
L’arco lungo (longbow)
Di Claudio Martinotti Doria
Quanto sia importante la qualità delle armi nel determinare l’esito di una battaglia, soprattutto dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione, parrebbe scontato, facilmente intuibile anche per coloro che non si dilettano di storiografia medievale, ma evidentemente non lo era per i diretti protagonisti che le battaglie le vivevano in prima persona o quantomeno per interposta persona, nel senso che ne valutavano la testimonianza, protrattasi per secoli in forma orale e scritta.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai, per citare un esempio eclatante, i francesi, che furono sconfitti parecchie volte dagli inglesi e dai loro alleati continentali, soprattutto nel corso della Guerra dei Cent’anni, grazie prevalentemente all’arco lungo, per parecchi decenni continuarono a insistere con le loro vane ed anacronistiche cariche di cavalleria pesante, fino a provocare l’annientamento della stessa cavalleria e della nobiltà francese che la costituiva, con tutte le molteplici e complesse ripercussioni sociali e politiche che vi furono.
Su questo argomento tornerò in seguito dettagliatamente.
Come premessa iniziamo a rivelare qualcosa sulle origini dell’arco, senza alcuna pretesa di esaustività (semmai mi scuso per essere fin troppo riduttivo), in quanto l’argomento richiederebbe una trattazione prolungata che non è possibile in questa sede, e devo pertanto sintetizzare oltre misura, limitandomi frequentemente a soli accenni, invitando semmai i lettori interessati ad approfondire ogni singola voce con ricerche mirate. Che sarebbe poi lo scopo primario di questi miei articoli divulgativi, destare interesse e passione per la Storia offrendo spunti ed argomentazioni che possano incuriosire.
Se si può presumere, con un grado di approssimazione molto realistico, che le prime armi usate dall’uomo primitivo furono delle mazze rudimentali (quelle che la scienza forense ora definisce “corpo contundente”) e delle lance e/o giavellotti, la prima arma che potremmo definire “elaborata” è stata l’arco.
Di origini antichissime e diffuse in tutte le aree del mondo (fin dalle ultime fasi del paleolitico superiore), l’arco si differenziava per dimensioni e per i materiali utilizzati, che differivano in base agli ecosistemi locali da cui si attingeva la materia prima per produrlo.
Per ottenere una maggiore gittata della freccia in alcuni territori si preferì ricorrere alla produzione di archi più lunghi, anziché ricercare una maggiore elasticità delle corde di tensione. Questo avvenne ad esempio nell’arcipelago giapponese e nelle isole inglesi: i primi ricorsero al bamboo, i secondi al legno di tasso. Successivamente si svilupparono

tecniche costruttive più sofisticate, ricercando materiali idonei alle esigenze di impiego, come l’arco composto, formato cioè da più strati di legno o di corno e legno, incollati da resine e legati da tendini fittamente avvolti e ricoperti da cortecce d’albero o pelli che venivano decorate se destinate alla nobiltà o ai comandanti.
Il suo impiego primario fu venatorio e bellico, anche se si conoscono impieghi sportivi nella civiltà minoica e pre-ellenica.
In seguito al predominio romano nell’area mediterranea, l’arco per uso bellico fu relegato a specialità, quindi di impiego secondario, riservata ad alcuni popoli asserviti ed inquadrati nei ranghi dell’esercito per la loro abilità riconosciuta, come ad esempio i Traci e gli Sciti, ma anche Sardi, Etruschi, Lucani e Umbri erano ritenuti validi arcieri.
Nel medioevo erano soprattutto gli Unni gli arcieri più abili e temuti, in grado di scagliare al galoppo con una sorprendente velocità e precisione, mentre tra i popoli europei era utilizzato prevalentemente nelle battaglie campali e soprattutto nella difesa di insediamenti protetti (i cosiddetti “castrum”).
