di Ornella Mariani.
Il retroterra del drammatico Concilio di Lione affondava radici nel giovedì santo del 1244 quando, radunata davanti alla Basilica del Laterano, una grande folla era stata appassionatamente arringata da Pier delle Vigne e da Taddeo da Sessa che, comunicando il rifiuto espresso dalla Grande Feudalità Tedesca nel ratificare la scomunica lanciata dall’Irriducibile Innocenzo IV contro l’Imperatore Federico II, ne testimoniando i meriti; ne evidenziarono la sincera volontà di sottomissione; ne rappresentarono il costante impegno in direzione dei bisogni della Cristianità.
Travolto dall’ampia solidarietà tributata allo Staufen; isolato dalla Comunità Politica Internazionale; minacciato dal rischio di apertura di un fronte scismatico all’interno della Chiesa germanica, il Papa era stato costretto a riaccoglierlo nelle braccia della Chiesa, come «… Nostro diletto figlio spirituale …»
La revoca dell’anatema preludeva a quel perdono che avrebbe consentito a Federico II di guardare con sereno ottimismo al futuro del Regno e dei sudditi.
Tuttavia, la vivace reazione dei Lombardi, a fronte della distensione dei rapporti fra Impero e Papato; l’ansia che costoro revocassero al Primate di Roma il necessario sostegno antisvevo; il rischio di vedere sfumato il progetto di annientamento del Sovrano, avevano prodotto la revoca della pur annunciata decisione: l’assoluzione sarebbe stata pronunciata solo previo sgombero, da parte delle truppe imperiali, dei territori del patrimonio di S. Pietro.
In realtà, la richiesta era infondata, pretestuosa e superata in quanto parte integrante degli accordi già stipulati fra gli uffici di Corte siciliana e la Cancelleria Pontificia, attraverso la mediazione del Re di Francia. Il rilanciarla era stato un espediente cui Innocenzo era ricorso al fine di ribaltare i rapporti di forza; di non onorare gli impegni contratti; di procrastinare la soluzione del conflitto e di guadagnare il tempo utile non solo a perfezionare una strategia aggressiva, ma ad inserire nelle trattative anche la questione genovese che tanto a cuore gli stava.
Alla successione della Podesteria di Genova, alla morte dell’Ammiraglio Nicola Spinola, era stato indicato il de’ Mari, ben poco gradito agli ambienti episcopali. La nomina gli era stata conferita proprio mentre il Papa contava di assumere il diretto controllo dell’importante porto, sottraendolo ai Doria a loro volta impegnati ad invogliare un apparentamento matrimoniale fra i potenti Del Carretto e gli Hohenstaufen.
Per converso Federico, cui urgeva affrancarsi dal sospetto di una contrapposizione alla Chiesa motivata da ragioni strumentali e non dall’effettiva esigenza di riportare il Clero nella naturale condizione spirituale estranea alla corruttela ed alla mondanità, aveva ritenuto quanto mai necessario risolvere la crisi.
Sulla base di tale urgenza di chiarezza, aveva proposto un incontro e, proprio mentre si era deciso di fissarlo a Narni, il Pontefice aveva eletto un gruppo di nuovi Cardinali ostili alla politica imperiale. Poi, pur nella consapevolezza che la sua provocazione incrinasse ulteriormente i rapporti, ponendosi come presupposto di un altro grave incidente diplomatico, aveva raggiunto Civita Castellana, mentre lo Svevo si era acquartierato a Terni: da entrambe le sedi, la località designata sarebbe stata agevolmente raggiungibile.
Era il nove giugno quando la delegazione federiciana deputata a formalizzare con i Funzionari Pontifici le modalità del colloquio, era rientrata al Quartier Generale con una deludente e generica richiesta di proroga. E tuttavia, quei giorni erano stati trascorsi nella diffusa convinzione, da parte della Cancelleria imperiale, che si fosse ad un passo dalla pace difinitiva.
Il ventinove giugno, preda dell’impazienza, Federico aveva inviato un’altra ambasceria, sollecitandola alla indifferibile definizione del contrasto.
Il desolato ritorno dei Delegati, questa volta, aveva scatenato la collera dell’intera Corte: il Papa era risultato irreperibile. Di fatto, simulando il timore che a Narni gli si tendesse una trappola per trarlo prigioniero, aveva incaricato il francescano Baiolo di organizzargli un piano di fuga.
Ottenuta dai Genovesi la solidarietà al suo progetto e nottetempo mossosi da Civita Castellana, si era quindi rifugiato nel capoluogo ligure con la complicità del Podestà Filippo Vicedomini.
