Costantino

Raffigurazione di Costantino nella basilica di Santa Sofia a Istanbul.
Raffigurazione di Costantino nella basilica di Santa Sofia a Istanbul.

di Ornella Mariani.

Premessa

Roma: nei circa novanta anni successivi alla morte di Commodo, fra aspiranti e titolari si avvicendarono almeno ottanta Imperatori, in un clima di turbolenze e intollerabili sopraffazioni, degenerate in un’anarchia tale da rendere necessario il ricorso ad un personaggio forte: di doti intellettuali e di genio militare; di coraggio e di spregiudicatezza; di senso pratico e di acume politico.

Tali requisiti, nell’anno 284 d.C. furono individuati nel dalmata Diocleziano, figlio di un liberto e Comandante della Guardia Pretoriana: uomo appropriato al momento storico ed in grado, con la sua limpida e lucida intelligenza, di realizzare quella necessaria riforma radicale che reinsediasse nell’Urbe stabilità ed ordine.

Egli comprese fin da subito che l’enormità del territorio; l’esigenza di mantenere ordine nelle colonie e l’obbligo di presidio costante delle frontiere esigevano un apparato amministrativo efficacemente organizzato.

Spostata la residenza a Milano; garantita la inespugnabilità dei confini; chiamato alla corregenza Massimiano, distribuì gli incarichi di governo in quattro realtà, attraverso le quali gli fosse riconosciuto l’esercizio di un illimitato potere che restaurasse un impianto monarchico assoluto; che inquadrasse la sua immagine imperiale nella tradizione persiana dell’isolata ed inattaccabile egemonia; che relegasse il nuovo Senato in una dignità di impronta aristocratica; che riproponesse come risorsa economica la schiavitù abrogata dalla Pax Romana di Augusto; che innovasse, attraverso il sostanziale recupero dell’agricoltura, la posizione reddituale dei cittadini; che ridisegnasse le imposte, attraverso un rinnovato impegno della servitù della gleba; che spianasse la via ad un assetto sociale di ispirazione gerarchico/ orientale; che proponesse i collegia: una sorta di associazione professionale propedeutica alle corporazioni medievali; che rilanciasse la tradizione piramidale di un establishment, alla cui testa restasse inamovibile un’autorità suprema non immune all’arbitrio.

In sostanza, da cima a fondo della sua organizzazione, lo Stato del basso Impero impose a ciascuno il suo posto ed il suo ruolo con attribuzioni precise ed inibite da ogni sorta di scantonamento: il colono alla terra, il soldato alla legione, il funzionario all’amministrazione, l’artigiano alla corporazione etc.

Quanto all’ordine pubblico: una dolorosa spina nel fianco dell’Impero, Diocleziano evitò ogni possibile spargimento di sangue e, solo a fronte della protervia dei Cristiani nella pretesa di imporre le proprie ragioni confessionili, applicò disposizioni drastiche: lavori forzati, confino, schiavitù, pena di morte.

La tetrarchia, tuttavia, fu incrinata dalla smania successorio/ereditaria e, alla sua morte, nuovi scenari politici e venti di guerra agitarono un Impero ormai consegnato all’inarrestabile declino.

Fu Costantino!

La storia

Flavio Valerio Costantino nacque il ventisette febbraio di un anno compreso fra il 271 ed il 275 nella dacia Naisso, da Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, successivamente elevata agli onori degli altari. Detto Trachala, per il suo enorme collo, crebbe alla Corte di Diocleziano col quale, eletto Tribuno Ordinis Primi, viaggiò in Palestina e partecipò alla guerra romano/danubiana, contro i Sarmati.

La sua vita privata e la sua ascesa pubblica si saldarono ben presto agli importanti eventi che segnarono le sorti dell’Impero, squassato dalle agitazioni sociali alimentate dai Cristiani, ritenuti sovversivi e perturbatori dell’ordine pubblico, ed indebolito dall’impianto tetrarchico voluto per arginare le minacciose pressioni barbare da ogni parte delle frontiere.

Il primo maggio del 305, Diocleziano e Massimiano abdicarono: Costanzo Cloro e Galerio, assunsero il titolo di augusti e quest’ultimo, dopo avere investito del rango di cesare un oscuro soldato, Severo, cui assegnò Italia ed Africa, affidò a Massimino Daia Egitto e Siria, defraudando Costantino che si riteneva destinatario del medesimo incarico.

Ritiratosi a Boulogne, presso il padre ammalato, e deluso per l’affronto inferto alle sue legittime aspettative, egli si dedicò con zelo alla campagna contro i Pitti, incombenti sulla Britannia. Nel luglio del 306, morto il genitore ad Eboraco, fu acclamato augusto dall’esercito con grave pregiudizio all’assetto istituzionale approvato da Diocleziano. Così, Galerio gli revocò l’incarico e promosse Severo, mentre suo genero Massenzio, figlio di Massimiano, irritato per l’essere stato trascurato, ottenne dal Senato e dal Popolo romano la proclamazione ad Imperatore, previo impegno a restituire Roma agli antichi fasti.