Fu Carlo Magno il primo sovrano a rendersi conto dell’importanza dell’arco come arma primaria e lo impose al suo esercito favorendo anche la coltivazione del tasso per poter disporre illimitatamente della materia prima per costruirlo. Iniziativa che fu poi ripresa molti secoli dopo da Carlo VII di Francia che impose il tasso come albero ornamentale e di utilità in tutti i cimiteri della Normandia, imitando gli inglesi che da secoli avevano assunto l’arco come arma primaria. Arma che a partire dall’XI secolo veniva sempre più surclassata dalla balestra, sulla quale mi soffermo poco, in quanto intendo dedicarvi un altro articolo appena mi sarà possibile. L’argomento merita perché su ispirazione dei famosi balestrieri genovesi (mercenari apprezzati ed impiegati in tutta Europa) i marchesi di Monferrato della dinastia Paleologo (1306-1533), di provenienza bizantina e di sangue imperiale, crearono un reparto specializzato sotto il diretto controllo marchionale per la difesa del principe reggente e per impieghi tattici risolutivi in battaglia. Divennero cioè un corpo militare d’élite in seno al marchesato di Monferrato.
La balestra, a mio avviso, ha avuto maggior successo dell’arco nel nostro paese (anche se la storiografia è più o meno equamente posizionata, attribuendo una sorta di equilibrio distributivo tra le due armi), per motivi vari e complessi.
Ad esempio per le dimensioni regionali dei vari principati e potentati, che impedivano di conseguire le giuste dimensioni nazionali per poter avviare una tradizione e promozione dell’uso dell’arma, con un esercito sufficientemente esteso ed articolato, oltre alla già citata prevalenza delle guerre difensive e d’assedio, dove la balestra era più versatilmente impiegata.
Occorre altresì riconoscere che spesso gli eserciti regionali e le milizie cittadine dei liberi comuni disponevano di entrambi i reparti specializzati, arcieri e balestrieri, che combattevano fianco a fianco.

La “regione” più specializzata era il Piemonte (anche se all’epoca non era ancora identificata in tal modo) grazie a Tommaso I di Savoia che agli inizi del XIII secolo istituì la Compagnia dell’Arco, fondata proprio con l’intento di favorire e diffondere l’uso dell’arco e selezionare poi i migliori arcieri per inserirli nella sua guardia personale.
Gli italiani per altro e paradossalmente (in quanto preferivano la balestra) erano favoriti dalla qualità del tasso che cresceva nella penisola, talmente apprezzato che gli inglesi, i maggiori produttori ed utilizzatori di archi che assunsero la caratteristica di “arco lungo” (detto gallese o inglese, più correttamente longbow, che era solitamente di 72 pollici, circa 182 cm, a curvatura unica), giunsero persino ad importare vino italiano ponendo ai fornitori la condizione che ogni barile fosse accompagnato da un tronchetto di legno di tasso dal quale poter ricavare un arco.
Gli inglesi incrementarono la produzione e l’utilizzo dell’arco in seguito alla conquista normanna dell’isola. In precedenza era meno utilizzato ed era di dimensioni inferiori, circa 150 cm di lunghezza, come in tutto il continente.
Fu grazie al “longbow” che Guglielmo Duca di Normandia, alla guida dei normanni, nella battaglia di Hastings del 1066 sconfisse il re anglosassone Aroldo, facendo scagliare dai suoi numerosi arcieri dotati appunto di “arco lungo” nugoli di frecce con traiettoria a parabola, decimando le truppe nemiche nelle loro postazioni difensive. In seguito alla vittoria conseguita divenne conosciuto come Guglielmo “Il Conquistatore”.

Vi erano fino a pochi decenni fa due correnti interpretative nella storiografia ufficiale anglosassone nell’attribuzione delle origini del longbow, una si rifaceva appunto all’invasione normanna, in seguito alla quale gli inglesi appresero la lezione e perfezionarono il loro arco, creando il longbow.
L’altra tradizione si rifaceva invece ai gallesi, i quali a loro volta avrebbero appreso dell’esistenza dell’arco lungo e delle tecniche costruttive dai Vichinghi, che frequentarono la regione come mercenari ed alleati bellici. Questi ultimi non hanno assunto nell’immaginario collettivo e nella conoscenza storica popolare, alcuna fama come arcieri, probabilmente perché preferivano il combattimento corpo a corpo, molto più onorevole per dimostrare il proprio valore, e l’arco era limitato ad esigenze particolari, quando la distanza dal nemico lo richiedeva, come negli scontri navali, o quando il nemico disponeva di un’eccessiva superiorità numerica ed occorreva ridimensionarlo prima di affrontarlo de visu.