Dopo giorni di febbrili negoziati, membri della Cancelleria imperiale lo avevano raggiunto a Genova per rinnovargli offerte di pace e rassicurarlo dagli infondati sospetti ma, suscitando l’irritazione delle monarchie europee, e per prima quella del capetingio Luigi di Francia, dopo un ostinato e protervo silenzio, Innocenzo aveva abbandonato anche la Liguria, dirigendosi a Lione: da quella residenza, nella quale era giunto all’inizio dell’autunno attraverso la via del Moncenisio, avrebbe potuto perseguire le sue mire.
Già il due dicembre del 1244, infatti, vi aveva convocato un sinodo da tenersi nella giornata di San Giovanni del successivo giugno del 1245, con al primo punto di discussione la deposizione di Federico.
A giustificazione della drastica decisione aveva addotto il verificarsi di due gravissimi eventi: il vittorioso assalto di Gerusalemme condotto dai Corasmi, mercenari ed infedeli al servizio del Sultano d’Egitto; la disfatta delle truppe cristiane a Gaza.
A suo avviso, la responsabilità di tali drammatiche vicende era ascrivibile al solo disimpegno dello Staufen!
Allarmato dalle implicazioni internazionali delle circostanze e senza interporre ulteriori indugi, l’Imperatore aveva inoltrato alla Curia la sua ennesima offerta di dialogo nella quale, ad integrazione di ogni precedente onere, si proponeva guida di una nuova campagna di liberazione dei Luoghi Santi, riservandosi di restare addirittura in Oriente per tre anni, al fine di vigilare sul consolidamento della pace. E, a riprova della lealtà delle sue offerte, aveva annunciato il sollecito sgombero dei territori di San Pietro affidando all’arbitrato papale anche la questione lombarda, sulla quale si era manifestato proclive ad accettarne l’insindacabilità della decisione fino al punto che, ove mai egli stesso avesse violato gli accordi, avrebbe accettato di pagarne lo scotto anche con la perdita del Regno.
Qualche rivisitazione storica avanza l’ipotesi che egli meditasse di abdicare in favore del figlio Corrado e di ritirarsi definitivamente in Oriente: in quel periodo, infatti, non aveva mancato di esprimere viva attenzione nei confronti di quel mondo nel quale viveva la figlia Costanza, andata sposa all’Imperatore di Nicea Giovanni Vatatzes III Dukas.
In realtà, proprio queste nozze avevano infiammato il Pontefice: ancorché scismatico e Signore del più potente Impero Cristiano Orientale, Vatatzes non lo riconosceva come Capo della Cristianità ed aveva fornito consistenti supporti militari al suocero, durante la recente campagna antilombarda.
Sull’aggrovigliato contrasto, a supporto delle mediazioni avanzate dal Re di Francia, erano intervenuti anche i Cavalieri dell’Ordine Teutonico i quali erano riusciti ad ottenere la riapertura dei negoziati, a vantaggio della stabilità degli interessi Cristiani.
E finalmente l’annuncio: il sei maggio del 1245 sarebbe stata revocata la scomunica.
Tuttavia, la passionalità dirompente ed il legittimo desiderio di vendetta a lungo covato, erano prevalsi anche sulla opportunità politica: nel corso del suo viaggio verso Verona, ove avrebbe presieduto una Dieta ed incontrato il diciassettenne Re Corrado ed i Principi Elettori, Federico non aveva resistito alla tentazione di entrare in Viterbo e di infliggerle una rigorosissima punizione per la condotta dei suoi abitanti, causa dell’ inasprimento dei rapporti fra Papato e Impero.
L’atto, considerato una ingiustificabile violazione di quella tregua costata enormi sforzi agli arbitri internazionali, aveva sancito la conclusione di ogni trattativa «…perché egli, l’anticristo, ha tre chiostre di denti per la vendetta: contro i monaci, contro i chierici e contro i laici innocenti; e gigantesche granfie di ferro: onde alcuni sbranò, cui aveva rimesso la morte, altri uccise con altre pene, calpestando nelle sue carceri, sotto i suoi piedi, quelli che rimanevano… più canino di Erode dovrebbe esser chiamato, egli che a nulla pensava se non ad uccidere il Cristo… più crudele di Nerone è chiamato, il quale uccideva i Cristiani perché essi volevano abolire i sacrifici alle sue immagini pagane e più crudele e volgare di Giuliano l’Apostata, egli che ora cerca di distruggere la fede da lui stesso profanata… e spregia il potere delle chiavi: egli, il sovvertitore della fede e del culto della Chiesa, l’amministratore delle norme, il maestro della crudeltà, il mentitore dei tempi, il perturbatore dell’orbe e il maglio della terra tutta…»
Così, i fatti di Viterbo avevano dato la stura ad una nuova e violenta campagna di invettive: Federico aveva accusato i vertici della Chiesa di persecuzione; Innocenzo aveva posto in essere un’articolata azione di linciaggio, raccontando l’avversario come un mostro capace di orrori apocalittici.