Il ventotto ottobre dello stesso anno, revocata la propria abdicazione, Massimiano rientrò nell’attività politica riassumendo il rango di augusto e soccorrendo il figlio che prevalse su Severo, suicida per il tradimento dei suoi soldati. Per contro, ancora Galerio, accreditò il dacio Valerio Liciniano Licinio.

A fronte di tale circostanza e dell’essersi Massimino Daia autodefinito augusto, Massimiano si alleò con Costantino, che apprezzabili risultati aveva conseguito nelle guerre contro gli Alemanni ed i Franchi, e gli offrì il medesimo titolo e la mano della figlia Fausta, storicizzando la presenza di ben sei Imperatori nell’Impero: tre nell’Oriente e tre nell’Occidente.

Ovvero: Trachala dominava nelle Province Occidentali già amministrate dal padre; Massimiano e Massenzio governavano incontrastati l’Italia; Licinio controllava l’Illiria, la Dacia e i territori del Danubio; Galerio signoreggiava sulla Grecia, Tracia ed Asia minore; Massimino amministrava Siria ed Egitto.

Nella torbida frammentazione e sullo sfondo di una insostenibile politica di intrighi, veleni e rivalità, lesivi della stabilità imperiale, contro il tentativo di Galerio di occupare l’Italia e contro la deposizione del figlio posta in essere da Massimiano, le parti convennero a Carunto per ripianare i contrasti. Tuttavia, né Diocleziano, né Galerio, né Massimiano, costretto ad una nuova abdicazione, raggiunsero risultati apprezzabili e, mentre Licinio veniva riconosciuto augusto per l’Occidente, Costantino e Massenzio ottennero il generico titolo di Figli degli Augusti.

Nel 310, sulla globale disgregazione politica, intervenne una nuova impennata dei Franchi: evento del quale si avvalse Massimiano, portatosi in Gallia per recuperare la qualifica di Imperatore e spodestare Costantino che, invece, lo fece arrestare e sopprimere.

Frattanto, anche il potere di Galerio sfumò: emanato il trenta aprile del 311 un Editto di Tolleranza in favore dei Cristiani trasformatisi ormai in un incurabile cancro sociale, e compromesso nella salute, egli si spense assestando un durissimo colpo all’impianto tetrarchico di Diocleziano.

I quattro augusti sopravvissuti entrarono presto in conflitto ed il fronte di lotta si delineò netto fra Licinio e Massimino, con i quali si schierarono rispettivamente Costantino e Massenzio. Pertanto, nella primavera del 312, sceso in Italia e occupate Susa, Torino, Verona, Aquileia e Modena, il figlio di Costanzo Cloro marciò su Roma, collegando la sua avanzata all’abile artificio della prodigiosa apparizione della Croce: la scritta in hoc signo vinces, disegnatasi nel cielo e foriera della sua vittoria, fu riportata in uno stendardo a forma di croce con sopra il monogramma di Cristo ed affidata alla custodia di cinquanta guardie.

Della visione, al centro di due panegirici del 313 e del 321, malgrado l’enfasi di Lattanzio, Eusebio, Filostorgio e Sozomeno, furono fornite versioni del tutto contrastanti.

Di fatto, a Ponte Milvio, nella giornata del ventotto agosto, Massenzio fu travolto dalle acque del Tevere mentre il rivale, protetto dal Dio degli osannanti Cristiani, faceva il suo trionfale ingresso in Roma ove Popolo e Senato gli tributarono il titolo di augusto e gli riconobbero ruolo di preminenza anche giuridica sull’Impero: «… Signore dell’universo e autore della vittoria, con le azioni stesse, ed entrò in Roma con canti trionfali, mentre tutti i membri del Senato e inoltre i perfettissimi, insieme con donne e bambini, e tutto il popolo romano lo accoglieva in massa con un’espressione di gioia sul volto quale liberatore, salvatore e benefattore, con acclamazioni e letizia incolmabile…» (Eusebio di Cesarea, IX 9,9)

Sciolti i Pretoriani e revocate le leggi precedenti, Costantino si recò a Milano per presenziare alle solenni nozze di sua sorella Costanza con Licinio e per approfondire la politica filocristiana, alla luce anche delle disposizioni di Serdica, emanate da Galerio: ne scaturì un ulteriore Editto di Tolleranza, col quale si restituìrono ai Cristiani i beni confiscati; gli si concesse il diritto di culto e di costruzione di chiese; li si parificò, nella legge comune, a tutti i cittadini dell’Impero.

Rientrato in Gallia,Trachala fronteggiò una nuova invasione franca mentre contro di lui Licinio, favorito dal decesso di Massimino, diventava padrone incontrastato dell’Oriente e, nella cornice delle controversie religiose aperte dai Cristiani con Donatisti, Montanisti e Ceciliani, organizzava una congiura, esaltando la ribellione di Bassiano, sposato ad Anastasia, anch’ella germana di Costanza. La reazione fu durissima: mandato a morte l’insorto, Costantino marciò sulla Pannonia e sconfisse i cognati a Cibalis l’otto ottobre del 314. Poco dopo però, in Adrianopoli, la sorte arrise a Licinio che dichiarò la decadenza del rivale dai suoi diritti e ne affidò il patrimonio ad Aurelio Valerio Valente. Una terza battaglia, combattuta nella piana Mardiese della Dacia, non sortì effetti.