In realtà negli ultimi decenni molti ritrovamenti effettuati dagli archeologi di archi lunghi con caratteristiche analoghe (e questo conferma quanto la Storia non sia affatto una materia statica ma dinamica, in continuo fermento ed evoluzione, e che pertanto andrebbe riscritta in continuazione man mano che si effettuano scoperte e rivalutazioni), sia in Irlanda che nel Galles, sia in Danimarca che nella Germania del nord, hanno consentito di ricostruire il percorso cronologico e geografico di quest’arma.
Fu portata dai Vichinghi dapprima in Irlanda sul finire del IX secolo, ed in proposito abbiamo alcune testimonianze, tra cui il poema irlandese Cogadh Gaendhel, re Gallaibh, scritto nel XII secolo, che descrive le armi dei vichinghi utilizzate nella battaglia di Clontarf nel 1014 quando vennero sconfitti dagli irlandesi guidati da Brian Bórumha mac Cennétig, supremo sovrano d’Irlanda, e la descrizione dell’arco lungo coincide perfettamente con il longbow.

Quindi non possono esservi dubbi che le origini del longbow siano vichinghe (cioè attribuibili ai normanni, intesi come popoli del nord, quindi norvegesi, svedesi e danesi)
Dopo l’Irlanda i vichinghi approdarono nel Galles, dove l’arco lungo ebbe particolare successo e fu adottato, soprattutto nell’area del Gwent, nel sud-est del Galles, dove prosperò una tradizione costruttiva ed utilizzatrice specializzata per impiego militare, testimoniata anche da Geraldo il Gallese alla fine del XII secolo. Nella sua testimonianza storica, che si riferisce all’assedio di Abergavenny Castle del 1182, descrive gli archi lunghi gallesi costruiti di olmo nano della foresta, come non particolarmente belli esteticamente, ruvidi e grezzi ma compatti, robusti, potenti e resistenti, in grado di scagliare una freccia a distanze maggiori degli altri archi conosciuti in precedenza, ma soprattutto di infliggere gravissime ferite a distanza ravvicinata e di incidere in profondità dove la freccia impatta.
A tal proposito cita l’episodio cui ha assistito, della penetrazione per ben 4 dita di parecchie frecce nella solida porta del Castello di Abergavenny.
Un’altra testimonianza successiva di circa un secolo, dovuta a Lodewyk van Veltheam, descrive gli arcieri gallesi dell’esercito di re Edoardo I, come privi di armature ed indossanti abiti di lino, dotati di archi lunghi, molte frecce ed una spada ed aventi a disposizione giavellotti, cui ricorrevano dopo aver esaurito le frecce.
Edoardo I Plantageneto quando alla fine del XIII secolo sottomette il Galles, adotta in pieno l’arco gallese come arma tattica e di potenza individuale, avviando un processo tecnico di perfezionamento sia dell’arma che dell’addestramento al suo impiego bellico, che nell’arco dei successivi decenni renderà l’esercito inglese estremamente efficace dal punto di vista tattico e strumentale e lo dimostrerà infliggendo numerose e pesanti sconfitte ai francesi, loro principali avversari.
La scelta di adottare l’arco lungo non è probabilmente attribuibile solo a motivi di efficacia dimostrata in battaglia ma anche a motivi economici e politico culturali, essendo l’economia inglese dell’epoca essenzialmente rurale e povera, non poteva permettersi le balestre molto più sofisticate ed onerose come costi di produzione, ed inoltre i contadini e cittadini arruolati occasionalmente per far fronte alle esigenze belliche potevano più facilmente dotarsi ed addestrarsi con l’arco in quanto il tiro con l’arco era un’attività “sportiva” diffusa ovunque, anche nel più remoto villaggio, e fin dai tempi neolitici, avendo trovato archi nelle tombe dell’epoca.
Occorre però riconoscere che gli inglesi prima di scontrarsi con successo coi francesi grazie ai loro archi lunghi, si erano in precedenza “esercitati” con gli scozzesi, che furono costretti a sottomettersi dopo parecchi secoli di strenua indomita resistenza.
Infatti nella battaglia di Falkirk del 1298 Eduardo I si scontra con gli scozzesi guidati da William Wallace, resosi conto che la cavalleria nulla poteva contro l’agguerrito ed indomito esercito scozzese, schierò oltre 3000 arcieri dotati di longbow che bersagliarono con insistenza i fianchi dello schieramento scozzese indebolendolo fino al punto da consentire alla cavalleria di caricare con successo sbaragliando ogni difesa.
