Barbablù

Barbablù consegna il mazzo di chiavi a sua moglie Pula, illustrazione di Gustave Doré (1862)

Barbablù di Nicoletta Camilla Travaglini
Correva l’anno 1066 quando Guglielmo il Conquistatore, suddito del re di Francia, con la battaglia di Hastings, mise fine alla dominazione sassone sull’Inghilterra, sostituendola con quella normanna. Attraverso una fitta rete di matrimoni combinati, la Francia e l’Inghilterra, strinsero forti alleanze che portarono i sovrani inglesi ad avere dei domini in terra francese, anche se, questi, risultavano sempre e comunque vassalli della corona di Francia. Questi stretti legami parentali portarono con il tempo e con la morte dell’ultimo re capetingio, Carlo IV, a una contesa legale su chi doveva essere il legittimo erede al trono di Francia rimasto vacante per mancanza di discendenti diretti del defunto monarca. Era l’inizio del quindicesimo secolo quando una cruenta guerra civile dilania la Francia, conflitto scatenatosi in seguito a una congiura che porta alla morte del duca d’Orlans. Le due opposte fazioni quella dei Borgognoni, propugnatori di una monarchia inglese, e quella degli Armagnacchi filofrancesi, mise a ferro e fuoco la Francia, finché la regina Isabella moglie di Carlo VI e a nome del suo consorte, con il trattato di Troyes del 1420, pose fine a queste lotte intestine, cedendo il trono francese all’Inghilterra, sconfessando, così, di fatto, suo figlio Carlo VII come legittimo erede al trono. Per Carlo, molto amareggiato da questa situazione, non accettò di essere lasciato in disparte e, così, con il sostegno degli Armagnacchi, si proclamò re di Francia. La guerra tra i due regni continuò sempre più cruenta e violenta finché non entrò in gioco una ragazza chiamata Giovanna d’Arco!
Ma chi era costei?
Secondo Antony S. Mercatante, Giovanna d’Arco all’età di tredici anni, ebbe delle visioni da lei poi identificate come voci di San Michele, Santa Caterina e Santa Margherita. Quando Enrico VI d’Inghilterra assediò Orleans nel 1428, Giovanna, convinta di essere la prescelta da Dio per scacciare gli inglesi dal suolo francese, si preparò alla guerra. Parlò al delfino (futuro Carlo VII) della sua missione e, in abiti maschili, guidò le truppe francesi alla vittoria nel maggio e nel giugno 1429. Era a fianco di Carlo VII alla sua incoronazione in luglio. Non avendo truppe in numero sufficiente per proseguire la campagna, Giovanna, fu fatta prigioniera dai Borgognoni che la vendettero agli inglesi. Fu processata con dodici accuse di stregoneria e per essersi tagliata i capelli e aver indossato abiti maschili l’ordine di esecuzione le fu riferito da un inglese. Quando Giovanna udì l’ordine, cominciò a piangere e lamentarsi in tal modo che tutti i presenti si commossero fino alle lacrime. Il fuoco venne acceso e Giovanna venne tragicamente martirizzata. Durante la battaglia di Orlans Giovanna d’Arco era affiancata da Maresciallo di Francia Gilles de Rais, sulla cui figura, il famoso scrittore di favole Perrault, modellò il personaggio di Barbablù.
Ma chi era Gilles de Rais?

