di Aldo C. Marturano.
Sia come sia, le prime etnie che entrarono nella realtà della Pianura Russa non furono gli Slavi, ma gli Ugro-finni che vivevano di pastorizia con le loro renne, ma pure di pesca e di caccia lungo le rive dei grandi fiumi siberiani o del Mar Glaciale Artico (se la stagione lo permetteva!) o persino utilizzando tuberi ipogei della tundra nord-asiatica. In un clima duro e alle prese con una stagione della luce e una di ugual durata, ma delle tenebre, perché mai decisero di migrare da questa parte del continente? Di certo avevano raccolto notizie dai rari mercanti che li visitavano di civiltà splendide in un non ben identificato e lontano sud dove si viveva nell’abbondanza e nel benessere e ne era nata la spinta a abbandonare le asprezze nordiche. Si informarono, esplorarono meglio il territorio circostante e finalmente passarono al di là degli Urali.
I più avanzati di loro riuscirono a scendere lungo il Kama e il Volga, incontreranno gli iranici che nomadizzavano a nord del Mar Caspio e familiarizzeranno. Gli altri rimarranno indietro e continueranno a vivere in economia di raccoglitori-allevatori ai bordi della foresta boreale… in attesa, chissà, che arrivasse un giorno il loro turno per proseguire verso il sognato sud.
Ma fu proprio così? Le nuove ricerche archeologiche danno invece da pensare che gli Ugro-finni nascessero come etnia più antica fra il Volga è il suo affluente Okà e che i primi a muoversi verso sud (bacino del Dnepr) e verso est (bacino dell’Ob) fossero gli Ugri (antenati degli Ungheresi o Magiari di oggi). Erodoto parla, senza possibilità di accertarsi della loro identità etnica, dei Budini vicini degli Sciti nelle steppe ucraine, che potrebbero essere degli Ugri.
Intorno al VI-VIII sec. d.C. abbiamo comunque il seguente quadro antropico per gli Ugro-finni nella Pianura Russa: Gli Estoni/Eesti, gli Ingri o più genericamente noti nel passato come ?udi lungo le rive del Mar Baltico orientale (oggi Estonia e dintorni di San Pietroburgo), i Vepsi/Vesi intorno a Lago Bianco e lungo le rive meridionali del Lago Onego e del Lago Ladoga/Nevo, i Märi alla confluenza dell’Okà con il Volga (una volta conosciuti come Ceremissi e oggi il loro stato è la Repubblica di Mari El), i Muroma lungo l’Okà, i Mordvini lungo l’alto Volga (oggi Repubblica Mordvina) e infine i Komi (oggi Repubblica di Komi Mu). Questi antichi europei hanno nomi che difficilmente i lettori hanno mai udito prima e ad essi vanno aggiunti gli iperborei Nenzi, Nganasani, Mansi/Ostiaki, Selkupi etc. che vivono lungo i declivi degli Urali settentrionali, per tacere invece dei Lapponi/Saami che sono più conosciuti e si muovono fin nel nord della Norvegia.
Gli Estoni hanno in questo discorso una posizione particolare giacché sembrano essere stati i primi portatori di una costruzione dalla quale poi deriva la casa quadrata classica della Pianura Russa e di cui parleremo più a lungo. Tale tipo di casa esistette presso Estoni e Ingri già nel II millennio a.C. col nome di riga. In realtà la riga è un complesso abitativo che comprende un ambiente riscaldato dove si viveva e si dormiva, ma che fungeva anche da essiccatoio per le granaglie (segale soprattutto), più un ambiente dove si tenevano arnesi e eventualmente le riserve per le seminagioni successive. In particolare i tetti erano ricoperti con paglia di segale invernale, mentre sulle isole estoni del Golfo di Riga si usava per lo stesso scopo il cannicciato e a volte assi di essenze resinose locali invece dei tronchi interi.
Queste genti, pur partendo da una cultura materiale meno ricca di quelle del sud, hanno conservato (e la difendono ancor oggi in una visione olistica e pagana dell’universo) una tradizione spirituale ricca e originale che noi riassumiamo oggi senza molta attenzione, ma certamente affascinati, nel nome di pratiche sciamaniche, sciamanesimo e simili. Erano però le stesse pratiche menzionate e paventate nelle Saghe Scandinave del XIII sec. d.C. che marchiavano gli Ugro-finni con la fama generica di potenti maghi incantatori.
Quanto ai Komi, Udmurti, Mordvini, Märi etc. che risiedono più a sud, nei documenti medievali appaiono talvolta con nomi diversi da questi qui elencati e apprendiamo che, oltre alle forti influenze iraniche ormai assimilate, dai nomadi turchi saranno trascinati spesso nella storia culturale del Medioevo delle steppe.
