Bulgari, cavalieri e bojàri di Aldo C. Marturano
La prima impressione che si riceve nel leggere le Cronache Russe, stese peraltro nel XII sec., è che i Varjaghi di stirpe germanica appaiono nel IX sec. in procinto di fondersi nella Pianura Russa con gente ugro-finnica e slava per formare una nuova etnia col nome di Rus’ e fondare lo stato kievano. E questo dopo un andirivieni dal Mar Baltico. Né siamo convinti affatto che i Varjaghi stessero mettendo a soqquadro i territori dell’estremo nordest della Pianura Russa per un tentativo del genere senza trovarsi di fronte ad altre organizzazioni, forse ancora non stati veri e propri, che le genti del luogo avevano già costituito. Ad esempio è inutile spulciare le Cronache Russe per saper qualcosa di preciso dell’area del Volga e dei Bulgari che nel nordest avevano propri impianti stabili.
Confessiamo di non sapere in verità se tale impostazione sia almeno in parte veritiera o sia stata concepita dalla fantasia del cronachista, ma è quel che si deduce dalla lettura dei testi impastati con le tante leggende locali dopo averle riassunte e “ripulite” e finalmente fissate nello scritto. Eppure le Cronache Russe sono state spacciate come storia fino al XVIII sec.!
Già il paesaggio in sé col clima, con la sua conformazione geologica etc. impedisce delle conclusioni storiche semplici poiché da vari altri punti di vista è complicato e poco esplorato per permettere a chi arriva da lontano di muoversi agevolmente senza dipendere dai nativi. Quanto poi condurre, ad esempio, campagne militari di conquista a largo raggio e per lungo tempo, è persino folle. Laghi, fiumi e paludi innumerevoli senza una guida locale esperta non portavano da nessuna parte, per tacere dell’estensione dei laghi stessi come il Làdoga (allora Njevo) grande come la Lombardia o del lago Onègo di taglia più o meno simile, entrambi attraversabili rapidamente soltanto d’inverno quando la loro superficie era ghiacciata. Né la densità abitativa degli abitanti era tale da suggerire frequenti incontri fra estranei. I finni Ingri si vedevano sulle coste baltiche solo quando la stagione era quella “col sole” visto che vivevano per 6 mesi nella notte polare. Lo stesso si può dire degli ugri Vepsi intorno a Lago Bianco (russo Bjelo Ozero) e di altre etnie si sapeva ancor meno. Che aspetto avessero o come vivessero e si nutrissero queste persone era materia di favole e racconti fantastici ancora nel X e XI sec. addirittura!
I concreti e realisti mercanti musulmani del IX-X sec. si auguravano piuttosto che il nordest restasse pure pochissimo conosciuto e difficoltoso da attraversare o da raggiungere, ma che continuasse a fornire merci di scambio altamente lucrative! E infatti nel VII-VIII correva voce che in uno dei mercati terminali delle Vie della Seta, cioè nella città di Bulgar-sul-Volga, c’era il malik (arabo per signore, padrone) dei non meglio identificati Saqalibat (forse una lettura corrotta del greco Sklavoi cioè Slavi) i quali mediavano i carissimi prodotti della foresta nordica fra cui i bellissimi schiavi e l’argento per coniare i dirhem. Oltre Bulgar-sul-Volga però non si andava nel nord giacché si diceva che quelle genti uccidevano qualsiasi straniero troppo ardito e curioso che avesse deviato dal cammino fissato. Si paventava che questi nordici potessero essere i sanguinari Gog e Magog della Bibbia e del Corano. Gli unici a frequentare il nord erano i Bulgari che per di più non avevano interesse ad eliminare tali favole poiché con tali paure i mercanti stranieri del Centro Asia non potevano che affidarsi appunto ai Bulgari e ai loro alleati/collaboratori per fare affari.
