Dal testo all’immagine. Gli affreschi dell’oratorio di Santo Stefano a Lentate

02Dal testo all’immagine. Gli affreschi dell’oratorio di Santo Stefano a Lentate di Francesco Venturini

L’oratorio di Santo Stefano a Lentate sul Seveso (MB), costruito poco dopo la metà del Trecento dal conte palatino (titolo ormai puramente onorifico e perciò stesso ambito) Stefano Porro, non è imponente né architettonicamente memorabile (il solito tardo romanico lombardo ridotto ai minimi termini della navata unica). La facciata possiede tuttavia una sua grazia, solo parzialmente guasta da quel po’ di cemento che fu reso necessario dai cedimenti del terreno (foto 1)
Ma, soprattutto l’oratorio, monumento nazionale, è noto per il ciclo di affreschi che illustrano vita e vicende postume del dedicatario. Il più vasto ciclo conosciuto a Lui dedicato, dicono i testi. Quindi, dopo aver tributato la dovuta attenzione all’arco trionfale con la canonica scena del Giudizio (foto 2), notando di passaggio San Giovanni Battista che reca in mano la prova del proprio sacrificio (foto 3), veniamo a edificare l’anima nostra con la storia dell’altro Santo.
Risulta particolarmente istruttivo seguire le vicende rappresentate tenendo alla mano quell’altro celebre monumento, questa volta letterario, che è la Legenda Aurea (1260 – 1298) di Jacopo da Varagine, o Voragine, ossia sempre Varazze (De Sancto Stephano, VIII; De inventione Sancti Stephani, CXII). Si direbbe che l’ignoto pittore, non ignorante della maniera giottesca, abbia voluto puntualmente tradurre il testo in immagini, per ammaestrare gli illetterati, come allora usava.
Costretti come siamo ad abbreviare la lunga odissea del protomartire, dedicheremo le maggiori attenzioni alla parte più avventurosa, che inizia alquanti anni dopo la di Lui morte. Cercando al contempo di fornire qualche notiziola per informazione, ma sempre calcando le orme del sapiente agiografo.
L’antefatto, o della predestinazione
Mentre il futuro santo era quasi per vedere la luce, l’eterno Nemico (“… quel mal voler che pur mal chiede/ con lo ‘ntelletto…”) si studiò di defraudare e sminuire la futura gloria della verace Fede, recapitando alla culla apprestata, invece del fantolino, un membro della diabolica coorte sotto innocenti spoglie. Ma alcuni monaci, non meno presaghi che devoti, lungamente pregando ottennero la consegna del bimbo vero. A loro stessi, non ai genitori, che evidentemente non pregavano a lungo (foto 4). Essendo poi i monaci, come è noto, eccellentissime balie, in loro balia il fanciullo crebbe sano e forte e pronto al martirio. Che monaci ancora non si trovassero, intorno agli anni venti dalla fruttifera incarnazione di Cristo, è invece vituperosa ed ereticale svista degli storiografi.
Consumato il sacrificio (del bimbo divenuto diacono), calò un silenzio più lungo di tre secoli, oltre il quale dobbiamo ora trasferirci.