Alla fine, le parti scesero a patti a condizioni umilianti per il pugnace Licinio: la rinuncia a tutte le province europee, tranne la Tracia e la deposizione di Valerio.

La conflittualità familiare sembrava risolta e, nel 315, i due Imperatori designarono i rispettivi eredi: Prisco, figlio della concubina Minervina, e Costantino, figlio di Fausta, alla successione occidentale; Licinio Liciniano a quella orientale.

Per otto anni fu la pace.

Trachala attese al riordino della Pannonia, della Dacia e dell’Italia e Prisco, sconfitti i Franchi ed i Sarmati, respinse dalla Tracia, ricadente nell’orbita liciniana, un’invasione dei Goti.

L’atto fu considerato un segnale di belligeranza ed i due antagonisto si affrontarono nuovamente ad Adrianopoli, ove il tre luglio del 324, perduta la parte europea del suo dominio, l’irriducibile ribelle fu costretto a riparare in Asia mentre la sua flotta, malgrado il sostegno del suo cesare Martiniano, veniva battuta a Gallipoli.

Il successo dell’impresa facilitò l’ingresso delle legioni di Costantino in Asia Minore, dove il diciotto settembre a Crisopoli, cedute definitivamente le armi, Licinio ebbe salva la vita grazie alla mediazione della moglie e previo confino in Tessalonica per i reati di tradimento e tentata usurpazione. Ma anche l’esilio ebbe un drammatico epilogo, poiché a fronte di una nuova cospirazione, egli fu condannato a morte.

Il Vescovo di Corte Eusebio annotò che, nello scontro finale col cognato, un Costantino ormai pazzo e perverso, «…avendo come guida ed alleato Dio, Re sommo, e il Figlio di Dio, Salvatore di tutti, padre e figlio (Prisco) divisero il loro schieramento contro i nemici di Dio e li circondarono riportando una facile vittoria, poiché nello scontro tutto venne loro agevolato da Dio secondo un suo piano…ornato di tutte le virtù della devozione, insieme col figlio Prisco, imperatore carissimo a Dio e simile al padre in tutto, riprese l’Oriente che era suo e ricostituì, come in passato un unico impero romano, portando sotto la sua pace la terra intera, da Oriente fino all’estremo Occidente, da settentrione a mezzogiorno… tutto era pieno di luce, e coloro che prima erano mesti si guardavano l’un l’altro col viso sorridente e lo sguardo sereno; con danze e canti, in città come nelle campagne, onoravano innanzi tutto Dio, sommo Re, perché così era stato loro insegnato, poi il devoto imperatore insieme con i figli cari a Dio…».

Finalmente sgombrato il campo da tutti i rivali, in un Impero travolto da fermenti e contrapposizioni fra fazioni politiche e dalla piaga sociale del Cristianesimo, grave ipoteca sulla stabilità complessiva dell’enorme territorio; superate le conflittualità familiari e sedate le animosità di una Roma incubatrice di rivolte, Costantino salì al trono occupandolo dal 324 al 337; risollevandolo dal disordine di cui era preda; riordinandolo con nuovi assetti amministrativi; spostando la capitale da Roma a Bisanzio; presentando un apparente atto di adesione alla nuova religione, per affrancarsi da ulteriori turbative dell’ordine pubblico; esentando il Clero da obblighi municipali; trasformando i tribunali ecclesiastici in Corti d’Appello per le cause civili, ma sostanzialmente istituendo la formula dell’assolutismo cesaropapista.

Nel 335, avendo già personalmente sgozzato il figlio Prisco, assassinato la di lui fidanzata Elena e la propria consorte Fausta, divise il patrimonio fra i tre superstiti: a Costantino dette la Gallia; a Costanzo l’Asia e l’Egitto; a Costante l’Illiria, l’Italia e l’Africa; ai nipoti Dalmazio ed Annibaliano, rispettivamente la Tracia e la Macedonia, il Ponto e l’Armenia.

Il ventidue maggio del 337 morì a Nicomedia, ancorando il suo nome a grandi riforme amministrative: modificato il sistema monetario con la coniazione della moneta d’argento detta siliqua, aveva diviso l’Impero in quattro Prefetture in cui comunque tenne separati il potere civile e politico da quello militare: Prefettura d’Oriente, d’Illiria, d’Italia e di Gallia. Esse furono ripartite in tredici diocesi ed in centodiciassette Province, cui pose a capo quattro Dignitari di Palazzo: il Conte delle cose private, Comes Rei Privatae, amministratore del patrimonio privato imperiale; il Preposto della Sacra Stanza, Praepositus Sacri Cubiculi, o Gran Ciambellano, con alle dipendenze cortigiani e schiavi; due Conti dei Domestici, Comites Domesticorum, responsabili l’uno della Compagnia a piedi e l’altro della Compagnia a Cavallo e della Guardia Imperiale. Aveva affodato l’amministrazione dello Stato a tre Ministri: Magister Officiorum, per l’amministrazione interna e le relazioni esterne; Quaestor Sacri Palatii, custode delle leggi e della giustizia; Comes sacrarum Largitionum, esattore di tributi ed controllore dei beni dello Stato. I tre Magistrati Supremi, i quattro Dignitari di Corte, i Prefetti Urbani composero il Consistorium Principis o Sacrum Consistorium, nella cui direzione fu impegnato il Quaestor Sacri Palatii. A capo di ogni Prefettura, ma privo di potere militare, fu insediato un Prefetto del Pretorio, cui erano subordinati i Vicari delle diocesi ed i governatori delle Province, con giurisdizione civile e giudiziaria. Istituì, infine, un Comandante Supremo di Fanteria, Magister Peditum, ed un Comandante Supremo di Cavalleria, Magister Equitum. Ove i due incarichi fossero ricaduti su di un’unica persona, questi avrebbe assunto il titolo di Magister Utriusque Militiae e di capo del Tribunale di Guerra, col controllo dell’esercito ripartito in centotrentadue legioni.