In questo clima di insostenibile tensione, si erano aperti i lavori del Concilio la cui prima convocazione, il ventitré giugno, era andata sostanzialmente deserta: i presenti erano stati contati solo in centocinquanta, fra Spagnoli e Francesi, a fronte dell’ampia defezione di Tedeschi, Siciliani ed Ungheresi.
Dopo una breve seduta preliminare, l’assise era stata aggiornata al ventotto giugno: assuntane la presidenza ed affiancato da Re Baldovino, da Alfonso del Portogallo, da Berengario di Provenza, da Raimondo di Tolosa e dai Patriarchi di Aquileia, Antiochia e Costantinopoli, il Papa vi si era dichiarato afflitto da cinque dolori: l’inarrestabile dilagare dell’Islamismo; lo strappo con la Chiesa greca; la decadenza morale dell’Alto Clero; la minaccia mongola e la presenza di Federico II sul trono imperiale.
Paragonate le sue piaghe a quelle del Cristo, prima di elencare le colpe dell’inviso antagonista, aveva teatralmente pronunciato le parole di Geremia: «…O voi che passate, volgetevi dunque e guardate se vi sia sofferenza eguale al dolore da cui sono stato colpito… ».
Per contro, l’avvocato ufficiale di Corte Taddeo da Sessa, con raffinata competenza giuridica, aveva esaltato le virtù e l’impegno del Sovrano nel «…ripristinare l’unità l’impero greco e la Chiesa di Roma; opporsi con la forza, quale fedele soldato di Cristo, ai Tartari, ai Saraceni e ad altri spregiatori della Chiesa; riportare, per quanto possibile, di persona ed a proprie spese l’ordine in Terra Santa, gravemente minacciata; restituire infine quanto sottratto alla Chiesa di Roma, risarcendo ogni danno…».
Poi era stata la volta di Gualtiero d’Ocra e di Berardo di Castacca contro le cui accorate perorazioni la replica di Innocenzo IV era stata lapidaria: «…Quante promesse ha rispettato quell’uomo? Anche questa volta egli vuole ritardare con l’inganno la scure che lo sta colpendo…».
D’improvviso, nel pieno svolgimento del processo, il clima era mutato: attanagliato dall’ansia e con toni concitati, un prelato russo aveva comunicato ai presenti che i Mongoli avevano sfondato le resistenze dell’ Europa Orientale, apprestandosi ad invadere il continente.
Per quanto avesse sconvolto la sala, la notizia non aveva scomposto la glaciale imperturbabilità del Papa: fin dal sedici aprile, infatti, egli aveva inviato in Karakorum un’ambasceria composta dal francescano Giovanni da Pian del Carmine, da Stefano di Boemia e da Benedetto di Polonia, con l’incarico di proporre un’alleanza che mettesse definitivamente fuori gioco lo Staufen. Ora, attendendone l’esito, con sprezzante distacco e pur a fronte di un pericolo esigente l’unità delle massime sovranità europee, si era limitato ad invertire l’ordine del giorno ponendovi al primo punto il nuovo evento, ma facendogli seguire regolarmente la discussione sullo scisma della Chiesa greca; sui provvedimenti da adottare contro i Musulmani e gli eretici; sulle soluzioni militari necessarie a recuperare Gerusalemme e sulla biasimevole condotta dell’avversario.
Su quest’ultimo argomento, anzi, dopo aver ridotto al silenzio e minacciato di revoca dall’incarico il Patriarca di Aquileia, che aveva provato a spezzare qualche lancia in favore dell’imputato, aveva enumerato nuovi e gravissimi addebiti, peraltro non suffragati da alcun elemento certo se non dal rancore personale: empietà; spergiuro; sacrilego; saccheggio e persecuzione di Clero e chiese.