Sigillo di Gilles de Rais

Secondo quanto si legge nei grandi enigmi di Martin Myster intitolato Il segreto di Giovanna d’Arco si dice che Gilles De Montmorecy-Laval, barone di Rais o Retz, era un nobile vissuto nel quindicesimo secolo che crebbe alla corte del Delfino Carlo di Valois, il futuro Carlo VII, del quale divenne amico e compagno fidato. Grazie alle eredità del nonno e dei genitori, e a un matrimonio abilmente combinato, a ventotto anni si trovò a essere l’uomo più ricco della Francia. Mentre il paese stava attraversando una fase cruciale della guerra dei Cent’anni il suo temperamento fortemente irrequieto trovò uno sbocco in una brillante carriera militare. Gilles si guadagnò sul campo, infatti, il titolo di maresciallo di Francia nelle numerose battaglie sostenute contro le truppe inglesi prestando servizio durante le campagne di Giovanna d’Arco, la leggendaria Pulzella d’Orlans. Con lei sviluppo un legame, secondo alcuni molto forte di profonda devozione. Purtroppo la vicenda della Pulzella ebbe un finale tragico, allorché Giovanna venne catturata dagli inglesi e condannata al rogo per eresia. Si dice che Gilles abbia animatamente litigato con Carlo VII perché questi, per motivi politici non si era adoperato per far liberare la Pulzella. Gilles abbandò allora la carriera militare, disgustato dagli intrighi di corte e si ritirò a vita privata nelle sue terre, dove condusse una vita opulenta e dissoluta. Non si sa esattamente come e quando iniziò ma sta di fatto che, a un certo punto il signore de Rais prese l’abitudine di far condurre al proprio castello, a Tiffauges, diversi ragazzini ufficialmente per prenderli al proprio servizio come paggi. Ma i fanciulli, in realtà venivano condotti nelle camere di tortura del barone, dove trovavano una triste fine al termine di mille sevizie Secondo altri, invece, le torture che infliggeva alle sue vittime facevano parte di riti oscuri finalizzati alla evocazione di demoni, Con l’aiuto o su istigazione di un sedicente mago e alchimista italiano appunto quel Francesco Prelati grazie al quale la residenza di Tiffauges divenne in breve tempo un vero e proprio Castello degli orrori, Gilles de Rais commise una lunga serie di brutali omicidi senza che nessuno lo fermasse, grazie al suo potere, ma era impensabile che tali atti potessero venire coperti indefinitivamente e, alla fine, la verità venne a galla. Il maresciallo di Francia venne quindi arrestato e messo sotto processo, seppure con tutti privilegi concessi al suo rango. Durante il processo i servitori parlarono, e tutte le sue efferatezze vennero alla luce con grande orrore e ribrezzo dei presenti. Gilles dapprima negò, poi confessò ogni cosa in un mare di lacrime. Venne condannato a morte il 26 ottobre 1440, assieme ai suoi complici. Gli fu con-cesso di avere una degna sepoltura, invece di lasciare che il suo corpo venisse bruciato e le ceneri sparse al vento, com’era previsto dalla legge per quel genere di crimini. Se si prova a leggere la fiaba di Barbablù come viene riportata nel sito http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/perrault/barbablu.htm ci si rende conto della inaudita ferocia che si annidava nell’animo del protagonista di questa favola. C’era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche, e piatterie doro e d’argento, e mobilia di lusso ricamata, e carrozze tutte dorate di dentro e di fuori. Ma quest’uomo, per sua disgrazia, aveva la barba blu e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c’era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe levate dalla paura. Fra le sue vicinanti, c’era una gran dama, la quale aveva due figlie, due occhi di sole. Egli ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quella delle due che avesse voluto dargli: ma le ragazze non volevano saperne nulla e se lo palleggiavano dall’una all’altra, non trovando il verso di risolversi a sposare un uomo, che aveva la barba blu. La cosa poi che più di tutto faceva loro ribrezzo era quella, che quest’uomo aveva sposato diverse donne e di queste non s’era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto. Fatto sta che Barbablù, tanto per entrare in relazione, le mandò, insieme alla madre e a tre o quattro delle loro amiche e in compagnia di alcuni giovinotti del vicinato, in una sua villa, dove si trattennero otto giorni interi. E lì, fu tutto un metter su passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende: nessuno trovò il tempo per chiudere un occhio, perché passavano le nottate a farsi fra loro delle celie: insomma, le cose presero una così buona piega, che la figlia minore fin col persuadersi che il padrone della villa non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene. Tornati di campagna, si fecero le nozze. In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie che per un affare di molta importanza era costretto a mettersi in viaggio e a restar fuori almeno sei settimane: che la pregava di stare allegra, durante la sua assenza; che invitasse le sue amiche del cuore, che le menasse in campagna, caso le avesse fatto piacere: in una parola, che trattasse da regina e tenesse dappertutto corte bandita. Ecco, le disse, le chiavi delle due grandi guardarobe: ecco quella dei piatti doro e d’argento, che non vanno in opera tutti i giorni: ecco quella dei miei scrigni, dove tengo i sacchi delle monete: ecco quella degli astucci, dove sono le gioie e i finimenti di pietre preziose: ecco la chiave comune, che serve per aprire tutti i quartieri. Quanto poi a quest’altra chiavicina qui, quella della stanzina, che rimane in fondo al gran corridoio del pian terreno, padrona di aprir tutto, di andar dappertutto, ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d’entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera. Ella promose che sarebbe stata ubbidiente agli ordini ed egli, dopo averla abbracciata, salì in carrozza, e via per il suo viaggio. Le vicine e le amiche non aspettarono di essere cercate, per andare dalla sposa novella, tanto si struggevano dalla voglia di vedere tutte le magnificenze del suo palazzo, non essendosi arrisichiate di andarci prima, quando c’era sempre il marito, a motivo di quella barba blu, che faceva loro tanta paura. Ed eccole subito a sgonnellare per le sale, per le camere e per le gallerie, sempre di meraviglia in meraviglia. Salite di sopra, nelle stanze di guardaroba, andarono in visibilio nel vedere la bellezza e la gran quantità dei parati, dei tappeti, dei letti, delle tavole, dei tavolini da lavoro, e dei grandi specchi, dove uno si poteva mirare dalla punta dei piedi fino ai capelli, e le cui cornici, parte di cristallo e parte d’argento e d’argento dorato, erano la cosa più bella e più sorprendente che si fosse mai veduta. Esse non finivano dal magnificare e dall’invidiare la felicità della loro amica, la quale, invece, non si divertiva punto alla vista di tante ricchezze, tormentata, com’era, dalla gran curiosità di andare a vedere la stanzina del pian terreno. E non potendo più stare alle mosse, senza badare alla sconvenienza di lasciar li su due piedi tutta la compagnia, prese per una scaletta segreta, e scese giù con tanta furia, che due o tre volte ci corse poco che non si rompesse l’osso del collo. Arrivata all’uscio della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del marito, e per la paura dei guai, ai quali poteva andare incontro per la sua disubbidienza, ma la tentazione fu così potente, che non ci fu modo di vincerla. Prese dunque la chiave, e tremando come una foglia aprì l’uscio della stanzina. Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominci a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue accagliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposate, e poi s
gozzate, una dietro l’altra. Se non morì dalla paura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano. Quando si fu riavuta un poco, raccattò la chiave, richiuse la porticina e salì nella sua camera, per rimettersi dallo spavento: ma era tanto commossa e agitata, che non trovava la via a pigliar fiato e a rifare un po’ di colore. Essendosi avvista che la chiave della stanzina si era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte: ma il sangue non voleva andar via. Ebbe un bel lavarla e un bello strofinarla colla rena e col gesso: il sangue era sempre lì perché la chiave era fatata e non c’era verso di pulirla perbene: quando il sangue spariva da una parte, rifioriva subito da quell’altra. Barbablù tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva ricevuto lettere, dove gli dicevano che l’affare, per il quale si era dovuto muovere da casa, era stato bello e accomodato e in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto quello che poté per dargli ad intendere che era oltremodo contenta del suo sollecito ritorno. Il giorno dipoi il marito le richiese le chiavi ed ella gliele consegnò, ma la sua mano tremava tanto, che esso poté indovinare senza fatica tutto l’accaduto. Come va, diss’egli, che fra tutte queste chiavi non ci trovo quella della stanzina? Si vede, ella rispose, che l’avrò lasciata di sopra, sul mio tavolino. Badate bene, disse Barbablù, che la voglio subito. Riuscito inutile ogni pretesto per traccheggiare, convenne portar la chiave. Barbablù, dopo averci messo sopra gli occhi, domandò alla moglie: Come mai su questa chiave c’è del sangue? Non lo so davvero, rispose la povera donna, più bianca della morte. Ah! non lo sapete, eh! Replicò Barbablù, ma lo so ben io! Voi siete voluta entrare nella stanzina. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sempre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto l dentro. Ella si gettò ai piedi di suo marito piangendo e chiedendo perdono, con tutti i segni di un vero pentimento, dellaver disubbidito. Bella e addolorata com’era, avrebbe intenerito un macigno: ma Barbablù aveva il cuore più duro del macigno. Bisogna morire, signora, diss’egli, e subito. Poiché mi tocca a morire, ella rispose guardandolo con due occhi tutti pieni di pianto, datemi almeno il tempo di raccomandarmi a Dio. Vi accordo un mezzo quarto dora: non un minuto di più, replicò il marito. Appena rimasta sola, chiamò sua sorella e le disse: Anna, era questo il suo nome, Anna, sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arrivano i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fa loro segno, perché si affrettino a più non posso. La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno? Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia. Intanto Barbablù, con un gran coltellaccio in mano, gridava con quanta ne aveva nei polmoni: scendi subito! O se no, salgo io. Un altro minuto, per carità rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno? Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia. Spicciati a scendere, urlava Barbablù, o se no salgo io. Eccomi rispondeva sua moglie; e daccapo a gridare: Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno? Vedo rispose la sorella Anna, vedo un gran polverone che viene verso questa parte… Sono forse i miei fratelli? Ohimè no, sorella mia: un branco di montoni. Insomma vuoi scendere, sì o no? urlava Barbablù. Un altro momentino rispondeva la moglie: e tornava a gridare: Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?. Vedo ella rispose due cavalieri che vengono in qua: ma sono ancora molto lontani. Sia ringraziato Iddio, aggiunse un minuto dopo, sono proprio i nostri fratelli: io faccio loro tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto. Intanto Barbablù si messe a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna ebbe a scendere e, tutta scapigliata e piangente, andò a gettarsi ai suoi piedi: sono inutili i piagnistei, disse Barbablù, bisogna morire. Quindi pigliandola con una mano per i capelli, e coll’altra alzando il coltellaccio per aria, era lì lì per tagliarle la testa. La povera donna, voltandosi verso di lui e guardandolo cogli occhi morenti, gli chiese un ultimo istante per potersi raccogliere. No, no!, gridò l’altro, raccomandati subito a Dio e alzando il braccio… In quel punto fu bussato così forte alla porta di casa, che Barbablù si arrestò tutta un tratto; e appena aperto, si videro entrare due cavalieri i quali, sfoderata la spada, si gettarono su Barbablù. Esso li riconobbe subito per i fratelli di sua moglie, uno dragone e l’altro moschettiere, e per mettersi in salvo, si dette a fuggire. Ma i due fratelli lo inseguirono tanto a ridosso, che lo raggiunsero prima che potesse arrivare sul portico di casa. E così colla spada lo passarono da parte a parte e lo lasciarono morto. La povera donna era quasi più morta di suo marito, e non aveva fiato di rizzarsi per andare ad abbracciare i suoi fratelli. E perché Barbablù non aveva eredi, la moglie sua rimase padrona di tutti i suoi beni: dei quali, ne dette una parte in dote alla sua sorella Anna, per maritarla con un gentiluomo, col quale da tanto tempo faceva all’amore: di un’altra se ne servì per comprare il grado di capitano ai suoi fratelli: e il resto lo tenne per sé, per maritarsi con un fior di galantuomo, che le fece dimenticare tutti i crepacuori che aveva sofferto con Barbablù.
Fonti
https://pdfslide.tips/documents/tradizioni-e-misteri-vol-1.html
http://www.edizionitabulafati.it/deefatestreghe.htm
http://www.edizionitabulafati.it/ilgraalinabruzzo.htm

nicolettaNicoletta Travaglini
Laureata in lingue straniere presso l’università di Roma Tre, traduttrice internazionale accreditata presso l’UNESCO ha curato mostre fotografiche sulle più svariate tematiche che spaziano dall’archeologia, alla poesia, all’ecologia ed al mistero! E’ inoltre laureata in Educazione Ambientale, presso l’Università de L’Aquila. Ha tenuto seminari e lezioni presso atenei sul suo modo di interpretare la fotografia paesaggistica, architettonica e visionaria della realtà! Ha scritto alcuni libri per ragazzi rielaborando leggende locali, ha scritto e scrive per diversi giornali e riviste di taglio antropologico culturale, e turistico, è stata guida turistica ed ha collaborato con musei e castelli nella loro gestione; ha realizzato diversi laboratori, presso le scuole elementari e medie, sul Medioevo fantastico. La passione per l’archeologia l’ha portata a scrivere per alcune riviste e siti che affrontano tali tematiche. Autrice del libro “Il Graal in Abruzzo” ha tenuto una serie di conferenze su questo tema. Scrivi a Nicoletta Travaglini.
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