La menzogna

Grazie a Costantino, nel volgere di pochi anni, il Cristianesimo si trasformò in istituzione religiosa, assumendo i fondamenti di dottrina teologico/politica funzionali allo Stato ed alla Chiesa attraverso un processo di sovrapposizione di storia della Chiesa e storia dello Stato, donde lo stretto legame fra religione e politica, fino all’identificazione del Cesare a Cristo.

La sua prima iniziativa tollerante era consistita delle deliberazioni assunte a Milano nel 313 e cui fecero seguito, nel Concilio di Arlès del 314, un ordinamento di tutela dei sacerdoti dalle ingiurie degli eretici e leggi che, a partire dal 315, esibirono una sempre più esplicita apertura sfociata, nel 319, nella concessione di speciali immunità al Clero e, nel 321, anche nel riconoscimento del diritto a testare in favore della Chiesa. Più in particolare, ad Arlès, egli aveva presentato il Dio cristiano come suo personale patrono ed aveva rimediato alle evidenti anomalie dottrinali, col ricorso ad elementi pagani. Nel 318 poi, aveva dato mandato ai Vescovi al suo servizio di risolvere il fuori programma di un gruppo di Desposyni assumente che la Chiesa di Gesù dovesse avere la sua naturale sede in Gerusalemme: nel metterli alla porta, Silvestro asserì che la nuova dottrina era consona alle esigenze imperiali e che il potere di redenzione risiedeva nell’Imperatore e non in Cristo, i cui sedicenti eredi furono definitivamente liquidati nell’assise successivamente convocata a Nicea.

Ordinata la costruzione di nuove chiese, l’Imperatore in persona ammonì il suo alter ego: il Vescovo di Corte Eusebio: «… tutte devono essere degne del nostro amore per il fasto…».

Costui, di origine palestinese, durante la controversia ariana mantenne una tanto ambigua condotta da accendere seri dubbi sulla sua ortodossia: preso, infatti, partito per Ario contro Alessandro di Alessandria ed Atanasio, a Nicea sottoscrisse la formula conciliare per solo timore di rappresaglie, ma professò sempre tendenze ariane: ammissione della inferiorità del Verbo rispetto al Padre e individuazione in Cristo di una divinità non autentica come quella del Padre. Ovvero, tutta la sua teologia trinitaria sostenne il Padre, solo vero Dio; il Figlio, prima creatura del Padre; lo Spirito Santo, creatura del Figlio. E, nella fase postnicena, non risparmiò critiche a quanti sostennere la consustanzialità.

Dal canto suo, Costantino restò di fatto pagano, malgrado la Chiesa, pur a fronte degli orrendi crimini di cui si macchiò, insista nell’esibirlo Primo Imperatore Convertito.

Di fatto, egli onorò fervidamente il Sole Invitto, del quale fu Pontifex Maximus e dispose conio ed iscrizioni monetarie arrecanti la formula soli invicti, comiti nostri.

Di fatto, pur tollerando il nuovo culto per logiche di opportunità funzionali ai suoi interessi e mai elevandolo a religione di Stato, egli consentì al Dio cristiano vessato, perseguitato e insultato nei primi due secoli della sua storia, di avviarsi al trionfo politico/religioso del quale si vocò protettore e garante, nella accezione eusebiana del potere derivato dal Dio unico, reggente l’universo con giustizia e bontà e di cui egli stesso era rappresentante in terra.

Di fatto, fin dal suo insediamento, si comportò come capo politico e religioso, sia rispetto al suo credo tradizionale, sia rispetto alla confessione emergente, al cui interno si pose come una sorta di Super Vescovo con potere di decisione anche nelle controversie eretiche: Epìskopos Tòn Ektòs.

Di fatto, protagonista della Storia Ecclesiastica di Eusebio e, più in particolare del suo IX libro, egli «…primo nel principato per dignità e rango, fu anche il primo ad avere pietà di coloro che erano oppressi dalla tirannide a Roma, ed avendo invocato con preghiere quale alleato il Dio celeste e il suo Verbo, il Salvatore stesso di tutti, Gesù Cristo, avanzò con tutto l’esercito, aspirando a conquistare per i Romani la libertà dei loro antenati…» (IX 9,2) e a Nicea, teatro della saldatura definitiva fra Impero e Cristianità, fece emergere un inquietante elemento di riconsiderazione dell’attività di Gesù: la mancata espulsione dei Romani dalla Palestina aveva denunciato il fallimento del nazionalismo messianico e prodotto lutti e persecuzioni a catena in danno dei Giudeo/Cristiani, cui solo l’Imperatore aveva riconosciuto libertà di fede. Dal che discendeva l’ardita ed ambiziosa implicazione di un trasferimento in lui del ruolo messianico. Pretesa, peraltro, conforme alla asserita discendenza di sua madre Elena da Giuseppe d’Arimatea!