E’ ritenuto il primo conflitto della storia in cui l’arco gallese ha fatto la sua comparsa, determinante per le sorti dello scontro, nella battaglia più importante e sanguinosa nelle guerre di indipendenza scozzese.
La battaglia successiva che solitamente viene citata a conferma dell’importanza e prevalenza dell’arco gallese sulle sorti di un conflitto bellico è la battaglia di Crécy del 1346 nella quale Edoardo III d’Inghilterra, che disponeva di un esercito in netta inferiorità numerica rispetto ai francesi, sconfisse Filippo VI di Francia, sbaragliando con l’uso degli arcieri i numerosi balestrieri genovesi ingaggiati dal re di Francia e guidati da Riniero de Grimaldi (una delle maggiori famiglie dinastiche genovesi).

La stima di quanti fossero i genovesi varia secondo le fonti da un minimo di 5000 a circa 15 mila, ma in ogni caso erano giunti sul campo di battaglia molto stanchi per la lunga marcia che avevano dovuto affrontare ed inoltre avevano il sole di fronte che limitava la precisione di tiro, non potevano scagliare più di tre o cinque dardi al minuto contro le dieci o dodici frecce mediamente scagliate nello stesso tempo dagli arcieri con longbow.
Fu una battaglia molto importante dal punto di vista tattico e storico (alcune correnti storiografiche fanno risalire a questa battaglia l’inizio della fine della cavalleria), studiata ancor oggi per la sua dinamica innovativa per l’epoca, il perfetto e disciplinato schieramento di alabardieri ed arcieri dotati di longbow rese impossibile ai francesi rompere lo schieramento, sottoponendosi a perdite pesantissime, soprattutto da parte della cavalleria pesante, che era composta dalla nobiltà, che perse quasi un terzo dei suoi ranghi, secondo alcune stime, tra cui una dozzina di principi ed un’ottantina di vassalli d’alto rango, duchi e pari del regno, uccisi perlopiù da “miserabili pezzenti”, sia con anonime frecce che con lunghi pugnali che venivano conficcati nel petto quando i cavalieri erano disarcionati e feriti, immobilizzati a terra. Un atto gravemente lesivo del codice cavalleresco ma estremamente efficace.
Cavalleria pesante che pervicacemente ed ottusamente i francesi continuavano ad utilizzare in battaglia, compiendo perlopiù delle bravate prive di senso tattico ed atti di audacia insensata ed indisciplinata, come a voler avvalorare a tutti i costi il predominio della nobiltà bellica a cavallo rispetto al disprezzato fante ed all’ancor più disprezzato arciere, che veniva considerato un infame assassino e torturato spietatamente se catturato, in quanto ritenuto individuo spregevole e privo di onore (perché arrecava la morte a distanza, senza meriti e coraggio).
Occorre altresì considerare che la maggioranza dei cavalieri francesi finora si erano misurati solo nei tornei e nelle giostre, che per quanto fossero cruenti, non potevano essere utilmente comparate ai reali scenari bellici vissuti sul campo di battaglia, ed inoltre molti di loro appartenevano alla bassa nobiltà rurale, addirittura priva di possedimenti fondiari, per cui l’ossessiva ricerca di gloria era un presupposto irrinunciabile nel tentativo di distinguersi in battaglia e poter ricevere per i propri supposti meriti qualche concessione regale, sia in titoli che in feudi e rendite, oltre alla consueta opportunità di poter richiedere eventuali riscatti per i prigionieri di guerra catturati, ovviamente se di significativo rango nobiliare.
Ed i nobili francesi continuarono ancora per circa un secolo in questa arroganza suicida, forse l’unico modo da loro percepito per cercare di conservare i loro privilegi e prerogative di rango, come vedremo nel seguito di questo breve articolo, ripeteranno a lungo gli stessi errori con la stessa protervia.
Questa sarebbe la prima battaglia campale in cui trionfò l’arco lungo inglese, che arrecò perdite pesantissime agli avversari francesi, stimate in circa 12 mila uomini, tra i quali moltissimi balestrieri genovesi, rendendo evidente la superiorità bellica inglese con i suoi arcieri dotati di longbow sui francesi dotati di balestrieri e cavalleria in armatura pesante.
In realtà dal punto di vista storiografico, ci fu una battaglia che precedette quella di Crécy, nella quale il longbow la fece da padrone, ma fu navale, al porto di Sluys nel 1340, nella quale circa 12 mila arcieri inglesi impiegando l’arco lungo con assalti a distanza seguiti da veri e propri arrembaggi si impossessarono di quasi tutte le navi francesi e ben poche riuscirono a sottrarsi alla cattura.