Rileggendo dei documenti come le Cronache Tatare ad es. non redatti dalle centrali storiche della chiesa russa, si scopre così che la situazione nella Pianura Russa è abbastanza diversa dalle impressioni di ritrovarsi perennemente in scontri e razzie come ci rifila la Chiesa Russa del XII sec., eccetto forse per la zona delle steppe ucraine. A causa purtroppo di varie vicissitudini – moscovite in particolare, dato che per secoli si conservò l’abitudine di riempire gli archivi della capitale di libri e di scritti per poi vederli svanire nel fumo di terribili incendi – alcuni popoli e alcuni stati risultano quasi interamente cancellati dal Medioevo Russo fra cui giusto i Bulgari del Volga e il loro stato.
È da dire qui che la multietnicità dava fastidio alle autorità ecclesiastiche slavo-russe alla ricerca di persone da battezzare e da rendere suddite del giovanissimo stato Rus’ di Kiev. Il disegno divino proposto dal cristianesimo auspicava una fusione dei popoli affinché l’esito fosse un’unica grande e santa gente russa cristiana (ortodossa) con un’unica lingua distinta dalle altre confinanti. Se poi si aggiunge che ai tempi moderni e con l’abitudine sette-ottocentesca di fare storia nazionale su eventi straordinari e personaggi eroici, le battaglie e le guerre con numeri esagerati di persone che combattevano e, nel nostro caso, in spiazzi estesissimi naturalmente immaginari nel racconto scritto avevano la meglio. In conclusione la visione di un nordest in permanente campagna militare agli inizi del Medioevo Russo la respingiamo e in più non crediamo che siano sempre degli armati slavo-russi con intenti benevoli a scontrarsi con degli stranieri brutalmente ostili.
L’archeologia ha scompigliato da qualche decennio le teorie finalistiche della storia in tal senso e ha portato prove concrete che non è il dio cristiano che guida le azioni umane, ma i numerosi fattori personali, le situazioni climatiche e economiche, le esigenze e i consumi nuovi, le tradizioni dure a cambiare etc. Gli eventi e i modi di interpretarli e raccontarli insomma oggi sono altri. Il Medioevo Russo va riletto, ricorretto e reinterpretato e il presente saggio è un modesto tentativo di farlo dedicandosi agli sviluppi degli aspetti del “mondo” militare.
In questo capitolo prediligeremo i Bulgari del Volga peraltro senza prescindere da località e città di cui si parlerà spesso, come Kiev e Grande Novgorod. Di queste realtà antropiche ci occuperemo qui dato che risultano strettamente legate fra loro da eventi comuni dall’inizio del Medioevo Russo.
Dunque i Bulgari. Parte di una lega di genti nomadi insieme con i Càzari nel gruppo dei Turchi Ghuz, avevano lasciato gli Altai intorno al III-IV sec. d.C. diretti a Occidente. Con varie tappe durate dei secoli erano migrati e giunti ai confini con l’Impero Romano e dopo aver servito militarmente gli Unni erano stati allogati da Costantinopoli nella conca del Danubio in un progetto di stato cristiano. Nel VII sec. d.C. per dissidi interni dei clan al potere lo stato bulgaro cristiano si era sfasciato e i clan si erano divisi. Uno dei capi-clan, Kotrag, sollecitato dai Càzari era risalito lungo il Volga e sotto la confluenza del Kama col Volga aveva fondato un nuovo nucleo bulgaro incaricato della guardia del traffico mercantile lungo la corrente per conto dei Càzari.
I Bulgari del Danubio comprendevano nel dominio loro affidato dall’Impero Romano non solo il delta del grande fiume, ma anche la steppa intorno a Poltava compresa la postazione di Kiev. Preziosa dal punto di vista strategico perché situata su un’ansa del Dnepr fra steppa e foresta, la città era stata rifondata dai Càzari su un antico sito archeologico e poi affidata per il servizio militare alle bande previamente selezionate dei Varjaghi venuti dal Mar Baltico.