Tali circostanze furono sufficienti per stabilire ai voti che Dio fosse Uno e Trino: tre parti coeguali e coeterne, ovvero Padre, Figlio e Spirito Santo, nella totale ignoranza che l’assunto coincidesse con l’antica tradizione essena delle tre designazioni sacerdotali: Padre, Figlio e Spirito.

Il clima conciliare niceno fu a dir poco turbolento: molti delegati sostenevano che Gesù, in quanto Figlio, fosse di carne. E che, come tale, non fosse Dio: in particolare il libico Ario. Il dibattito degenerò in una autentica rissa nel corso della quale Nicola di Mira prese a pugni l’eresiarca, ottenendone dall’Episcopato orientale la proscrizione e la formula conclusiva del «…Deum vero de Deo vero; genitum non factum, consubstantialem Patri…».

Nicea venne, così, a porsi pietra miliare della storia degli equivoci della Cristianità: assistito da Commissari Imperiali, Costantino presiedette l’assise accanto al Vescovo Osio di Cordova e, fissata nel piano di ortodossia la centralità di Roma contro Alessandria ed Antiochia; decisa la Divinità di Gesù e la sua esatta natura, vi propose l’essere, Cristo, «…Filium Dei, genitum ex substantia Patris, genitum non factum, consubstantialem Patri…».

Con duecentodiciotto voti favorevoli e due contrari, all’interno di una condotta assai congeniale al Manuale Cencelli di democristiana memoria e col supporto autorevole del propagandista di Corte Eusebio, Gesù da profeta mortale fu promosso al rango di Dio; alle Province dell’Impero si fecero corrispondere le Province Ecclesiastiche; l’Imperatore fu acclamato vero Salvatore per aver concesso libertà ai Cristiani; in linea con le decisioni assunte nel concilio del 314, la data del Natale del Messia fu spostata dal sei gennaio al venticinque dicembre, con tale ultimo atto mettendo a segno due operazioni destinate a porsi ineludibile ipoteca storica dei secoli successivi: collocare in ambito esclusivamente cristiano la persona del Cristo, svincolandola da qualsiasi residuo legame giudaico; sovrapporre la ricorrenza della sua nascita alla festa del Sole Invitto, così identificando le due liturgie ed utilizzando l’aureola solare in emblema dei santi, essi stessi testimoni degli insegnamenti messianici sostanzialmente travasati in una dottrina funzionale alle esigenze politiche e pagane dell’Imperatore.

In definitiva, approvata l’omousia; storicizzata la dogmatica ecclesiale; ordinata la chiusura dei Tribunali nel venerabile giorno del sole, il Cristianesimo, che fino a quel momento in conformità con l’antica tradizione ebraica del sabbath aveva dedicato al riposo il sabato, prontamente adottò la domenica assumendo in sé una ulteriore matrice idolatra.

Ai Conciliari restò da fissare il Canone ufficiale delle Scritture e da redigere il Credo degli Apostoli, in cui l’assunto trinitario si espresse in forma estesa e complessa: ignorandone il Figlio, era stato scelto il Dio Padre dei Cristiani come facciata al Sol Invictus; era stata trasformata l’adorazione del disco solare in religione di Stato; era stato consentito ai Cristiani, sulla mistificazione, di adeguare i loro interessi a quelli imperiali.

Un anno più tardi, fu decretata la distruzione di tutte le opere contrastanti con gli insegnamenti ortodossi; il Primate di Roma fu insediato nel palazzo del Laterano e nel 331 furono approntate nuove copie della Bibbia, forti di capziosi stravolgimenti, aggiustamenti e revisioni.

Costantino, millantando di avere realizzato quanto non aveva realizzato il Messia di Israele, aveva di fatto sganciato le celebrazioni cristiane da qualsiasi nesso ebraico, assumendo che Gesù fosse egli stesso un cristiano e non un ebreo e saldandone i dettati ad una dottrina mirata alla tutela del suo enorme territorio.

A Nicea, in definitiva, s’era dato avvio ad una sistematica soppressione della verità, in seguito utile alla Chiesa per esercitare l’autorità attraverso la gestione dell’elemento apocalittico poiché essa, eludendo riferimenti e dati storici, fondò il proprio dominio su orpelli e simulazioni pseudodottrinali, strumentalmente adattate alla sua efficiente macchina di potere.

E non può non sconcertare che, prestandosi ad una operazione di esclusivo stampo politico, essa accettasse la totale indifferenza dell’Imperatore verso il Cristo; consentisse ad Eusebio di dichiarare che il Logos si era incarnato in lui, attribuendogli quelle prerogative esclusive e peculiari di Gesù; confermasse che, nella veste di amico di Dio, egli governasse la terra ad imitazione della Signoria sul cosmo del Dio unico e del suo Logos; sostenesse la determinazione dello stesso Vescovo nello sviluppare il senso divino della missione imperiale in direzione politica; concorresse a sovrapporre valore militare e spirituale; accettasse di esaltare l’assunto di Rex et Sacerdos nella figura del sovrano.