Dove vivono/vivevano gli Ugro-finni del nord? Le loro case sono delle tende che si possono classificare per la loro forma “a cupola” o “coniche”. Quelle “a cupola” conservano nella loro esteriorità il ricordo di quando si usavano le zanne dei mammut o dei trichechi per sostenerle e denunciano allo stesso tempo che si era lontani dalle foreste di alberi d’alto fusto. Quelle “coniche” invece, con l’uso di pali di legno diritti, sono l’indice di intensi contatti col sud e di escursioni nelle foreste meridionali. In generale le tende coniche risultano quasi uguali al tipi nordamericano e posseggono grossi vantaggi per uomini in continuo movimento giacché, ricorrendo ai giudizi di chi ha studiato il tipi americano “fratello” della tenda siberiana, leggiamo che: “E’ facile da montare… da parte di una sola persona. E’ comoda in qualsiasi tempo. Spaziosa, calda d’inverno e fresca d’estate, resiste a venti fortissimi e a piogge battenti e fornisce in qualsiasi luogo uno spazio comodo da vivere all’esterno per tutto l’anno. (da R. & G. Laurin – The Indian Tipi, Its History, Construction and Use, New York 1957).”
I Lapponi-Saami noti nella letteratura russa come Lopari già nel passato medievale incontrarono norvegesi, Vichinghi e Angli e conservarono abitudini e tradizioni leggermente aberranti rispetto agli altri Ugro-finni. La tenda lappone, chiamata kota (di etimo slavo)ein origine kuvaksi,era (ed è) di tipo conico in cui l’armatura è fatta di pali di legno o come accadeva in passato di ossa d’animali: palchi di renne, zanne di tricheco o di mammut. Dopo aver scelto il terreno adatto per impiantarla e delimitato lo spazio circolare necessario, il montaggio non dura più di tre quarti d’ora, con le operazioni in sequenza ormai ben standardizzate.
In pratica si parte da una prima struttura già pronta che il nomade ha sempre con sé a forma di due archi paralleli solidali e che sarà infissa nel suolo e sulla quale poggeranno i pali maggiori di sostegno. I detti archi, peraltro abbastanza robusti e fatti oggi di pino flessibile, erano necessari per potervi appendere il pentolone dove si cucinava e quindi per determinare il centro della casa. Venivano perciò infissi per primi. Ad essi veniva legata un altra intelaiatura più semplice che avrebbe fatto da cornice alla porta d’entrata. Finalmente si passava ai 16 pali diritti (o anche meno, purché in numero pari) di uguale lunghezza che erano poggiati e legati agli archi già infissi. Ogni palo alla sua base era affondato in fossette scavate nel terreno oppure legato a uno dei paletti che erano stati previamente martellati nel suolo ad intervalli regolari lungo la circonferenza del perimetro. A questo punto si potevano legare insieme le cime dei pali e procedere alla copertura.
D’inverno si usavano le pelli di renna conciate e rasate (il pelo avrebbe trattenuto acqua all’esterno e, gelando, avrebbe irrigidito e appesantito il tutto) che erano ritagliate e cucite in una forma “a campana” come un mantello. D’estate invece si copriva la tenda con scorza e rami frondosi di betulla, l’albero nazionale del Grande Nord, intrecciati. Alla base del mantello a contatto col suolo all’esterno contro le improvvise folate di vento erano previsti dei contrappesi…
La copertura una volta adagiata sui pali di sostegno aveva uno spazio per l’entrata che usava come porta una pelle rettangolare, d’inverno, o un telo, d’estate, pendente dal lato superiore dell’intelaiatura prevista. Scostata la “porta” si procedeva all’interno lungo una specie di sentiero fatto con pietre oblunghe lucidate che conduceva al “camino” centrale, un quadrato delimitato da altre pietre tagliate appositamente e parzialmente scavato nel pavimento. Erano pietre considerate sacre e addirittura passate in eredità e fra esse si accendeva la legna da ardere e si manteneva con molta cura la brace ardente. Intorno al focolare, se dall’entrata c’è un sentiero d’accesso ben delimitato, ci sono ancora delle pietre che disegnano lo spazio dove si prepara da mangiare. Se immaginiamo una linea che parte dalla porta d’entrata, passa attraverso il focolare e termina sul mantello di fronte, si vede subito la divisione in due aree abitative: Una femminile e una maschile.
Al disopra della brace pende il simbolo della famiglia unita ossia il pentolone, come si vede nella figura a destra qui sotto, e a causa della zuppa in eterna cottura l’inconveniente è che fuoco acceso, fumo e effluvi creano un’atmosfera densa e pesante difficile da smaltire attraverso l’unica apertura-sfogo ricavata in cima alla tenda.
