Andare Oltremare

di Alessandro Vanoli.

Il 14 ottobre dell’anno 1100, papa Pasquale II si trovava a Melfi; circa un mese prima una crociata di Lombardi era partita alla volta del Santo Sepolcro guidata dall’arcivescovo di Milano, Anselmo di Buis: la notizia della presa di Gerusalemme si era ormai ampiamente diffusa in Occidente e contribuiva ad alimentare, da molte parti, il desiderio di raggiungere l’Oriente. Queste voci dovevano essere piuttosto diffuse anche in Spagna, se è vero che il papa, quel giorno, aveva ritenuto opportuno inviare al re di Castiglia, Alfonso VI (1072-1109), una lettera in cui proibiva esplicitamente ai soldati spagnoli di recarsi in Terra Santa: le avversità che il suo pur florido regno doveva subire, diceva, erano tali da rendere ben più necessaria la presenza di quelle forze alle frontiere meridionali [1]. Indipendentemente dall’effettivo impatto di tale appello, il segnale era evidente: vi era una diretta analogia tra la crociata che aveva condotto alla presa di Gerusalemme e lo sforzo militare che la Spagna cristiana affrontava contro i Saraceni. Le ricompense spirituali per coloro che partecipano alla guerra nella Penisola iberica erano analoghe a quelle promesse ai crociati d’oltremare; un aspetto, questo, che già Gregorio VII nel 1073, il suo primo anno di pontificato, aveva ribadito con forza, fondandolo su un’affermazione gravida di conseguenze: il territorio della Penisola iberica apparteneva di diritto a San Pietro [2].

E’ singolare – ma non si tratta certo di un caso – che in questa serie di parallelismi, anche i nomi stessi finiscano col condividere la stessa sorte: Reconquista, si diceva poco fa, è una parola che non esiste per coloro che la vivono, e che solo molti secoli dopo, come vedremo, verrà coniata per definire una cosa di cui ormai si fraintende il senso e la portata. Forse non tutti sanno che un analogo destino è in parte condiviso anche dal termine “Crociata”. Per lungo tempo l’andare, come si diceva, “oltremare”, sulle coste del Mediterraneo orientale, si definì variamente come peregrinatio, iter, expeditio, passagium, voiage, a cui magari si aggiungeva un epiteto di santità o la destinazione geografica, tanto per essere chiari [3]. Chi lo compiva fu usualmente identificato come pellegrino, peregrinus dunque, ma anche, seppur non con la frequenza che si potrebbe supporre, crucesignatus [4]. E proprio quest’ultimo termine, malgrado l’assenza di un vocabolario uniforme, tradiva l’importanza crescente dell’immagine della croce in tale contesto: la sua adozione liturgica, il culto della croce così come il suo simbolismo mistico, sono elementi che appaiono dovunque, nei sermoni crociati così come nelle varie esortazioni ecclesiastiche. Insomma, la crociata, nata come pellegrinaggio penitenziale si stava sviluppando come guerra privilegiata.

Il termine cruciata fece la sua apparizione più avanti, non sappiamo di preciso dove, e forse fu una trascrizione latina di un termine che già circolava in qualche lingua volgare [5]. Nel XV secolo lo usavano parecchi accademici e cronisti, anche se, a quanto pare, con significato pecuniario: per molto tempo, cioè, indicò il denaro raccolto per la spedizione. Ancora gli inizi dell’età moderna, anzi, la cosa era chiarissima: nelle parole di papa Leone X o dell’imperatore Massimiliano, il termine era esplicitamente sinonimo di denaro raccolto per una crociata attraverso la vendita di indulgenze.

Ancora oggi molti problemi concernenti lo sviluppo dell’idea di crociata rimangono aperti, facendo la fortuna di un’intera branca degli studi di storia medievale; non intendo approfondire ulteriormente. Al lettore mi permetto solo di rammentare un elemento che, dal nostro punto di vista, riveste un’importanza fondamentale: in un mondo europeo e mediterraneo che stava profondamente mutando, definendo la propria identità politica nell’universalità cristiana simboleggiata dalle potenze dell’impero e del papato, la “santità” di tali guerre non fu tale perché il nemico era infedele. Piuttosto il contrario: la santità si legò strettamente al fatto di essere predicata e legittimata dal papa, con l’intenzione di difendere gli interessi della Santa Sede.