Nel 1356 si svolse la battaglia di Poitiers, la seconda grande battaglia della Guerra dei Cent’anni in cui i francesi furono pesantemente sconfitti.
Gli inglesi erano guidati da Edoardo di Woodstock, Principe di Galles, popolarmente chiamato il Principe Nero, i francesi dal re Giovanni II detto il Buono. Gli inglesi, esattamente come nella battaglia di Crécy erano in netta inferiorità numerica ed erano disponibilissimi a trovare un compromesso per evitare una battaglia che li vedeva nei pronostici penalizzati ed a rischio di sconfitta. Ma vi sopperirono manifestando una maggiore intelligenza nello sfruttamento di posizioni sul territorio morfologicamente favorevoli e disponendo sapientemente i reparti in base all’esperienza maturata e consolidata. In pratica avevano il vantaggio della miglior scelta del terreno e disponevano di unità compatte e perfettamente addestrate, ben dirette ed organizzate.
I francesi stolidi ai massimi livelli possibili, ripeterono esattamente gli stessi errori di arroganza (delirio di onnipotenza), contando sulla loro potenza numerica e superiorità derivante dal rango e da un’anacronistica tradizione cavalleresca, che ormai affondava solo più nei ricordi autocelebrativi e nelle gesta cantate dai trovatori medievali, anch’essi ormai in fase di estinzione. Sentivano già la vittoria in tasca, la gloria li attendeva, perché indugiare in inutili tatticismi e pianificazioni strategiche?
Il loro grande piano di battaglia consisteva nelle cariche di cavalleria, con le quali poter dimostrare il loro presunto valore e la potenza devastante dell’impatto. Furono accolti da una pioggia di frecce, le cronache riferiscono di nugoli di frecce che oscuravano il cielo, che cessò solo quando gli arcieri le esaurirono, ma provvidero appena possibile a recuperarle estraendole dai corpi dei caduti.
Per quanto i cavalieri avessero già cercato da tempo, e continueranno a farlo ancora nei decenni successivi, di rinforzare le loro armature per difendersi dal nugolo di frecce scagliate a ritmi forsennati, non tenevano in conto che i cavalli erano un bersaglio ingombrante e facile da colpire, ed una volta caduti a terra i cavalieri erano vulnerabili, in quanto immobilizzati dal peso delle armature e facilmente uccisi o catturati.
I cavalieri francesi furono spazzati via ed il re Giovanni con il suo legittimo successore al trono furono catturati dagli inglesi, per la cui liberazione la Francia dovette pagare un riscatto equivalente a due anni del bilancio statale. Con il re furono altresì catturati un arcivescovo guerriero, 13 conti, 5 visconti, 21 baroni,e circa 2000 cavalieri della bassa nobiltà. Fra i caduti vi furono circa 2500 appartenenti alla nobiltà francese. Una disfatta totale, e non solo militare.
Infatti i cittadini di Poitiers furono testimoni dalle mura della loro città della fuga o ripiegamento confuso e concitato di molti reparti, e tali testimonianze si diffusero in tutta la Francia. L’infamia pesò quanto la sconfitta ed iniziò a manifestarsi un contagioso disprezzo popolare verso la classe nobiliare, che oltre ai soprusi ora aveva pure dimostrato codardia, incompetenza ed imperizia in battaglia. La nobiltà era ormai disonorata.

Infine sopraggiunse l’ultima decisiva battaglia di Agincourt (o Azincourt) dell’autunno del 1415, talmente decisiva che molti storici fanno risalire ad essa il tramonto della cavalleria (mentre quella di Crécy fu l’inizio della fine), non solo francese. Essa in realtà confermò i risultati conseguiti nelle due battaglie precedenti, di Crécy e di Poitiers, ennesima testimonianza che il valore in combattimento della cavalleria francese non equivaleva affatto alla competenza bellica ma era solo sfoggio vanesio ed ostentazione di manie di grandezza.