Il sentiero di pietre verso il camino acceso era da seguire obbligatoriamente per purificarsi giacché, come poi vedremo in altri casi, forze invisibili ostili di solito si aggrappavano alle vesti o alla pelle di chi veniva dal di fuori e avrebbero inquinato tutto l’ambiente con un danno per tutti. Per questi motivi, l’uso era ormai consolidato: Con qualsiasi tempo chi entra nella casa-tenda si spoglia quasi a metà e, aggiungiamo noi, non solo per le ragioni magico-igieniche appena dette, ma per non ingombrare lo spazio diviso e assegnato a ogni abitante con le proprie robe.
La casa “funzionava” d’estate per qualche settimana quando occorreva seguire le renne che si nutrivano di più in questa stagione mite e quindi la si spostava di volta in volta. In certe occasioni poteva restare altrimenti fissa anche più a lungo nello stesso posto e, mentre il maschio pascolava le renne, la donna col resto della famiglia restava in casa a sfaccendare in attesa.
Lo stesso tipo di casa-tenda, il tipi stavolta si chiama?um, esisteva presso gli Ugri degli Urali un po’ più a sud e la si fissava in un posto più o meno tutto l’anno. D’inverno per tenere gli orli della copertura della tenda saldi al terreno si usavano mucchietti di neve insieme con grossi ciottoli morenici. I pali qui erano in numero di 6 e chiamati symzy. Il sesto palo di traverso (ti) con un gancio (na’) stava a sostegno del pentolone (jed) e le punte superiori di tutti i pali inoltre erano scolpite con teste umane a scopo apotropaico perché tenevano a bada gli spiriti esterni dall’alto…
La particolarità del ?um in primo luogo è che presso i Nenzi e loro vicini il montaggio è eseguito esclusivamente dalla donna. Si racconta nelle saghe locali che l’eroina fosse talmente veloce in quest’attività che poteva essere dall’uno e dall’altro lato della tenda allo stesso momento mentre metteva su pali e paletti!
L’etnologo A.V. Golovnjòv (Govorjaš?ie Kul’tury, Tradicii Samodiicev i Ugrov, Ekaterinburg 1995) attento studioso di queste genti d’Europa, riferisce che un uomo non sposato e che non ha una donna che gli monti la casa, è considerato incapace di governare le renne anche se ne ha a bizzeffe e quindi non è molto stimato! Siccome il matrimonio da queste parti è rigorosamente esogamico, se costui non sollecitasse i mediatori di matrimonio a trovargli una sposa nei villaggi vicini al più presto, pian piano verrebbe ridicolizzato e sarebbe parzialmente isolato già fra i suoi. L’importanza di una casa insomma dipende dalla donna e, essendo costei la riproduttrice della società, si dice che con lei il ?um cresce nel bene e con il ?um tutta la parentela e i villaggi collegati.
La casa-tenda la si chiamava scherzosamente il grande cappotto riferendosi alla copertura – già descritta per i Lapponi – che distesa per essere ritagliata, cucita e lavorata era appunto simile a un cappotto! Insomma nel ?um non si abita, ma lo si indossa al disopra di ogni altro indumento e perciò diventa una seconda pelle.
Il pavimento è coperto con pelli di renna e vi si sta accoccolati a conversare o, adagiandosi per addormentarsi, si può utilizzare l’unica coperta a disposizione di chi ha sonno. Non solo! Non è conveniente aggirarsi nel ?um per nulla giacché vi si va o per mangiare o per dormire. Siccome la casa-tenda è nelle mani della padrona di casa, entrarvi è penetrare nella sua vagina e chi entra sa di passare in quel momento sotto il suo dominio. Le deve quindi il primo omaggio o il primo saluto per riceverne l’accoglienza e occorre fare attenzione a non attraversare lo spazio davanti al sesto palo perché sarebbe una colpa grave visto che il palo è strettamente collegato al focolare e alla sua padrona!
Altri tipi di tende, ma con i pali di sostegno all’esterno, venivano usate come ripostigli.