Kiev a guardar meglio al volgere del sec. IX era il melting pot etnico più confuso forse dell’intera regione proprio in ragione della posizione geografica di trovarsi all’incrocio di due maggiori direttrici di traffico di genti e di merci. Una direttrice, quella est-ovest, era la cosiddetta Via dell’Okà che collegava Kiev con i Bulgari congeneri del Volga. L’altra, quella nord-sud, andava dal Mar Baltico al Mar Nero passando per Polozk. Il potere congiunto di Bulgari e Càzari gestiva e controllava l’intero sistema e più il traffico lungo le direttrici cresceva, più aumentava l’aspirazione dei Varjaghi a cercare di impadronirsi del potere a Kiev e a imporsi nella regione bulgara del Volga. Ciò che mancava al momento per fare il colpo grosso e far nascere quel che in seguito sarà la Rus’ di Kiev era la comunanza di intenti fra le diverse bande varjaghe che frequentavano la regione… contro gli interessi càzari! Anzi! La situazione in quel di Kiev appare essere di estrema diffidenza reciproca fra i locali slavi, i turcofoni càzari e i turcofoni bulgari e gli imprevedibili varjaghi.
Intanto alla fine del IX sec. una parte dei Bulgari kievani passati all’Islam decidono di lasciare Kiev e di trasferirsi presso i congeneri del Volga optando per un’evoluzione in stato delle leghe che andranno a creare da quelle parti. L’intento è di liberarsi in primo luogo dalla servitù dei Càzari che in quegli anni erano cresciuti in potenza politica e in secondo luogo riuscire dalla posizione geografica a surclassare le disunite bande varjaghe nel controllo delle risorse. C’è però un problema da risolvere e cioè in che modo legittimare le funzioni del potere, una volta decisi a rendersi autonomi.
Bulgar-sul-Volga così com’è non serve più ai principi del X sec. Deve essere ingrandita e fornita di servizi cittadini come quelli che si raccontano esistere nel Centro Asia e fra questi c’è il mantenimento di una forza armata sia che faccia da polizia sia che intervenga nella difesa.
Occorre pensare allora a una spesa permanente che però eviti il coinvolgimento in alleanze militari di offesa. E l’insegnamento coranico viene incontro all’esigenza di pace poiché fa muovere l’Islam (etimologicamente pacificazione in dio) fra l’Occidente indicato come la Casa della Guerra (Dar ul-Harb) e l’Oriente che ufficialmente è la grande famiglia musulmana o Umma. Nel 921 d.C. così la comunità bulgara del Volga entra nell’Umma abbaside del Califfo al-Muqtadir e si trasforma in emirato con a capo l’illetver (reuccio incaricato in turco) di origini kievane Almyš che prende il nome di Gia’far e conia le prime monete d’argento bulgare.
Con l’emirato come struttura statale l’Islam almeno in teoria risolve molti problemi. Si parte dalla figura del mercante che, nella società musulmana, è l’asse portante della vita e dell’economia. Non è soltanto un tale che sposta un oggetto da un posto in un altro e viene per questo pagato, ma è colui che genera lavoro e occupazione. Infatti all’interno della sua famiglia e della sua “clientela” fabbrica e propone ai suoi partner compratori oggetti, tecnologie, nuove materie prime. È lui a stimolare i suoi nella ricerca scientifica e nella sperimentazione pratica da cui far scaturire novità tecniche ad alto contenuto tecnico-scientifico da scambiare. Il profitto degli affari così conclusi? Vanno alla sua persona in primo luogo e ai membri della famiglia che di solito ha coinvolto numerosi.
L’altro asse portante è il contadino che produce per sé e per la sua famiglia derrate alimentari oltre al surplus da scambiare. Opera su una terra che non gli appartiene, ma che gli è concessa da dio per un certo tempo. E infine minore, ma simile, è pure il ruolo del pastore che nomadizza fra le fertilissime Terre Nere e la steppa.
Su questi centri di produzione veglia con bonarietà l’élite a capo della quale c’è l’emiro consacrato da dio e la sua famiglia. L’emiro ha un compito più esteso di quanto si creda giacché le scritture coraniche dominano ogni momento della vita e all’emiro in persona è prescritto istituire e dirigere ogni istanza dai tribunali alle università, dagli ospedali alle forze armate con saggezza e misura che ispirano le regole religiose del Corano. Ogni membro della società deve portare in ogni suo atto rispetto a quelle regole, una volta che si sia dichiarato ad esse sottoposto, e adempiere ai compiti-doveri assegnati sotto la paterna guida dell’emiro e degli uomini da lui nominati.