Anche in questo caso gli inglesi in inferiorità numerica (rapporto addirittura di 1 a 4), guidati dal re Enrico V, schierarono circa 6000 arcieri dotati di longbow ai fianchi degli armigeri, che erano perlopiù alabardieri e picchieri, in maniera strategicamente ineccepibile (a cuneo sporgente, come nelle battaglie precedenti, salvo qualche variante dovuta alle caratteristiche del terreno), ed inoltre per contrastare il previsto attacco della cavalleria francese, conficcarono nel terreno fangoso alcune file composte da numerosi pali appuntiti.
Gli arcieri inglesi disponevano pure di una molteplicità di piccole armi appese alla cintola, per potersi difendere negli scontri ravvicinati, ma soprattutto per poter infierire sul nemico una volta a terra.
I francesi, seppur impossibile da capire secondo i canoni del comune buon senso, erano ancora più ottusi che nelle battaglie precedenti, non solo riprodussero gli stessi errori, ma aggiunsero l’aggravante della confusione nella leadership bellica e nella conduzione degli attacchi, per cui finirono per intralciarsi a vicenda, nella competizione per avere l’onore di un posto in prima fila nella furiosa ricerca di una gloria assai effimera, rendendo agevole al nemico disarcionarli e sterminarli con nugoli di frecce.
Essendo ancora ottusamente dotati di armature pesanti e poco funzionali alle esigenze belliche, i francesi cadendo erano completamente in balia del nemico. Le armature erano talmente pesanti e costrittive che ogni tanto qualche cavaliere moriva al suo interno per insufficienza cardiaca.
Giunti di fronte alle linee di pali appuntiti che impedivano l’avanzamento, i cavalieri francesi furono costretti a retrocedere o scendere a terra, con movimenti lenti per il terreno fangoso e le difficoltà oggettive causate dal gravoso peso che indossavano, divennero ancor più facili bersagli. Caddero a migliaia, senza distinzione di rango, alta e bassa nobiltà. Fu un’orgia di sangue, un massacro senza eguali di membri della nobiltà.
Le stime variano moltissimo e non ci si può azzardare adottandone una o l’altra, diciamo solo che la stima più bassa riferisce di circa 5000 vittime tra la cavalleria, che rammento essere composta da nobili, gli unici in grado di pagare le esorbitanti spese richieste per dotarsi dell’occorrente (armatura, armi, cavallo bardato, scudieri, ecc.).
E gli inglesi essendo in inferiorità numerica e non potendo concedere agli sconfitti la prigionia, non potendo controllarli in un numero così elevato, li uccisero quasi tutti sul posto (con qualche rara e molto altolocata eccezione), per evitare che potessero essere liberati dalle truppe francesi ancora presenti nelle retrovie, ed ancora superiori di numero rispetto agli inglesi, e per evitare che potessero tornare a combattere ribaltando le sorti della battaglia.
Gli inglesi non potevano dimostrare alcuna pietà, perché non potevano sapere che la tanto decantata nobiltà francese superstite (nelle retrovie), dopo aver assistito alla sconfitta si diede ancora una volta ad una disonorevole fuga, concitata e confusa, perché in tal caso avrebbero sicuramente preferito fare molti prigionieri, per richiederne il riscatto.
La nobiltà francese fu praticamente distrutta, l’evento segnò un confine, uno spartiacque culturale, sociale, politico e militare, in quanto la realtà in forte mutamento non poteva più essere negata o mistificata, molte condizioni dovevano cambiare, in particolare il potere baronale (feudale) nei confronti delle sempre più potenti città mercantili e loro corporazioni (gilde).
Alcune istituzioni militari addirittura scomparirono quel giorno, come la componente militare dell’Ordine di Sant’Antonio Abate di Vienne (Confrérie de Monseigneur Saint Antoine de Barbefosse, come amavano essere chiamati, mentre popolarmente erano identificati come i Cavalieri del Tau o del fuoco sacro, i cui simboli erano un tau d’oro ed una campanella d’argento).
Nel braccio armato di quest’Ordine confluirono molti cavalieri templari dopo che il loro Ordine fu aggredito e distrutto dal re di Francia Filippo il Bello con la complicità papale, in quanto i legami tra loro erano forti, soprattutto nelle componenti culturali ed esoteriche.
Il braccio armato dell’Ordine del Tau era già stato falcidiato dalle Crociate del Nord cui aveva recentemente partecipato a fianco dei Cavalieri Teutonici, ed a fatica gli “antoniani” riuscirono a mettere insieme l’ultimo contingente militare di cui disponevano per partecipare alla battaglia di Agincourt, per l’onore della Francia, guidati da Englebert d’Enghien signore di Kastergat.