Siamo qui fra la tundra artica e la taigà subartica, due tipi di biocenosi che caratterizzano il Grande Nord. Laghi e fiumi ce ne sono moltissimi e, se d’inverno la loro superficie è gelata, d’estate diventano enormi serbatoi di pesce. Alle loro rive inoltre si abbeverano molti animali e uccelli e la donna la vedremo non soltanto “far legna” in giro raccogliendo rami e muschio e sterco secco per il fuoco, ma anche a caccia e a pesca. Frutta e insalate? Pochissime…
Gran parte della zona, con lo sciogliersi del gelo superficiale, diventa paludosa e, se si sa che solitamente ciò accade, la si evita accuratamente sia perché i nugoli di zanzare sono micidiali d’estate per chi vi si aggira sia perché non è neppure facile camminarci senza sprofondare (al limite si usano le famose racchette da sci!)…
La caccia da queste parti è di tipo passivo e non strettamente legata alla sussistenza giacché, se la carne di renna regna sulla tavola, i piccoli mammiferi si cacciavano d’inverno principalmente a scopi commerciali d’inverno si coprono di fitta e pregiatissima pelliccia. La loro carne poteva rappresentare una derrata alimentare, ma da preservare. Si usavano trappole occultate fra gli arbusti e laccioli armati e le prede catturate occorreva liberarle al più presto e metterli in gabbia prima che diventassero preda per altri carnivori della rada foresta tundrica. A scorticarli, si pensava dopo. Nei fiumi si ricorreva alle nasse e alle barriere di canne e naturalmente l’arpone era l’arma principale.
L’orso, raro da queste parti, non si può invece cacciare perché animale sacro e neppure da nominare ad alta voce.
Un animale da ricordare qui perché d’inverno si aggira da commensale affamato poco gradito intorno alle tende è il lupo. Addomesticato proprio dagli Ugro-finni siberiani nella variante che latra (il lupo raramente lo fa), in Europa arrivò come cane. Col suo abbaiare avvisava il padrone dell’arrivo di estranei (o anche di altri lupi) e il suo posto, un bel canile, era degno di stare vicino al ?um. D’altronde a volte, se c’è un ospite a dormire nella tenda, il padrone di casa dorme fuori sulla slitta (narty in russo) a contatto con le calde renne da tiro e qui il cane ci vuole perché fa da efficace portiere-guardiano. Volentieri gli si passano pezzi scelti di carne di renna cruda allo stesso modo come viene offerta a colazione agli uomini.
E a proposito del cane diciamo subito che differente era il compito che gli affidavano i pastori del Centro Asia. Raccogliere gli animali che deviavano dal resto delle greggi o tenerli uniti nelle mandrie era reputato un servilismo disprezzabile da parte del povero cane che era perciò considerato un lupo incarognito e dare del “cane” – it, et nelle varianti turche – a un uomo era una delle offese personali più sentite…
Come avremo capito il ruolo del fuoco è fondamentale per il riscaldamento e per la cucina e pertanto su di esso è imperniata tutta la vita di una moglie e madre la quale, considerando questo fenomeno fisico come un’espressione benevola degli dèi verso di lei, lo curerà e lo rispetterà e persino gli parlerà confidandogli segreti e patimenti! Non sappiamo come fosse esattamente nei tempi andati, ma oggi la prima cosa intorno alla quale si monta il ?um è giusto il basso e largo braciere di ferro (tjumiù) che raccoglie la brace ardente. E’ probabile che nel passato il braciere non fosse altro che una piastra di ferro importata dai fabbri del sud, ma sappiamo che il pentolone era invece un otre di pelle conciata sospeso al di sopra della brace abbastanza lontano da non bruciare, ma da tener in caldo la zuppa e la cottura, peraltro laboriosa e impegnativa, era fatta introducendo nell’acqua contenuta nell’otre sassi arroventati sulla brace sottostante con l’armamentario allora in uso, come si può vedere chiaramente nel disegno qui sopra a destra.
Quando si vede arrivare una nuova famiglia, la carovana di slitte per montare la casa-tenda è tipica per il suo immutabile ordine e per la sua composizione. La prima slitta appartiene al capofamiglia che ha il diritto solamente di stare in capo alla mandria di renne che precedono. E’ suo pure il diritto di prospettare il terreno e di scegliere il posto dove metter su la casa. Tuttavia è la donna il vero capo-carovana che possiede la sua fila di slitte col ?um e tutto il relativo armamento, che gestisce le provviste e accudisce ai bambini. La di lei slitta s’arresta alle indicazioni dell’uomo, ma dopo un’occhiata al posto solo se approva, si procede a metter su casa. Si fa quindi aiutare a spianare il terreno e a tirar giù il braciere subito posto al centro di ogni operazione di montaggio.
In base a che cosa approva? Secondo le credenze, il suolo è pieno di fori non soltanto perché gli animale vi scavano le loro tane, ma anche perché il fuoco fuoriesce dalle visceri della terraproprio da questi buchi e quindi individuato un tale foro di certo il fuoco qui brucerà tranquillamente e senza rumore. Scoppiettii, fumi strani etc. sono interpretati quali segnali inquietanti che soltanto la donna sa usare per predire il futuro per quel suo esclusivo legame intimo con la fiamma o Madre del Fuoco (Tu Nebia).