Le accuse erano riferite alla evidente ostilità manifestata dall’Imperatore contro la Cristianità, per aver fondato la città di Lucera, nella quale condivideva i depravati costumi dei nemici della fede; per aver dato in sposa la figlia allo scismatico Giovanni Vatatzes; per aver praticato ogni sorta di vizi e dissolutezze; per aver violato i patti politici ed invaso il territorio del patrimonio di San Pietro; per aver ordinato il massacro di innocenti, a danno della sicurezza della Cristianità.
A fronte di una sentenza evidentemente già precostituita, Taddeo da Sessa aveva respinto con puntualità gli infondati rilievi e denunciato tutte le responsabilità del Papa nel fallimento di ogni possibile soluzione di pace e nella rottura dei negoziati. Infine, aveva dichiarato ai convenuti che, contrariamente alle accuse mossegli, il Sovrano si era sempre impegnato in difesa dei valori della Cristianità; aveva bene operato nel nome della giustizia; era stato fermamente cristiano; era amato e ritenuto saggio da tutti i suoi sudditi; era più che mai pronto a contenere l’offensiva contro i Mongoli ed a ritornare in Oriente per difendervi i Luoghi cari alla fede.
Nella successiva seduta conciliare del cinque luglio, con la complicità dei Cardinali spagnoli, Innocenzo aveva rincarato la dose facendo carico allo Staufen di avere anche aggredito ed imprigionato l’Alto Clero a Montecristo e di mantenere relazioni commerciali e culturali con le comunità arabe.
Dopo aver rinfacciato che la tolleranza accordata dalla Chiesa agli usurai era assai più disdicevole delle attività economiche intercorrenti fra il Regno ed i Paesi Arabi, Taddeo aveva preso atto della indisponibilità dei Conciliari ad accogliere le sue tesi e, appoggiato dalla sole rappresentanze inglesi e francesi, aveva evidenziato la non ecumenicità di quel Concilio: a fronte della mancanza del numero legale, bisognava rinviarlo ad altra data e sulla base di una più completa assise, cui partecipassero le delegazioni di tutte le Monarchie cristiane e di tutti gli Episcopati. Sostenendo, infine, la improcedibilità per l’assenza dell’accusato, cui non poteva essere negato il diritto di essere escusso e di giustificarsi personalmente, chiese che gli fosse accordato il tempo utile a raggiungerlo a Torino, onde riceverne disposizioni utili al prosieguo del processo. Federico aveva diritto ad essere ascoltato ed interrogato da un’assemblea universale, cui svelare anche quel segreto del suo cuore cui aveva già alluso in una precedente lettera rivolta all’Alto Clero inglese.
Di quale segreto si trattava?
Di un segreto in grado di scuotere i pilastri del Papato dalle fondamenta?
Di un segreto riferito alla leggendaria presenza dei Desposyni ed alla asserita successione apostolica, in danno di quella legittimamente ereditaria?
Di un segreto capace di sconfessare l’impostura graalica?
Certamente di un segreto che aveva allertato il Papa poiché, negato con ogni mezzo il confronto diretto fino a minacciare di abbandonare Lione, pur concessi dodici giorni di sospensione dei lavori assembleari, si affrettò ad emettere quel verdetto di colpevolezza pronunciato il diciassette luglio con le imputazioni di eresia, bestemmia, sacrilegio, spergiuro, empietà e rottura dei trattati di pace.