Ogni capofamiglia: contadino, mercante, pastore nomade è tenuto così a pagare la decima annuale dei suoi guadagni all’emiro e le risorse che non riuscisse a spendere per sé e per i suoi vanno devolute ai più deboli della società concorrendo alla costruzione e alla manutenzione di opere pubbliche.
E qual è l’uso del militare da parte dell’emiro (amir significa comandante militare in arabo) nel contesto del commonwealth bulgaro-musulmano creato sul Volga? Dalle fonti apprendiamo che un corpo di cavalieri armati agiva sia da guardia d’onore che da corpo di polizia a Bulgar-sul-Volga, pur sempre con giurisdizione limitata ai territori intorno alle diverse capitali bulgare a noi note.
L’interesse bulgaro per sostenere l’intero sistema si concentrava in prevalenza sui cespiti economici del momento consistenti 1. della foresta coi suoi prodotti e 2. delle vie commerciali con i loro balzelli. Questo è l’uso del militare nella Bulgaria del Volga e nei territori che ne riconoscevano la preminenza e cioè ognuno pensi da sé alla propria difesa! E, a quanto ne sappiamo, c’era un larghissimo consenso a tale atteggiamento ideologico nel nordest e sul Mar Baltico durato fino al XII-XIII sec. La prova più lampante è l’esperienza del mercante scandinavo alla fine del IX sec. che in breve raccontiamo, se il lettore ci perdonerà la digressione. Ottar (Oththere in ingl.) raccontò al re Alfredo d’Inghilterra che con la sua nave aveva aggirato Capo Nord ed era approdato sulle coste oggi russe del Mar Glaciale. Il posto era abbastanza deserto e le poche persone che incontrò furono i Finnas e i Beormas. Ora Beormas è la corruzione inglese di Bijar-ma, il nome più diffuso della regione del nordest fra gli Ugro-finni ossia Terra dei Bijar e si fa gran fatica a riconoscere in Bijar i Vulzun-beire del Geografo Bavarese (ca. IX sec.) o i Bileri del francescano Giovanni da Pian del Carpine (XIII sec.) ossia i Bulgari del Volga?
D’altronde le materie prime e i prodotti semi-finiti si trovavano giusto qui nel profondo nord e specialmente, come accennavamo, nel mercato di lago Bianco (Bjelo Ozero). Col maturarsi degli eventi comunque stava crescendo l’esigenza di un nuovo grande mercato più moderno lungo una terza direttrice: Mar-Baltico-Volga-Centro-Asia. I Bulgari del Volga avevano già individuato il luogo giusto nella zona paludosa sulle sponde del lago Ilmen poco a nord delle sorgenti del Volga e alla foce del fiume Msta che pure frequentavano. Insieme con i locali si pensò di fondare la nuova città che, secondo gli usi del tempo, si sarebbe chiamata Bulgar Nuova. Ciò avverrà più o meno nel 930 e quel che è notevole è che sarà imposta un’oligarchia tecnico-politica bulgara al governo. Non ci sarà l’emiro perché risiede a Bulgar-sul-Volga e gran parte delle decisioni collettive saranno prese appunto dagli oligarchi bulgari, in russo boljare e in italiano bojari, insieme con il resto dei cittadini. Col tempo gli oligarchi non esiteranno (vedi i congeneri danubiani) a adottare lo slavo- russo come lingua veicolare e Bulgar Nuova si chiamerà ora Grande Città Nuova (in russo Velikii Novgorod) mentre si eviterà una netta scelta religiosa fino al XII sec. in risposta rispettosa della composizione multietnica della regione circostante.
A grandi tratti questa è la situazione della Pianura Russa, parte forestale, ricostruita nelle prime decadi del X sec. con alcune ipotesi storiche che richiedono però conferme.
Intanto mettiamo in chiaro che i Bulgari del Volga senza inutili scontri o conflitti dalla loro posizione nelle fertilissime Terre Nere per anni continueranno a fornire derrate alimentari come segala e altre granaglie sia a Grande Novgorod che a Kiev ottenendo in cambio forniture di prodotti della foresta e – importante! – senza tributi o donazioni forzate.