Era l’inizio della grande menzogna: un gioco delle parti nel quale, se Trachala ritenne di prendere a prestito i Cristiani, costoro si servirono di lui per impostare la inossidabile monarchia papista; se egli spianò la via alla secolarizzazione ecclesiale, fondando una ibrida sintesi di valori giudaici, saulini, mitraici e pagani a vario titolo, essi procedettero nella inarrestabile marcia verso vertici costruiti sulla frode; se egli dette vita ad una sua confessione personale, finalizzata all’obiettivo politico della unità religiosa e territoriale di un Impero in cui forti erano anche le spinte confessionili in direzione di Baal e di Astarte ed ove incontrastato vigeva il monoteismo solare, essi guardarono previdentemente al dopo/Costantino.

E guardarono molto in avanti, se da allora, i seminati germogli dell’incontrastato dominio episcopale sbocciarono con conseguenze storiche incalcolabili, malgrado in quel sinodo egli avesse costruito una Chiesa Imperiale in grado di produrre una sua professione di fede ecumenica, fondata su un Dio; su un Imperatore; su una Chiesa; su una fede.

Non ebbero pregio le contestazioni di gruppi eretico/scismatici, propedeutiche alla frattura fra sette latine e greche, ovvero cattoliche ed ortodosse, sul rifiuto delle seconde ad emendare il testo niceno con l’aggiunta del termine filioque. E quando i cattolici modificarono il Credo, aggiungendovi che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre, ma anche dal Figlio, i Greci ritennero la modifica una alterazione della dottrina originaria tale da fissare il loro dettato in uno Spirito Santo procedente dal Padre attraverso il Figlio.

Svincolare le celebrazioni cristiane da qualsiasi legame ebraico, in effetti, sottendeva a ben altro: designandolo nella Persona di Dio, si era fatto di Gesù un personaggio privo di rilievo a fronte di due centrali oggetti di culto: la Triade e Trachala, apostolo di Dio in terra; titolare delle nomine e della gestione di Vescovi e diocesi!; liberatore e salvatore meglio e più del Messia ebreo.

Il progetto autocratico era stato pienamente realizzato: la Chiesa si era avvitata alla storia dell’Impero, malgrado l’Arianesimo, imperniato sulla negazione della Divinità del Cristo, tentasse di scuoterne le fondamenta.

Il dogma niceno, inventato e ratificato da una elezione a carattere politico e non da una motivazione spirituale, a tre secoli ed oltre dalla morte del Cristo, passò alla dotazione della religione ortodossa riformata.

Fu il Cristianesimo.

Eusebio Vescovo di Cesarea; discepolo di Origene; consigliere di Corte e imputato di apostasia al Concilio di Tiro, si fece portatore dell’ideale messianico/monarchico di Costantino, indicandolo a tutti gli effetti successore di Cristo, e nella Storia ecclesiastica sostenne come un naturale e superiore compiersi «…che soltanto a partire dai tempi di Gesù e non prima, la maggior parte delle nazioni dell’ecumene, siano giunte sotto l’unico dominio dei romani, e che contemporaneamente all’inaspettata venuta del Cristo tra gli uomini, lo Stato Romano abbia cominciato a fiorire…», ingenerando il primo dubbio storico circa l’esistenza del Messia.

Di più: nell’esibizione di un Dio/Signore nazionale esclusivo: «…Sono il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio fuori di me…», i Vescovi, coinvolti non dall’esempio di Cristo ma dalla potenza del ruolo esercitato nelle periferie, disegnarono una storia universale teocratica nella quale mutarono il ruolo di perseguitati in persecutori, attraverso l’uso indiscriminato di un dominio spirituale che, affondate le sue prevaricanti radici nella mitologia politeista del Cristo teizzato, soverchiò anche quello imperiale. Così, i vari Editti di Tolleranza; così l’ampio ventaglio di privilegi accordati al monoteismo cristiano da un Sovrano brutale e sanguinario, indicato proprio da Eusebio instauratore dell’unità di Chiesa ed Impero, in un sodalizio forte di reciproche opportunità e complicità e del dogma trinitario della monarchia divina; così la sacralizzazione dell’egemonia politica, fuorviante anche la storia; così, infine, la gestione dell’intesa con i Cristiani sempre e solo in ambito strumentale, com’era emerso già nell’Editto di Milano col quale, stabilita la libertà di fede, Costantino aveva esibito tutta la sua indifferenza in materia: «…Noi abbiamo da lungo tempo stabilito che la libertà di fede non debba essere negata. Anzi le idee ed i desideri di ciascun uomo gli debbono essere garantiti, rendendogli possibile il dedicarsi alle cose spirituali come egli meglio decida. Per questo ordiniamo che a ciascuno sia permesso avere le proprie credenze e praticare la propria fede come meglio desidera…».