Trovarono tutti una morte eroica quanto vana, attorno al loro stendardo nero con tau azzurro.
I nobili francesi furono quindi costretti e prendere atto che erano fuori della realtà con la loro arroganza ed anacronistica pervicacia, l’investitura divina non bastava più a legittimarli.
Fattori determinanti nella battaglia furono ovviamente l’impiego dell’arco lungo inglese, in particolare la precisione e velocità di tiro, ma anche il timore che l’arma incuteva al nemico, il quale spesso alzava lo sguardo al cielo per cercare di vedere e schivare le frecce, allentando l’attenzione e distraendosi fatalmente dalla foga della battaglia.
In seguito alla battaglia di Agincourt la Francia in pratica divenne quasi un totale possedimento anglo-borgognone.
Un’altra battaglia avvenuta pochi anni prima di Agincourt, ed estranea al contesto della Guerra dei Cent’anni, dimostrò per l’ennesima volta la tracotanza ed ottusità dei francesi, ma con l’aggravante di indurre ripercussioni che non si limitavano solo al loro territorio ed ai loro possedimenti e privilegi, ma che metteva in pericolo l’intero continente.

Mi riferisco alla battaglia di Nicopoli, detta anche crociata di Nicopoli, un conflitto avvenuto nel 1396 tra gli schieramenti franco-ungarico ed ottomano.
Gli ottomani erano in piena espansione e stavano sempre più riducendo l’impero bizantino ad un regno regionale attorno a Costantinopoli, avendogli sottratto nel 1389 quasi tutti i Balcani, rendendo il regno di Ungheria l’ultima frontiera che sbarrava la strada all’invasione dell’Europa e la potente repubblica di Venezia temeva di perdere le colonie ed il controllo dell’Adriatico.
La battaglia avvenne in seguito all’ennesima proclamazione papale di una crociata contro i turchi (con il potere della Chiesa sempre più indebolito e sfiduciato per via dello scisma d’Occidente, con due papi che si contendevano il potere maledicendosi a vicenda tra Avignone e Roma).
Tuttavia, nonostante le premesse non fossero favorevoli al successo dell’ennesima crociata, una tregua nella guerra dei Cent’anni tra Inghilterra e Francia consentì al sovrano di quest’ultima, Carlo VI, di trattare con Sigismondo re d’Ungheria per organizzare una spedizione.
Gli inglesi parteciparono solo simbolicamente con un contingente di appena 1000 armigeri, Il potente duca di Borgogna Giovanni I ne dispose circa 10 mila, ed altri 6000 provenivano dai principati germanici. Il grosso dell’esercito era costituito dal re d’Ungheria, circa 60 mila uomini, rinforzati dai contingenti di Mircea principe di Valacchia, un principato che, come riportato da miei precedenti articoli, ha condotto guerre continue contro l’impero ottomano, soprattutto alcuni decenni dopo, sotto la guida del voivoda Vlad Țepeș, maturando una notevole esperienza sul campo e conoscendo perfettamente le tattiche militari ottomane.
Mircea era il condottiero giusto da sfruttare in questa guerra, egli propose di svolgere alcune missioni di ricognizione per studiare la consistenza e la disposizione dell’esercito turco, per poi adottare le tattiche più idonee, e re Sigismondo lo sapeva bene che aveva ragione, anche se per motivi di status non poteva cedere il comando a lui, pur riponendovi fiducia.
Ma la controproducente e geniale soluzione disfattistica, l’unica in grado di favorire il nemico, giunse per l’ennesima volta dall’arroganza ed ottusità dei francesi, che per rango e prestigio non volevano certo cedere il passo ed il comando, non dopo tutte le aspettative poste in questa spedizione, per cui il duca di Borgogna Giovanni (che così tanto aveva investito personalmente in questa spedizione), pur disponendo direttamente sotto il suo comando di poco più di diecimila uomini d’armi (l’esercito ottomano si stima fosse di oltre 100 mila unità), con temeraria incoscienza ed imperizia, senza alcuna conoscenza del nemico e competenza bellica specifica, procedette senza indugio con la sua cavalleria pesante contro l’ottima organizzazione bellica ottomana, costituita da linee di picchieri, arcieri e balestrieri perfettamente sincronizzati ed addestrati, disponendo inoltre di truppe d’élite, i Giannizzeri, ottimi arcieri e cavalleggeri che erano schierati per ultimi, pronti ad intervenire al momento opportuno per capovolgere le sorti della battaglia o per infliggere il colpo finale e mortale.