Presso i Nenzi alla donna è vietato passare nella tenda su certi oggetti che sono di proprietà dell’uomo come le armi da caccia, i vestiti maschili, gli strumenti e simili e quando la donna è in lite con il suo uomo, lo offende o lo stuzzica giusto così: scavalcando i di lui oggetti che giacciono sul pavimento del ?um.
Scendiamo ora lungo il fiume Kama per recarci nell’area degli Ugro-finni che vivono fra l’inizio del paesaggio forestale (taigà)e la steppa arborea (lesostep’). Qui naturalmente cambiano gli usi abitativi perché il clima offre una varietà di risorse alimentari maggiori e i contatti con le genti iraniche favoriscono l’acquisizione di tecniche nuove sia per coltivare piante commestibili e allevare animali da cortile sia per fabbricare case e oggetti utili al lavoro e all’ornamento.
Il popolo che occupa gran parte del nord subartico intorno alla confluenza del Volga col Kama è quello ugro-finnico dei Komi.
La casa komi si chiama ?om, ma non è più una tenda conica. E’ fatta con pareti verticali che sostengono pelli distese o, a volte, vimini intrecciati su un perimetro rettangolare di 2-3 m e con un lato che è lasciato libero e rappresenta l’accesso all’ambiente coperto. Il tetto fatto di pelli tese o, d’estate, di rami d’albero intrecciati ha un solo spiovente, più alto dal lato libero inclinato verso la parte posteriore della struttura. Tre di questi ?om con i rispettivi lati liberi si uniscono a costituire un’unica costruzione ossia si allineano su tre lati di una specie di cortile comune quadrato e formano l’abitazione per una famiglia allargata. Sul lato vuoto del cortile è posto di traverso un grosso ceppo con uno scavo sulla parte superiore che conterrà la brace sia per il riscaldamento che per la luce. Il ceppo è una specie di soglia, tagliato nella metà, attraverso cui chi entra si purifica al fuoco che brucia su ambo i lati. Il cortile-salone interno è naturalmente coperto e una cortina calata a far da porta. Di solito si cucina insieme anche sul detto ceppo.
Il tetto tuttavia deve essere ancorato alle pareti che lo sopportano e l’ancora, chiamata?ibi, che ne impedisce lo scivolamento è un oggetto sacro dalla forma scolpita molto tipica.
Nello spazio fra i tre ?om si svolgevano le attività lavorative e si preparavano i prodotti da scambiare con i mercanti che arrivavano da queste parti nella stagione bella ossia, in particolare, le pellicce pregiate. Si praticava naturalmente una limitata orticoltura. Era però la caccia l’occupazione economicamente maggiore dei maschi e dovendo accudire a lacci e a trappole e poi aspettare con pazienza la preda, il cacciatore komi restava tutto il giorno e talvolta anche la notte o per tutta la stagione estiva fuori di casa. Si appiattava allora in piccole costruzioni posizionate nella foresta ad una certa altezza dal suolo su un solo piede di legno alto un metro o poco più. In questi bugigattoli (labaz in russo e kerka in komi) erano riposti gli arnesi necessari alla prima lavorazione degli animali catturati e, d’inverno, persino le pellicce stesse. La distanza dal ?om stabile da tali strutture era stabilita per tradizione in un giorno di viaggio a piedi e erano talmente ben mimetizzate (in ragione del prezioso contenuto ivi custodito) da essere difficili da distinguere fra il fitto degli alberi.
Spesso piccoli gruppi di komi fabbricavano piccole case dove passare la breve estate a caccia, ma senza la presenza di donne. Una serie di grosse scatole a pianta quadrata fatte di tronchi orizzontali impilati e incastrati alla moda “russa” servivano loro da dormitori, magari abbinate con altre costruzioni minori che facevano da magazzini per il cibo e per le bevande. In ognuna di queste è da notare che il tetto mantiene un solo spiovente (pioggia e neve non cadevano nel periodo estivo) e che l’entrata è composta in modo tipico non riscontrabile in altre regioni della Pianura Russa.
Lo spazio per la porta era infatti ricavato al centro della facciata della casa di legno e protetta parzialmente dall’orlo aggettante dello spiovente. La porta (vör in komi) aveva un solo battente e era incardinata su uno (quello di sinistra!) dei due piedritti. Composta di due-tre assi di egual misura tenute insieme parallele da mezze assi incastrate diagonalmente con i due correnti verticali sui due lati esterni del battente, aveva uno dei correnti più lungo dell’altro giacché si andava a incuneare fra la soglia e l’architrave. All’aprirsi e al chiudersi, per evitare lo stridio, le parti ruotanti verranno oliate con una resina (djògot’) ricavata dalle ascelle dei rami di betulla.