I Bulgari sul mercato di Bjelo Ozero comunque ottengono tutti i prodotti che loro servono e praticano il cosiddetto commercio muto detto tale perché le persone che scambiano non si vedono mai di persona. Nella mercatura ciò è basilare per tre ragioni: 1. Si evita di far conoscenza e essere poi costretti per amicizia a far sconti etc. 2. Ognuno porta il prodotto migliore che ha e evita di imbonirne la qualità con le chiacchiere e le menzogne pubblicitarie 3. Non è previsto discutere di pagamenti dilazionati né perder tempo con falsi monetari e con monete da pesare per valore e autenticità.
Come vediamo la questione “stato” è così abbastanza ben risolta e i Bulgari sono ora pronti a esportarne il loro modello statale e noi appunto lo notiamo un decennio dopo la nascita dell’emirato sul Volga riprodotto sul fiume Volhov. Si parlerà di Grande Novgorod come repubblica oligarchica indipendente e non si dirà da chi e perché tale idea repubblicana sia scaturita.
E invece la mentalità affaristica per così dire da attribuire agli oligarchi ossia ai bojari delle Cronache Russe di Grande Novgorod a nostro modo di vedere è più o meno la medesima che i Bulgari diffondono nel nordest e la questione militare in territori dove gli abitanti vivono in accordo non si pone come necessità indispensabile, ma si risparmia sui costi passivi. Si preferirà investire in costruzioni sfarzose o di tenere in buona efficienza i servizi per i mercanti compreso, certamente, il servizio di difesa delle vie fluviali con uomini armati, ma non si sprecheranno risorse per eserciti e armate di conquista fissi. Sarà questa la tradizionale politica novgorodese fino al 1478…
Grande Novgorod un prodotto politico-culturale di Bulgar-sul-Volga? Non c’è alcuno scandalo nel prefigurare una tale circostanza. Non solo! L’Islam di taglio bulgaro giunse fin in Svezia a Birka sotto tanti aspetti. Certo, moschee o armamentari religiosi del genere non ce ne sono a Birka, ma ciò suggerisce da un lato che il vescovado di Amburgo-Brema stava lavorando egregiamente in ambiente baltico-svedese e dall’altro sottolinea l’atteggiamento di diffuso “pacifismo” e tolleranza religiosa dei Bulgari, interessati piuttosto ai contatti mercantili che non a urtare l’eventuale sensibilità pagana dei collaboratori estranei.
Riportiamo un solo esempio, fra i molti altri, che conferma l’influenza bulgara apportata dai mercanti che visitano Birka e cioè il gesto di mettere in mostra un capo d’abbigliamento indossato da chiunque possegga un cavallo: la cintura.
È una parte del vestire abbastanza insolita per l’uso tradizionale europeo del nordovest. E qui ci rifacciamo all’accurata ricerca della studiosa C. Hedenstierna-Jonson (v. bibl.) che ha appuntato un’attenzione particolare sugli aspetti “militari” dei reperti archeologici di Birka fra cui ha notato l’accessorio cintura tenendo presente gli scambi commerciali (e quindi culturali) nel IX e nel X sec. col nordest slavo-russo.
È noto che il mercato è un luogo non solo di compravendita, ma anche di spettacoli di vario genere e chi meglio di esperti lottatori, abili lanciatori di pugnali, saltatori, boxeurs e simili può attirare gli astanti per guardarne le esibizioni e trarne divertimento? E un tipo di lotta marziale di stampo orientale era battersi agganciando la cintura dell’avversario con una mano per colpirla con l’altra e scaraventarlo a terra vincendo. In russo è la borbà na pojasàh ancora oggi popolarissima.
Perché orientale? Poiché quasi esclusivamente gli stranieri del nordest indossavano la cintura. In Occidente era raro vederla in vita a un uomo se non servisse a tenere appesa una spada o un pugnale ossia era un capo d’abbigliamento strettamente militare. In Oriente e al di qua degli Urali era al contrario un segno di distinzione sociale civile. In primo luogo la indossava l’uomo e meno spesso la donna. Il mercante vi infilava la tasca con i vari strumenti che gli servivano in certi momenti del suo mestiere insieme con il fodero del coltello usato per campionare le pelli, etc. Soprattutto erano curati nella fattura della cintura: la fibbia e la larghezza, le pietre preziose e semi-preziose incrostate nel cuoio perché segni di rango.