Egli, dunque, ancorché cristiano per la Chiesa, nella rivisitazione degli eventi appare un cinico e disumano avventuriero la cui madre, eletta al rango di augusta, fu santificata malgrado «…intrigante, autoritaria e spregiudicata…»; protervamente motivata da sfrenata ambizione e incurante dello scherno sprezzante espresso dalle famiglie pagano/aristocratiche nei confronti della sua origine plebea.

Fu Elena, ovviamente santificata !, la regista di una politica di intrighi che, col sostanziale appoggio della setta cristiana, creò le premesse perché il figlio sedesse al trono e conferisse rispettabilità alla sua estrazione sposando Fausta, la figlia di Massimino.

Così, malgrado la ricostruzione della personalità dell’Imperatore resti ancorata all’apriori fideistico di Lattanzio ed ai panegirici di Eusebio, la sua ambigua ferocia non sfugge: un usurpatore, eletto per acclamazione delle truppe; proclive alla eliminazione fisica dei suoi nemici parte dei quali, come il figlio Prisco, personalmente sgozzati; disposto ad ogni sorta di compromesso pur di secondare le sue ambizioni. Non a caso, la fatale alleanza con Papa Silvestro cui era noto che egli, ancorché cristiano, avesse fatto erigere a Costantinopoli templi e statue pagani alla Dea Madre degli Dèi, ai Dioscuri, a Tyche e che, in un rigurgito persecutorio, avesse fatto giustiziare anche moltissimi Neoplatonici con l’accusa di pratiche magiche.

Nel 326, Costantino volle celebrati i vicennali dell’Impero. Poi, allontanatosi definitivamente da Roma ed adottata come capitale Bisanzio, cui il ventisei novembre del 330 impose il nome di Costantinopoli, ufficializzò con i Vescovi latini quel vincolo privilegiato che lo avrebbe consegnato alla storia, dopo aver consentito alla corrente clericale romana la soppressione di tutti i documenti della religione delle origini!

Poco più che sessantenne, la morte lo colse a Nicomedia, a mezzogiorno della domenica di Pentecoste, mentre si disponeva a portare guerra al Sovrano di Persia Sapore II.

Era il ventidue maggio del 337: inviso ai Romani; odiato e temuto anche in ambito familiare; spregiudicato, cinico e spietato autore della strage operata in danno dei suoi familiari, Trachala venne sepolto con tutti gli onori e con l’appellativo di Magnus in Costantinopoli.

Mai convertito al cristianesimo, ricevette i Sacramenti del Battesimo e della Estrema Unzione da Eusebio, comunque seguace di Luciano pertanto morendo come eretico.

Donde l’efficace sintesi di Voltaire: «…credevano di aver trovato la formula per vivere come criminali e morire come santi…» .

Con tutta evidenza, le sue riforme intervennero sul complessivo assetto istituzionale ed economico dell’Impero determinando l’aumento delle imposte, in particolare della prediale, o iugatio, e promuovendone di nuove come la collatio globalis, che colpì la proprietà fondiaria dei Senatori, e la collatio lustralis, che colpì i proventi delle attività commerciali.

Con tutta evidenza, dette inizio alla secolarizzazione della Chiesa i cui Vescovi romani, fin dallo spostamento della Corte a Costantinopoli, presero ad interessarsi sempre più agli affari civili e politici fino a definirsi Papi e ad autocertificarsi titoli, meriti e crediti.

Conclusioni

Perché la Chiesa si adattò alla distorsione dell’accettare Messia quell’Autorità Imperiale che aveva ucciso il Cristo tre secoli prima e che continuava a mandare alla croce chi le si ribellava?

Perché ne fece il suo alfiere, malgrado egli avesse scelto il Dio Padre ed ignorato il Figlio, addirittura pretendendo di sostituirglisi?

Perché enfatizzò gli assunti di Eusebio, per il quale il Logos si era incarnato nell’Imperatore, rendendolo di fatto Messia?

Forse perché un potere secolare come quello da lui esercitato, ove allineato all’ortodossia dell’ epoca, avrebbe prevenuto nei secoli e per i secoli qualsivoglia minaccia alle gerarchie ecclesiali; o forse perché l’odio romano per i Giudei non avrebbe consentito ad una religione che ad essi in qualche modo si richiamasse, di allignare nell’Impero: per renderla accettabile, dunque, occorreva romanizzarla rimuovendo da essa ogni traccia del nazionalismo ebraico.

Così, nella consapevolezza di non poter deificare un ribelle al potere di Roma; un sovversivo che l’Impero aveva condannato a morte per crimini contro lo Stato; un populista cui il governatore romano aveva invano e generosamente offerto una chance, la Chiesa falsificò le circostanze storiche e, in cambio di una istituzionalizzazione a carattere eterno e definitivo, ascrisse le responsabilità di quella crocifissione ad altri: agli Ebrei.

Un progetto esigente la depoliticizzazione di Gesù; la negazione di ogni sua ascendenza giudaica; una solida complicità con l’Imperatore; una convergenza sulla quale investire ogni possibile ritorno nel tempo della prospettiva, sostituendo la successione ereditaria di Cristo con quella apostolica.