Nelle figure qui sotto (tratte con le altre precedenti qui sopra da I.N. Šurgin – Ot lesnoi izbuški do cerkvi divnoi, Moskva 2009) si vedono una porta (figura a sinistra) e un labaz con la scala d’accesso ricavata ritagliando i gradini in un tronco (figura a destra).
Siccome nel Medioevo le genti del nord a causa della precarietà dell’agricoltura loro e con la necessità di mantenere il numero di bocche da nutrire in numero più o meno costante, quando la prole di una famiglia diventava troppo numerosa i ragazzi puberi erano venduti ai mercanti come schiavi. Il ricordo degli accompagnamenti di questi ragazzi presso il mercante che li esaminava e ne pagava il prezzo ai genitori è rimasto in molte favole sia nel folclore tedesco che in quello slavo. Nelle leggende russe (bylìny) la mediatrice o il mercante stesso che aspetta e accoglie i ragazzi riappaiono addirittura sotto forma di strega Baba Jagà e del suo consorte mangia-bambini e abitano nel fitto in una casa… sospesa su una zampa di gallina e che quindi si può muovere e correre.
I Komi intanto si procuravano asce e seghe di metallo dal sud con i traffici che mantenevano con i Biger (Bulgari del Volga) e perciò osserviamo che i tronchi utilizzati per case e casette erano segati longitudinalmente (nel Medioevo le seghe erano arnesi rarissimi nel sud della Pianura Russa e diventarono comuni soltanto nel XIX sec.) in assi e le assi diventavano spesso, meglio dei vimini intrecciati e meno costose delle pelli conciate o dei teli, tetti e pareti delle case di cui abbiamo detto sopra con grande risparmio di legno tanto che, si diceva,bastava un solo albero fra pali etc. per costruire un intero ?om. La cosa notevole e tradizionale è al contrario l’assoluta esclusione di chiodi e chiavarde di metallo e la scultura e la coloritura di ogni parte possibile. Poche e piccolissime erano invece le finestre che avevano come vetro vesciche di animali tese al massimo per farle diventare trasparenti.
Dal lavoro in comune nasce qui, ad imitazione dei centri di produzione nelle grandi città iraniche del Centro Asia, la fattoria intorno a un capo/padrone che tratta gli affari e i suoi lavoranti raccolti in famiglie in uno stesso luogo che in russo si chiama usad’ba. E’ la casa-fabbrica che caratterizzerà le attività industriali e l’aspetto, lo skyline, di Grande Novgorod sulle rive del lago Ilmen.
In particolare le case di legno, da assimilare a quelle nordiche in generale di tipo slavo-russo che descriveremo più avanti, avevano il pavimento sollevato sul terreno sia prevedendo una specie di sottoscala libera e aperta sia avendo una vera e propria cantina.
Per quanto riguarda i Bulgari del Volga, occorre dire che nel 1236 la loro seconda capitale (i cui resti si trovano oggi nel sito archeologico di Biljarsk sulla riva sinistra del Kama alla confluenza col Volga) fu conquistata e spopolata dai Tatari. Essendo gli stessi Bulgari della stessa schiatta della maggioranza dei conquistatori, essi confluirono nei Tatari e d’allora in poi furono conosciuti in quella nuova nazionalità. In mezzo agli Ugro-finni Udmurti, Märi e Komi i Bulgari continuarono a vivere in intimo contatto distinguendosi soltanto per la religione islamica presa ufficialmente nel 921 d.C. e per i costumi di tratto musulmano. Altri loro discendenti invece abbracciarono il cristianesimo e oggi sono chiamati Ciuvasci e hanno la loro repubblica sul Volga superiore. Possiamo includere pure queste genti nel Grande Nord? Certamente sì, giacché Bolgar, la capitale bulgara, era considerata la più settentrionale dei luoghi sacri musulmani e il suo dominio confinava con tutte le genti di cui abbiamo finora parlato.
Sulle case bulgare dei tempi passati abbiamo pochissime notizie, ma dobbiamo anche dire che, data la situazione politica creatasi intorno al X-XI sec. d.C. in quelle zone, grandissima parte della gente viveva in città fortificate, benché d’estate poi era costume, nobiltà e gente comune, lasciare le città per andare a lavorare i campi fuori le mura abitando nelle tende (si diceva: secondo gli usi antichi!), come avevamo anticipato. Come erano fatte le tende estive bulgare? E’ possibile che fossero le ger che si usavano nelle steppe, ma non abbiamo trovato conferma. E le case nelle città bulgare? Dalle descrizioni sommarie di visitatori del X-XI sec. d.C. queste erano costruite sempre e soltanto col legno, come pure le mura e le altre costruzioni (persino la moschea del venerdì), salvo alcuni palazzi del potere che addirittura furono costruiti con pietre squadrate e mattoni.