Tra l’altro i francesi li favorirono oltre misura, perché eseguirono un assalto in salita, il massimo dell’intelligenza tattica, arrivando in cima sfiniti e trafitti dalle frecce, trovandovi ancora praticamente intatto la maggioranza dell’esercito ottomano composto da decine di migliaia di unità perfettamente addestrate, equipaggiate e riposate.
Inoltre le truppe ottomane disponevano di arcieri dotati del famoso arco turco, una variante dell’arco composito (detto anche riflesso e ricurvo), più compatto e versatile del longbow, poteva essere utilizzato anche a cavallo, garantiva maggior potenza, precisione e velocità rispetto al longbow, raggiungendo anche i 600 mt di gittata in battaglia e con una rapidità di tiro che sarebbe stata raggiunta solo nella seconda metà dell’800 con le carabine a ripetizione. L’efficacia di questo arco indusse alcune potenze sovrane e regionali ad adottarlo, tra cui la Repubblica di Venezia.
Quando arrivò re Sigismondo poté solo prendere atto della disfatta francese ed inveire contro il duca di Borgogna per non averlo ascoltato e non essersi coordinato con lui.
Le ripercussioni di questa sconfitta, attribuibile interamente ai francesi furono gravissime per l’Europa, che perse ogni fiducia nelle crociate e pose le basi per le successive sconfitte che portarono alla caduta di Costantinopoli nel 1453 e relegarono per lungo tempo al solo principato di Valacchia (cui si aggiunsero in seguito i principati di Albania ed Epiro uniti dal condottiero ed eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderberg) con l’ausilio occasionale del regno di Ungheria, l’onere di contrastare l’espansionismo turco. E vi riuscirono con notevole successo, seppur sempre in netta minoranza numerica, applicando tattiche di guerriglia e sfruttando la perfetta conoscenza del territorio.
Francia ed Inghilterra invece ne approfittarono per riprendere la Guerra dei Cent’anni e le altre dinastie sovrane e collaterali poterono continuare imperterrite nelle loro sciagurate e scellerate guerre intestine, intrise di congiure, intrighi e cospirazioni, complotti e conflitti per la successione al trono di qualche regno.
In tutte queste battaglie i francesi dimostrarono un’ottusità che si potrebbe spiegare solo con il loro timore di perdere prerogative, privilegi e dignità di rango, che derivavano dal possesso fondiario e dal titolo nobiliare che era ancora legato al feudo. Senza vittorie, senza gloria militare, il rischio di degrado e decadenza era alto, non solo di fronte al sovrano ed al clero ma anche come legittimazione popolare morale che solo l’eroismo in battaglia poteva fornire, anche perché nel corso del medioevo le concessioni di feudi e quindi di titoli nobiliari ed onorificenze cavalleresche erano discrezionalità dei sovrani, ed erano ancora prevalentemente correlati alle prodezze in battaglia oltre alla fedeltà militare e politica al sovrano di turno. E quindi ripeterono per secoli ciò che sapevano fare, caricare a cavallo con impeto, senza tener conto delle mutate condizioni belliche che li rendeva ormai facili bersagli, non più in grado di fornire quel prezioso valore aggiunto che nel corso del medioevo gli era stato ampiamente riconosciuto e che ne consolidava il prestigio ed il potere.
Gli archi lunghi ed in generale quasi tutti gli archi caddero in disuso progressivamente, secondo gli eserciti e le località, man mano che avanzava la tecnologia bellica delle armi da fuoco e si rinforzavano le armature dei cavalieri e dei fanti, in grado di resistere all’impatto delle frecce, rendendo in ogni caso non mortale la ferita arrecata. Inoltre nelle battaglie prolungate gli arcieri si stancavano e miravano sempre peggio (anche perché provenienti perlopiù dalle file contadine, non propriamente ben nutrite ed in grado di resistere a sforzi prolungati), mentre i “fucilieri” potevano proseguire finché avevano munizionamento e polvere da sparo a disposizione. La rinuncia all’arco era quindi inevitabile, ma in ogni caso durò in servizio parecchi millenni, dimostrandosi l’arma più longeva ed efficace della storia.
I nobili che a lungo la snobbarono pagarono gravi conseguenze.

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