Nell’anno 417 dell’era cristiana, settimo del Principato di Onorio al dire di Jacopo, e ci sarebbe da puntualizzare qualche dettaglio, essendo stato insediato Onorio undicenne sul trono d’occidente nel 395, accadde che l’antico rabbino, ma anche apocrifo evangelista, Gamaliele, apparisse in sogno al presbitero Luciano, che se la dormiva a Gerusalemme, dove comunque regnava Arcadio, e gli rivelasse il luogo della sepoltura sua propria, ma anche di un figlio suo ugualmente proprio, nonché di Nicodemo depositore di Cristo, e soprattutto di Santo Stefano protomartire, del quale pure si erano perse le tracce(foto 5). Alla terza apparizione notturna, alquanto alterato per la scarsa solerzia del presbitero, ottenne infine che costui disturbasse il vescovo e lo portasse al luogo indicato, dove erano le tombe, piene di rose bianche o rosse (rosse per il martire) con tutte le fragranze del caso, sicché il venerando corpo fu trasportato infine a glorificato riposo (foto 6).
Poco dopo capitò lì il senatore costantinopolitano Alessandro, con la moglie Giuliana. Edificò il senatore un bellissimo oratorio per il Santo, che vi trovò dimora entro un sarcofago d’argento. Quindi il senatore si morì, e anche lui fu ivi sepolto, in un sarcofago identico.
Trascorsi sette anni appena, Giuliana desiderò di tornare a casa, portando seco il corpo dello sposo amatissimo. Obiettò il Vescovo, forse di nomina recente, di non saper distinguere fra due uguali avelli. La donna impetuosamente abbracciò la cassa che l’amore infallibile indicava (foto 7). Ella si partì quindi con il corpo di Santo Stefano. Non di errore si trattava, naturalmente, ma di manifestazione della volontà divina.
La quale volontà, però, non fu compresa appieno. Sepolto il Santo a Costantinopoli, con tutti gli onori, da Roma giunse notizia che Eudossia figlia dell’imperatore (d’Oriente) era stata presa dal demonio, il quale crudamente la tormentava. Le ordinò il padre di tornare a Costantinopoli per toccare il corpo del martire, da che sarebbe discesa immediata guarigione. Ma il diavolo possessore comunicò per bocca della posseduta che la partenza non era concessa. Invece, il Santo doveva venire a Roma, per operare quella guarigione, e innumerevoli altre. Il dotto e devotissimo narratore non dice perché Eudossia dimorasse a Roma, e neppure dice perché il diavolo volesse a Roma anche Santo Stefano, che lo avrebbe cacciato dal corpo della Porfirogenita. I posteri esegeti avanzano il sospetto che un qualche ruolo giocasse lo scisma d’Oriente, ignoto a Santo Stefano ma non forse al diavolo, e meno ancora a Jacopo (da Varagine): i Santi, a Roma, non bastavano mai.
Per la salvezza della figlia, l’imperatore (d’Oriente) accettò di separarsi dall’inestimabile reliquia, chiedendone però in cambio una di eguale valore: almeno il corpo di San Lorenzo. La transazione fu pattuita e Stefano partì per un nuovo viaggio. Traversando l’onda incitata dagli inferni Dei (che forse ci avevano ripensato o solo erano dispettosi, fatto sta che ci volle un miracolo per arrivare e non si fa per dire) sbarcò a Capua. Da lì, avendo lasciato solo un braccio ai Capuani, che molto lo veneravano, proseguì per via di terra fino a Roma (foto 8). Superata nell’Urbe qualche residua difficoltà di trasporto, perché il clero lo aveva destinato a San Pietro in Vincoli e dovette intervenire nuovamente il Cielo paralizzando uomini e buoi per chiarire che doveva invece andare a San Lorenzo, finalmente fu deposto a fianco del martire della graticola, il quale ultimo si dispose a uscire dalla tomba, come l’ultimo riquadro dell’affresco vivacemente mostra, per compiere il viaggio inverso.
Ma neppure San Lorenzo aveva correttamente interpretato la volontà divina. I messi imperiali, nel caso anche facchini, che avevano tentato di afferrare il corpo un dì arrostito ma restituito poi a perfetta integrità, e rivestito di paramenti vescovili, per portarselo via, caddero fulminati. Le compassionevoli preghiere del Papa e del generoso popolo romano ne ottennero bensì la resurrezione, senza però evitare la paralisi degli arti superiori, come lo stesso affresco, sempre vivacemente, mostra (foto 9). In ogni modo, la resurrezione fu provvisoria, dato che i temerari morirono definitivamente dieci giorni dopo. Così entrambi i martiri restarono per sempre a Roma, terra di Santi se non ancora di poeti e navigatori. Nulla dice Jacopo di come rimanesse l’Imperatore (d’Oriente).

Foto

  1. La facciata dell’oratorio
  2. L’arco trionfale con il Giudizio e l’abside di là da quello
  3. Giovanni Battista si presenta al Giudice offrendo la propria testa, come già fece, ma tenendone un’altra sulle spalle, a ogni buon conto
  4. Veniamo alla storia: i monaci ottengono la consegna del bambino vero e il ritiro del fake
  5. Veniamo alla storia postuma: Gamaliele prova a svegliare il diacono
  6. Il corpo, ovviamente incorrotto, è trasportato a degna sepoltura. Si notino, nel pannello di sinistra, due sassi del martirio che ancora decorano la testa del Santo.
  7. Inganni dell’amore. Ma gli somigliava tanto.
  8. Hic manebimus optime
  9. Noli me tangere
Francesco Venturini
Nato nel 1950. Per molti lunghi anni docente di materie letterarie in un liceo. Ora dedito a interessi vari e per la maggior parte innocenti, come l’esplorazione di chiese romaniche, delle quali parlo ai miei coetanei nelle Unitre.
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