Siamo convinti dai reperti archeologici locali che la cultura della casa presso i Bulgari del Volga sia stata molto simile, se non identica, a quella dei popoli che abbiamo fin qui menzionato per ragioni climatiche, di materiale reperibile presente e per imitazione o emulazione. Perciò, quando leggiamo che all’interno delle mura della capitale bulgara ferveva l’artigianato e che c’erano vie destinate a queste attività dove le case-officine erano l’una affiancata all’altra, il quadro non può che essere come nella figura qui sotto (da J. Herrmann – Zwischen Hradschin und Vineta. Frühe Kulturen der Westslawen, Leipzig 1976) che si riferisce all’ambito slavo della Mitteleuropa.
Un altro gruppo etnico del Grande Nord, stavolta affacciato lungo le coste del Mar Baltico e importantissimo per la nostra storia, sono i Baltici indoeuropei, Lettoni Lituani e Prussiani prima di altri, portatori di abitudini e di tecniche costruttive nell’ambito delle costruzioni in legno maturate nel sud della Pianura Russa.
Il loro incontro con gli Ugro-finni porterà questi ultimi ad abbandonare le case-tende per case stabili fatte di legno secondo i canoni meridionali e certamente cambiando persino il modo di vita non più legato esclusivamente alla raccolta e alla caccia, per procurarsi cibo. Nelle radure col metodo del taglia-e-brucia si possono coltivare specie cerealicole che maturano in breve tempo e resistono alle temperature rigide. Si possono allevare animali come il porco (i Bulgari abbandoneranno questo allevamento per ragioni religiose già al principio del X sec. d.C.) e i volatili da cortile. Il cavallo che qui troviamo è un animale da macello e non da tiro ed è la specie conosciuta col nome turco tarpan (Equus gmelini). Comunque sia, l’allevamento era sicuramente limitato giacché gli animali andavano nutriti nella lunga stagione invernale e per un’agricoltura ancora precaria non sempre valeva la pena coltivare foraggio a parte. Tuttavia quanto occorre per avere una vita comoda, ma sedentaria, è ottenibile col commercio visto che si ha la fortuna di vivere in una zona in cui si possono scambiare i prodotti nordici molto richiesti al sud e al nord. I Baltici, ad esempio, da lungo tempo commerciavano l’ambra col Mediterraneo (c’informano Tacito e Plinio il Vecchio!) e fin con la lontanissima Cina e di certo, dai contatti con Bulgari e Ugro-finni, entrarono anch’essi nel circuito commerciale internazionale dei prodotti di pregio.
Parallelismi fra Balti e Ugro-finni? Ce ne sono e molti anche, derivati dai contatti logici intimi e prolungati che si stabilirono col passar del tempo fra sud e nord o meglio fra nordest e sudovest.
Erodoto parla dei Neuri, sempre vicini degli Sciti, e quel che è notevole è che appare la prima leggenda del lupo-mannaro in quanto lo storico greco dice che ogni anno per qualche giorno i Neuri si trasformano in lupi… benché sia più credibile che ciò fosse una celebrazione totemica da lui non ben capita. Altra similitudine è il fuoco. Per i Baltici indoeuropei è una divinità (femminile) legata alla donna di casa e la sua fiamma è detta la Madre del Fuoco: in léttone Uguns M?te, eguale dunque a Tu Nebia dei Nenzi. La donna di casa baltica è incaricata di curarsi della brace ardente che conserverà nel focolare che qui è rappresentato da un grosso forno coperto costruito e posto sul pavimento con una bocca enorme che spande luce oltre che calore. Il fuoco però è il regalo fatto agli uomini dal dio lituano della tempesta Perkunas e quindi ricalca il mito classico di Prometeo e non proviene dalla terra, come invece si dice presso gli Ugro-finni o i Turchi…
La differenza da notare è nelle credenze delle origini del mondo e dell’universo. Benché poco sappiamo dei credi baltici, addirittura si può azzardare l’ipotesi che i loro incontri con gli Ugro-finni siano riconoscibili nelle personificazioni divine lituane dei “padroni della foresta” cioè nei Kaukai e nei Bezdukai o nei riti sciamanici a cui Erodoto accenna per il lupo-mannaro.
La casa baltica? La poluzemliànka o una costruzione molto simile resta il tipo più comune, sebbene ancor più infossata in conseguenza del clima più rigido. Presso i Lituani essa è chiamata numas/namas, ha il focolare (in russo più genericamente detto pe?ka) nel centro e di solito possiede un annesso, sempre di piano quadrato e costruito allo stesso modo della casa d’abitazione, per il bestiame. Il tetto usa molto la paglia subderivato naturale dell’agricoltura a orzo, frumento o segale.