Di fronte alla costruzione di un’idea di cristianità di tale portata, veicolo di una forte identità politica e religiosa, non dovrebbe stupire più di tanto che i termini con cui si guarda al nemico siano più o meno gli stessi. Nelle cronache di crociata di Foucher di Chartres, Raymond d’Aguilers o Guglielmo di Tiro, ritroviamo terminologie e stereotipi già noti: i musulmani saranno definiti infedeles, pagani, gentiles, di loro si dirà che sono gens incredula, filii falsitatis o canes immundi, in esplicita antitesi con i cristiani, christi milites e populus laudabilis. Che i termini siano analoghi non può certo stupire: basterebbe la comune matrice patristica a spiegarlo: da una parte all’altra del Mediterraneo, sulle coste della Siria come in Spagna, si diffonde e si consolida un’idea unitaria: in un momento di forte ridefinizione del proprio ruolo politico e istituzionale la Chiesa partecipa, inevitabilmente, a una radicale costruzione dell’identità di chi cristiano non è. Ad essere in gioco, nelle tante crociate predicate in quegli anni, non sono solo i territori di San Pietro, ma la definizione, davanti a una diversità esplicitata, della propria identitas, della propria comune natura cristiana.

Eccoci così tornati alle canzoni di gesta: in questa costruzione di un Mediterraneo cristiano, le immagini dei musulmani si diffusero ben oltre gli ambienti ecclesiastici e le corti: i saraceni dai tratti diabolici, assimilati a pagani perversi, nemici di una lotta sostenuta da Dio, si diffusero ben oltre gli scriptoria monastici. I cantastorie, i giullari, che transitavano sulle strade di Francia come della Spagna settentrionale, contribuirono a diffondere un’immagine dei musulmani, forse più popolare, di cui ci rimane traccia nelle canzoni di gesta. La Chanson de Roland ne fu il prototipo: le epopee che seguirono tradussero forse meglio degli scritti latini l’immagine che i guerrieri cristiani si facevano di quei musulmani che avrebbero affrontato in Spagna o nell’Oriente mediterraneo.

Naturalmente col tempo le conoscenze si accrebbero (in fondo la guerra è una frequente, anche se terribile forma di comunicazione e di apprendimento). Ovviamente i signori latini di Terra Santa dovettero imparare non poco dai loro vicini musulmani (lo intuiamo, ad esempio dalla Storia di Guglielmo di Tiro), ma rapidamente molte nuove notizie circolarono. Attorno al XIII secolo si conosceva, ad esempio, l’istituzione califfale (pur qualificandola, in certi casi, come apostoles des Sarrazins); si sapeva che Baghdad era la capitale di tutta la «pagania», così come Roma era la la capitale dell’intera cristianità; ma si era in grado di specificare ulteriormente, come nel caso dell’impero mamelucco e della sua strana consuetudine di affidare il governo agli schiavi [6].

In realtà, però questo tesoro di conoscenze non si diffuse molto al di fuori dell’ambiente in cui era maturato. Per i più, il nemico musulmano, il nemico delle crociate era destinato a rimanere indistinto, crudele e falso. Lo vedremo più avanti.

Bibliografia
Sulle crociate la bibliografia, si sa, è immensa.
Per orientarsi scientificamente si potrà cominciare dall’utilissima scheda a cura di Luigi Russo pubblicata in Reti Medievali: www.rm.unina.it/repertorio/rm_russo_le_crociate.html
Nello stesso sito si troveranno anche alcuni strumenti orientativi come l’ancora utile volume di Franco Cardini, Il movimento crociato, Sansoni, Firenze 1972: www.storia.unive.it/_RM/didattica/strumenti/cardini/indice.htm
Riguardo al problema specifico della costruzione dell’idea di Crociata si veda Ch. Tyerman, L’invenzione delle crociate, Einaudi, Torino 2000 (ed. ingl. Oxford University Press, Oxford 1998)

Note:
[1] La lettera è consevata in Historia Compostellana, I, 9,4.
[2] Registrum, I, 7, ed. E. Caspar, in M.G.H. Epistolae selectae II, Berlin 1967, t. I, pp. 11-12.
[3] Su questo e quanto segue rimando a Ch. Tyerman, L’invenzione delle crociate, Torino 2000 (ed. ingl. Oxford 1998), pp. 82-92)
[4] Tale termine “tecnico” venne in auge nei testi latini solo dopo la terza crociata.
[5] Si veda ad esempio, D. du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Paris 1844, III, p. 629.
[6] Così, ad esempio, riportava già Guglielmo di Tiro e ribadiva Joinville (Histoire de Saint Louis, XVI, par. 280).

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Alessandro Vanoli

È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.

Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).

Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.

È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.

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