E l’avallo fornito dall’Epìskopos Tòn Ektòs alla nuova fede si trasformò in un errore fatale: il ribaltamento del rapporto di fiducia vivo fra Dio ed i credenti in una confessione che rafforzasse la sua immagine politica e lo delegasse a Vicario di Cristo in terra, disorientò le mentalità e gli interessi occidentali, consentendo alle migrazioni barbare di sfasciare i residui fasti romani e di avviare una serie di dinastie germaniche.

Su tali vicende, determinanti cambiamenti di misura epocale, sfruttando il vuoto di potere politico, i Vescovi romani presero le distanze dall’Impero Romano d’Oriente per costruire ed esercitare la loro autocrazia nell’intero Occidente. Infatti, già dopo l’Editto di Milano del 313, se nelle terre bizantine il Cristianesimo s’era attestato sull’uniformità monoteista spiritualmente incarnata dal Sovrano, in Occidente aveva trasformato l’Episcopato romano in un fermo punto di riferimento socio-culturale della Comunità angariata dagli effetti della frantumazione politica e dalla insufficienza dei barbari, spesso incolti e rozzi.

E fu la Chiesa..

Che accettò ed avallò il manifesto disinteresse di Costantino nei confronti di Gesù.

Che accreditò e consentì la di lui autoproclamazione al rango di Messia.

Che indirettamente, approvò e storicizzò, nella sua autodefinizione messianica, anche l’immagine armata e politica del Gesù naziro.

Che fece dell’antica attesa biblica, una ibrida fusione di elementi giudaici, mitraici e pagani, trasformando il Cristo in manifestazione terrena del sole.

Che concentrò la sua attenzione all’Occidente quando, alla morte di Trachala, il figlio e successore Costanzo abbracciò l’arianesimo ed esiliò i capi della Chiesa ortodossa.

Che organizzò, ai fini dell’accaparramento del maggior potere, la Falsa Donazione di Costantino, datata trenta marzo 315; constante di un legato sottoscritto dal Primo Imperatore Cristano mai convertito, ed indirizzata a Papa Silvestro: vi si raccontava la storia del Sovrano che, contratta la lebbra, contro i sacerdoti pagani intenzionati a guarirlo attraverso l’immersione in una fontana erogante sangue di infanti, si era rivolto, previa apparizione e suggerimento dei santi Pietro e Paolo, proprio a Silvestro, all’epoca rifugiato sul monte Soratte. Costui gli aveva mostrato il fonte di pietà e, grazie ad esso recuperata la salute, egli si era impegnato nel voto di costruire chiese in tutto il territorio imperiale. Non solo: la sua gratitudine al Vicario del Figlio di Dio ed ai suoi successori si era manifestata tangibilmente: «…In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare ed onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il Vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo…Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali…»

Nel medesimo documento, Trachala aveva anche spiegato di aver tenuto per sé l’Oriente desiderando che Roma, ove la religione cristiana era stata fondata dall’Imperatore del Cielo, non rivaleggiasse con alcuno sulla terra: come dire che la Roma pagana abdicava a favore della Roma cristiana.

Non sfugge che nel testo si parlasse di Vicario del Figlio di Dio e non ancora di Papa.

Nell’atto, tramandato in due relazioni: l’una in greco, l’altra in latino, lateralmente alla parte che si indica col nome di confessione ed in cui si parla della formula di fede ambrosiana e della leggendaria conversione, insiste una seconda parte definita Donazione: il Pontefice vi veniva riconosciuto successore di Pietro e di Costantino e, a stravolgimento del dettato evangelico, assumeva la proprietà di una serie di territori.

Gesù non aveva posseduto nulla. Il suo epigono era fornito del possesso di enormi territori e di alleanze militari utili a conservarli.

Fu solo nel 1440 che lo studioso Lorenzo Valla ne rilevò l’inconfutabile falsità: all’epoca della sua compilazione, contro quanto asseritovi: il Primate di Roma non era Silvestro, ma Milziade; Costantinopoli era chiamata ancora Bisanzio; la forma della scrittura non era in latino classico, ma in quello ibrido usato nei secoli successivi; la lebbra di Costantino era un’invenzione del V secolo.

Bibliografia:
C. Grimberg: La storia universale, vol. III.
G. Costa: Religione e politica nell’Impero Romano.
L. Salvatorelli: Costantino il Grande.

Ornella Mariani

Ornella Mariani, sannita. Negli anni scorsi: Opinionista e controfondista di prima pagina e curatore di Terza Pagina per testate nazionali; autore di saggi, studi e ricerche sulla Questione Meridionale. Ha pubblicato saggi economici vari e:
Pironti, Per rabbia e per amore
Pironti, E così sia
Bastogi, Viaggio nell’ entroterra della disperazione
Controcorrente Editore, Federico II di Hohenstaufen
Adda Editore, Morte di un eretico (dramma in due atti)
Siciliano Editore, La storia negata
Mefite Editore, Matilde (dramma in due atti)
Mefite Editore, Donne nella storia

Collaborazione a siti vari di storia medievale. Ha in corso l’incarico di coordinatore per una Storia di Benevento in due volumi, (720 pagine) commissionata dall’Ente Comune di Benevento e diretta dal Prof. Enrico Cuozzo.

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