Di chi si presentava in pubblico sia che facesse o non facesse mercatura, dalla cintura messa ben in vista col giaccone scostato era possibile dedurne il ruolo e lo scopo della venuta!
Se occorre, porterà inciso sulla cintura il suo nome e i segni di un’impresa andata bene o male, di un compito ben eseguito e chi sa leggere tali segni saprà come rivolgersi per parlargli.
Addirittura i ca. 300 bojari novgorodesi volgarmente erano chiamati le cinture…
Da quanto scritto sin qui è pure chiaro che gli “orientali” a Birka non potevano che essere i Bulgari che attraverso la cintura riuscivano a invitare al dialogo il curioso o l’interessato. In quei tempi infatti stavano rafforzando i loro contatti col Centro Asia e qui questo accessorio aveva un suo grande valore e, siccome i mercanti musulmani sapevano usare molto bene le loro abilità multiculturali e fisiche per riuscire a coniugare culture diverse, è da pensare che lo spettacolo della lotta di un aiutante del mercante esaltasse il ruolo di quest’ultimo.
L’epoca che stiamo contemplando è chiamata giustamente da S. Frederick Starr l’Illuminismo Perduto (v. bibl.) quando nel 819 d.C. Merv diventa la capitale del Califfato abbaside di al-Ma’mun, figlio di Harun ar-Rašid. Ci troviamo nella parte del mondo antico-persiano tecnologicamente più avanzato che sia mai esistita, talmente sviluppata da diventare invidia e modello persino per l’orgogliosa Costantinopoli. Samarcanda e Buharà, pur non risparmiate dalla decadenza intervenuta con i Tataro-mongoli nel 1150 d.C., saranno imitate in Occidente a Parigi e Londra per i servizi che organizzavano per il cittadino, per come erano pianificate le loro strade, per i loro scarichi e la distribuzione dell’acqua. Soprattutto impressionavano le loro università, gli strumenti di studio dei docenti con i testi che pubblicavano e pure perché in quelle città si ammiravano in funzione i primi macchinari costruiti da scienziati persiani di chiara fama che i greci alessandrini avevano immaginato, ma mai realizzato materialmente. Tutti i campi dello scibile umano hanno avuto qui personaggi eterni: dall’astronomia alla medicina, dalla matematica alla fisica sperimentale etc. etc. e ci basta ricordare il grande Avicenna per farsene un’idea.
E tutto ciò arrivava in Occidente fondato sulle mediazioni di mercanti che attraversavano il mondo per terra e per mare fino al Mar Baltico. È interessante notare che le mediazioni bulgare portarono a una trasformazione semantica della parola turca b’lğar (ital. bulgari e antico-russo boljàre) che non indicò più l’etnia del Volga, ma passò a denominare degli esperti specializzati nell’organizzazione delle città e dell’economia mercantile. In russo più moderno tuttavia boljàre sparirà lasciando il posto alla variante bojàre (ital. bojari/bojardi) che diventerà nel XV-XVI secc. l’ambito titolo nobiliare moscovita.
Come mai si corressero i testi in tal senso? Perché ricorrere a sofisticate ipercorrezioni? Ad esempio Lombard indica ancora oggi in alcune lingue europee chi presta denaro su pegno e corrisponde all’italiano lombardo solo in parte e non ha finora suscitato alcuna reazione negativa. Dobbiamo dire allora che la questione filologica ha un aspetto politico importante nel Medioevo Russo. Essa non ha valore in sé e per sé, se non vi riconosciamo la trovata subdola degli amanuensi slavo-russi nel negare un’etimologia considerata imbarazzante e così poter cancellare i Bulgari del Volga dalla storia di Grande Novgorod. La chiesa kievana del XII sec. in altre parole non poteva accettare il termine boljàrin come etnonimo da contrapporre a rùsin cioè kievano. Era un atto di clamoroso paganesimo dell’esecrato Islam! E così lo cambiò nel più neutro bojàrin e poté raccontare ora più tranquilla come l’orgogliosa casta della repubblica nordica fosse stata speditamente evangelizzata.