Presso i Lettoni addirittura si sfruttava la presenza nel fondo del terreno locale dei “massi morenici” (in russo valùny) e questi costituivano il solido pavimento (eventualmente fra un masso e l’altro nel caso si rabboccava e si appianava con ciottoli e argilla). Per il fumo a volte si usava ricavare un foro nel tetto giusto al di sopra della bocca del focolare.
Si incontrano naturalmente costruzioni abitative con pali verticali e pareti di vimini intrecciate e coperte d’argilla e nelle figure qui sotto (da Z. Zinkievi?ius, A. Luhtanas, H. ?esnis – Otkuda rodom Litovcy, Vilnius s.d.) ne diamo qualche ricostruzione fatta dagli archeologi.
Particolare invece è la posizione degli Svedesi nel Mar Baltico e nella Pianura Russa.
Affacciati sullo stesso mare con popoli fra i quali ancora nel VIII sec. d.C. non domina l’elemento slavo né quello prettamente slavo-russo, presto si impadroniranno di queste acque che diventeranno il loro esclusivo dominio punteggiato di colonie rivierasche a volte provvisorie e a volte stabili costringendo Baltici e Finni a difendersi da loro, ricorrendo agli agguati e alla pirateria.
Malgrado ciò gli Svedesi/Variaghi riusciranno ad avere un’intera città tutta per loro su questo Mar Baltico già nel VIII sec. d.C.: Ladoga, alla foce del fiume di Grande Novgorod, il Volhov, nel Lago Nevo (oggi Lago Ladoga).
Il fiume che oggi attraversa San Pietroburgo, la Nevà, è molto largo e il corso che lo vede uscire dal Lago Ladoga (di cui è l’unico emissario) è corto e le rive paludose e allora era creduto parte del mare. Alla ricerca della via verso Costantinopoli la postazione stagionale diventò fissa come posto di contatto e di mercato fra Svedesi, Ugro-finni (Vepsi) e Bulgari del Volga.
Ed ecco nello schizzo qui sotto come doveva apparire in base ai reperti negli scavi condotti dagli archeologi russi e svedesi a Ladoga (il sito archeologico è un po’ fuori della città moderna) una casa variaga del X sec. d.C. (da M. Semjònova – My – Slavjane!, Sankt-Peterburg 2005).
E’ da notare la presenza dei pioli inseriti nelle teste dei correnti del tetto che, a nostro avviso, non sono altro che un riadattamento del ?ibi komi usati contro lo spostamento orizzontale della copertura sotto le forti e periodiche raffiche dei venti del nord.
Avete notato in particolare i tronchi tutt’intorno posti a una certa distanza dalla costruzione principale? Secondo gli archeologi dai reperti trovati in loco servivano per sedersi e defecare.
In conclusione il Grande Nord non è da immaginare come una parte povera, primitiva e sottosviluppata dell’Europa del IX sec. d.C. e l’unica cosa che il mondo cristiano meridionale può rimproverare alle sue genti è la tenacità e l’attaccamento alle religioni pagane che spingerà il Papa di Roma a indire le crociate nordiche del XII-XIII sec. d.C. col massiccio coinvolgimento dei Cavalieri Teutonici e invasati personaggi come il vescovo Alberto di Riga.
Nato a Taranto, ha studiato nelle Università di Bari, poi di Pavia, infine di Amburgo, dove ha chiuso i suoi corsi di laurea in chimica industriale. Non ha mai lavorato come chimico e ha invece sfruttato le sue conoscenze linguistiche. Conosce infatti (parla e scrive correntemente) russo, inglese, tedesco, francese, spagnolo, ungherese e ne ha studiate un’altra decina che spera di portare a maggiore perfezione nel prossimo futuro. Si è diplomato in Lingua Russa all’Istituto Pusckin di Mosca dove ha avuto inizio la sua avventura nel Medioevo Russo. Lavorando sui mercati internazionali si era infatti appassionato al Medioevo, ma quando scoprì che non riusciva mai a sapere gran che su quello russo, colse l’occasione della tesi all’Istituto Pusckin e scelse di studiare un personaggio del Medioevo bielorusso, Santa Eufrosina di Polozk: di lì via via è entrato in quel mondo magico e nuovo.
Ha pubblicato il saggio storico in chiave divulgativa Olga La Russa, 2001 (che non è la sorella di Ignazio La Russa, per carità!), e poi per i ragazzi L’ombra dei Tartari, 2002, ovvero la saga di Alessandro Nevskii.
Altre sue opere sul Medioevo russo sono visibili nel portale delle Edizioni Atena.
Collabora attivamente con il portale Mondi Medievali curando la rubrica Medioevo Russo.