e del poeta «pagano» risponde alla volontà di radicare la rivelazione di Cristo nella sapienza degli antichi. Un abbinamento simile di personaggi era presente nell’abside di un’illustre chiesa, anch’essa francescana, S. Maria dell’Aracoeli a Roma: in un perduto affresco di Pietro Cavallini (fine del XIII secolo), la medesima Sibilla indicava la Vergine di fianco all’imperatore Augusto. Virgilio e la Sibilla si riscontrano in seguito nell’Albero di Iesse scolpito sulla facciata del duomo di Orvieto, al secondo pilastro (primi decenni del XIV secolo).
Dal canto suo, il re Davide, rivolto al trono vuoto dove solitamente risiede, è intento a scrivere un passo di un suo Salmo biblico, il 132, laddove il Signore giura allo stesso Davide che i suoi figli, purché custodi della sacra alleanza, risiederanno sul suo trono. La discendenza di Davide culmina in Cristo, e il trono è vuoto (secondo l’antico concetto iconografico dell’Etimasia, ossia «preparazione del trono») perché è destinato ad accogliere il Messia alla fine dei tempi. In generale, come sottolinea Jacopo Manna, la fortuna tardiva dell’Albero di Iesse in territorio italiano può essere correlata all’attività predicatoria e alla lotta antiereticale che erano tra le prerogative degli ordini mendicanti: l’Albero manifestava al meglio il radicamento della fede cattolica nella storia della rivelazione biblica, legando la Vergine alla stirpe veterotestamentaria del re Davide. E non si esclude che la presenza dell’Albero ad Amatrice sia la lontana ricaduta di una presenza ereticale sulle vie assai frequentate della zona. Un circolo di «perfetti» che aderivano alla dottrina catara (e che dunque negavano a Cristo una natura corporea e una genealogia) è attestato a Rieti nel 1261, quando si celebrò un processo postumo al canonico Palmerio Leonardi, accusato di aver dato ricetto agli eretici, e di averne addirittura condiviso le idee.
La vivacità artistica e culturale che doveva contraddistinguere Amatrice fino alle ultime fasi di punta della sua vita economica, politica e sociale, fino cioè ai primi decenni del Cinquecento, si riflette perfettamente in un ampio gruppo di chiese del territorio, che sfoggiano tuttora una ricchezza decorativa sorprendente.
La Madonna della Filetta, edificata dal comune di Amatrice a ricordo del miracoloso rinvenimento dell’antico cammeo già menzionato, custodito nel reliquiario del Museo civico, presenta un interessante ciclo affrescato sulla parete absidale, eseguito negli anni ’70 del Quattrocento da un pittore marchigiano altrimenti ignoto, Pietro Paolo da Fermo. Spicca la deliziosa immagine della scopritrice del prezioso cammeo, la pastorella Chiarina di Valente, che reca solennemente il reliquiario in città alla testa di un corteo, protetta da un baldacchino. La donna, ritratta di profilo come la matrona del cammeo, è trasformata dal pittore in una nobildonna del Rinascimento, secondo un raffinato canone all’antica che rimanda al Ritratto di principessa del Pisanello al Louvre (1437 ca.), alla Dama di Antonio del Pollaiolo al Poldi Pezzoli di Milano (1470 ca.), o al Ritratto di Giovanna Tornabuoni di Domenico Ghirlandaio al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (1488).
La Cona Passatora, così chiamata perché costruita a protezione di un’edicola mariana del XV secolo che si trovava lungo una strada di campagna, è ricolma di pitture. I dipinti della cappella absidale sono stati pianificati e commissionati dalla comunità, nel 1508-09, e sono opera di un sagace e piacevole narratore, l’assai attivo artista locale Dionisio Cappelli. Per il resto, le pareti dell’edificio sono costellate da una miriade di affreschi legati alla libera iniziativa dei fedeli. Nel 1490 un gruppo di devote (si legge infatti: questa feura a fatta fare lefemene) commissionò il solenne Cristo portacroce che compare sulla parete destra, con un copioso rivolo di sangue che sgorga dalla sua mano e che finisce in un calice posato a terra. Tutt’intorno si osserva un campionario di strumenti di lavoro, che sostituiscono gli attributi della Passione (chiodi, corona di spine, lancia…) tipici delle analoghe raffigurazioni: si riconoscono una scure, un coltello, delle cesoie, una cazzuola, un compasso. Si tratta in sostanza di una «predica figurata», nota all’epoca come
Cristo della domenica: l’immagine si prefiggeva di far rispettare ai fedeli troppo indaffarati il riposo domenicale, in modo che onorassero degnamente il giorno della settimana consacrato a Gesù. Lavorare in quel giorno equivaleva a rinnovare il supplizio della croce, conducendo il trasgressore direttamente all’inferno. Il tema iconografico, presentato ad Amatrice con un’eleganza insolita, scaturiva da una religiosità di stampo popolare testimoniata anche nelle grandi città, come Firenze. All’indomani del concilio di Trento (1545) simili immagini (oggi rare, ma diffuse in ogni dove tra il XIV e il XV secolo) non solo non furono più realizzate, ma si disponeva spesso che quelle già esistenti fossero distrutte, perché giudicate poco decorose o eterodosse. Nella situazione appartata di questa chiesa pedemontana, la raffigurazione rimase sempre in bell’evidenza, senza creare alcun problema.
A sinistra dell’abside merita attenzione, tra l’altro, una Madonna in trono col Bambino realizzata nell’ultimo decennio del Quattrocento, con una compiaciuta elaborazione prospettica del seggio. La Vergine reca in mano la città di Amatrice, con la sua solida cerchia muraria e gli edifici punteggiati da torri, nella migliore tradizione dei paesaggi urbani del Medioevo italiano.
Da leggere
Aa. Vv., Museo Civico di Amatrice «Cola Filotesio», Grafiche Editoriali, Ariccia 2005.
Furio Cappelli, La Salaria e le vie della cultura artistica nel Piceno medievale, in Farfa Abbazia imperiale. Atti del Convegno internazionale, a cura di Rolando Dondarini, Il Segno, San Pietro in Cariano 2006, pp. 255-307. Tersilio Leggio, Ad fines Regni. Amatrice, la Montagna e le alte valli del Tronto, del Velino e dell’Aterno dal X al XIII secolo, Edizioni Libreria Colacchi, L’Aquila 2011.
Il presente articolo è stato pubblicato sul mensile “Medioevo” («Medioevo», a. XVIII (2014), n. 2 (2015), pp. 92-101.) ed è tratto da https://independent.academia.edu/FurioCappelli.
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