Il giudizio, emesso in contumacia, scioglieva i sudditi dal vincolo di fedeltà; revocava la maestà e le attribuzioni imperiali; sanciva la deposizione finale: « …Federico, il principe più illustre del mondo, è la causa dei malesseri che attanagliano l’umanità…Egli è stato legato da abominevole amicizia ai Saraceni, dei quali ha adottato le usanze. Egli utilizza i Saraceni come servitori personali, non si è vergognato di porre gli eunuchi a guardia delle sue spose di sangue reale…Egli ha dato in sposa sua figlia a Vatatzes, nemico di Dio e della Chiesa, scomunicato con tutti i suoi consiglieri e favoriti…Nel Regno di Sicilia, proprietà particolare di San Pietro, che ebbe in feudo dalla Santa Sede, egli ha impoverito ed asservito i religiosi ed i laici, al punto che ormai essi non possiedono quasi nulla e la maggioranza dei notabili è bandita, mentre quelli rimasti sono costretti a vivere come schiavi, ad offendere e combattere la Chiesa di Roma quasi fosse loro nemica…In relazione agli esecrabili delitti citati e di numerosi altri, Ci siamo consultati con i Nostri fratelli e, con riferimento all’eredità di Pietro secondo cui “tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” dichiariamo che detto principe è un uomo irretito dal peccato e maledetto da Dio, che lo ha destituito da ogni onore e carica…Noi dunque, che, sebbene indegni, rappresentiamo in terra Nostro Signore Gesù Cristo; Noi, ai quali nella persona di S. Pietro furono rivolte queste parole: “tutto ciò che avrete legato in terra sarà legato in Cielo”; noi, insieme con i cardinali nostri fratelli e con il sacro Concilio, abbiamo deliberato intorno a questo principe che si è reso indegno dell’impero, dei suoi regni e di ogni onore e dignità. Per i suoi delitti e per le sue iniquità Dio lo respinge e più non tollera che sia re o imperatore. Noi facciamo soltanto conoscere e denunciamo che, a motivo dei suoi peccati, è respinto da Dio, è privato dal Signore di qualsiasi onore e dignità, e frattanto anche noi di ciò lo priviamo con la nostra sentenza. Tutti quelli che sono legati a lui da giuramento di fedeltà sono da Noi in perpetuo sciolti e resi liberi da tale giuramento. E Noi vietiamo loro espressamente ed assolutamente con la nostra apostolica autorità di prestargli obbedienza come Imperatore o re o per qualunque altro titolo da lui preteso. Coloro che l’aiuteranno o favoriranno come Imperatore o re, incorreranno ipso facto nella scomunica. Quelli cui nell’impero spetta l’elezione dell’Imperatore eleggano pure liberamente il successore di questo; riguardo al Regno di Sicilia, sarà nostra cura provvedervi e nel modo più conveniente con il consiglio dei cardinali nostri fratelli…Ho fatto il mio dovere. Dio provveda al resto secondo la Sua volontà….».
Parole e provvedimenti drammatici, nel Medio Evo mai applicati prima; mai più dopo.
La delegazione sveva ne fu frastornata: mentre il Concilio intonava le note del Te Deum e scioglieva le campane in segno di festa, sconvolto, Taddeo gridò che l’ira di Dio si sarebbe abbattuta contro quanti avevano approvato quell’ingiusta decisione: «… Dies ista dies irae, calamitatis, et miseriae !…» e, più oltre: «… Or gioiranno gli eretici, non avranno più freno i Carismi e d’ogni parte irromperanno le orde mongoliche !….»
Le sue lacrime, disperatamente piante senza ritegno, rivelando la portata d’una ingiustizia storica, ancora dolorosamente attuale, denunciano la premeditazione di una Chiesa assetata di potere ed avvezza a travolgere le evidenze attraverso l’uso indiscriminato dello strumento della mistificazione.
Lo storico Parisiensis riferì che la reazione di Federico, ancora trattenuto a Torino in attesa di favorevoli esiti del suo processo, fu prima di sbigottimento, poi di indignazione: «…Questo Papa mi ha deposto e mi ha derubato della mia corona. Da che gli viene tanta impudenza?… No, la mia corona non è ancora andata perduta; né gli attacchi del papa né i decreti del concilio hanno potuto levarmela. Ed io non la perderò senza spargimento di sangue…» (Matteo di Parigi)
Neppure in quella fase, egli fu sfiorato dall’idea di deporre a sua volta il Pontefice; di contrapporgli un contraltare; di avviare una rottura scismatica, com’era consuetudine del periodo, e di rivelare quanto la sua coscienza custodiva.
Quel suo ultimo atto di responsabilità morale, politica e religiosa: il silenzio, dette avvio al declino dell’uomo più potente del mondo in quel tempo.
Bibliografia:
Carl Grimberg, Storia Universale
Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore
Eberhart Horst, Federico II di Svevia
Ornella Mariani, sannita. Negli anni scorsi: Opinionista e controfondista di prima pagina e curatore di Terza Pagina per testate nazionali; autore di saggi, studi e ricerche sulla Questione Meridionale. Ha pubblicato: saggi economici vari e:
Pironti ” Per rabbia e per amore”
Pironti ” E così sia”
Bastogi “Viaggio nell’ entroterra della disperazione”
Controcorrente Editore ” Federico II di Hohenstaufen”
Adda Editore “Morte di un eretico” – dramma in due atti
Siciliano Editore “La storia Negata”
A metà novembre, per Mefite Editore “Matilde” -dramma in due atti
A gennaio, per Mefite Editore “Donne nella storia”
Collaborazione a siti vari di storia medievale. Ha in corso l’incarico di coordinatore per una Storia di Benevento in due volumi, (720 pagine) commissionata dall’Ente Comune di Benevento e diretta dal Prof. Enrico Cuozzo.