E il bagno di sangue che ci fu di chi rifiutava il battesimo, fosse bojàrin o boljàrin? Tacere. L’unica politica tradizionale del silenzio da parte dell’autorità ecclesiastica! Piuttosto adesso Grande Novgorod era occupata per sempre dai cristiani e con sollievo si sarebbe liberata dalla multietnicità fastidiosa, pagana ugro-finnica e bulgara musulmana.
E le attività mercantili ne risentirono? Certamente sì, perché furono deviate… lungo il Dnepr! Chiaro no? Con la manovra filologica insomma Grande Novgorod nei documenti restò la città dei mercanti e fu detta figlia (in linguaggio cronachistico: sottoposta) di Kiev, la città dove invece in nome del dio cristiano si coltivava l’arte della guerra e dove si lavorava per il trionfo della nuova gente Rus’.
I Bulgari comunque restano musulmani e non scompaiono. Né possiamo dimenticare che mantennero la loro abitudine di antichi nomadi di usare il cavallo e dunque vivevano da cavallerizzi. Se per praticità non apparvero a cavallo in mercati tanto distanti come Birka, a Grande Novgorod o a Bulgar-sul-Čeremšan non mancavano mai in parata nelle occasioni appropriate. D’altronde l’animale non era quello della foresta nordica di piccola taglia il pony o il tarpan (Equus Gmelini), bensì quello allevato nella steppa più alto e più snello (Equus caballus) che in tempo di pace aveva proprio il compito di mostrare l’alto ceto di chi portavano sul groppone!
Novgorodesi e Bulgari del Volga pertanto vantarono dei piccoli eserciti a cavallo, benché da come i cavalieri di Grande Novgorod si comportarono in una famosa battaglia del XV sec. in quel caso mostrarono, ahinoi, tantissima improntitudine.
E chissà se nell’ultima battaglia che Birka combatté e perse ci fossero dei Bulgari a battersi – stavolta a piedi – per aiutare gli amici di un tempo vestiti da mercanti armati d’arco e frecce come il Bulgaro raffigurato a sinistra nella pagina precedente e non da fantaccini troppo costosi come il Bulgaro a destra.
Forse sì, ma sicure prove archeologiche finora non ne sono state trovate e gli scheletri di cavalli sepolti col loro padrone in Svezia si trovano sempre nelle tombe di persone altolocate la cui provenienza è locale…
Aldo C. Marturano
Nato a Taranto, ha studiato nelle Università di Bari, poi di Pavia, infine di Amburgo, dove ha chiuso i suoi corsi di laurea in chimica industriale. Non ha mai lavorato come chimico e ha invece sfruttato le sue conoscenze linguistiche. Conosce infatti (parla e scrive correntemente) russo, inglese, tedesco, francese, spagnolo, ungherese e ne ha studiate un’altra decina che spera di portare a maggiore perfezione nel prossimo futuro. Si è diplomato in Lingua Russa all’Istituto Pusckin di Mosca dove ha avuto inizio la sua avventura nel Medioevo Russo. Lavorando sui mercati internazionali si era infatti appassionato al Medioevo, ma quando scoprì che non riusciva mai a sapere gran che su quello russo, colse l’occasione della tesi all’Istituto Pusckin e scelse di studiare un personaggio del Medioevo bielorusso, Santa Eufrosina di Polozk: di lì via via è entrato in quel mondo magico e nuovo.
Ha pubblicato il saggio storico in chiave divulgativa Olga La Russa, 2001 (che non è la sorella di Ignazio La Russa, per carità!), e poi per i ragazzi L’ombra dei Tartari, 2002, ovvero la saga di Alessandro Nevskii.
Altre sue opere sul Medioevo russo sono visibili nel portale delle Edizioni Atena.
Collabora attivamente con il portale Mondi Medievali curando la rubrica Medioevo Russo.