Dalle tre fiere dantesche al drago

Dalle tre fiere dantesche al drago. Come venivano visti gli animali nel Medioevo di Simone Barlettai

Senza alcun dubbio uno degli argomenti che più colpisce la fantasia di chiunque si appresti a studiare il Medioevo, sono le rappresentazioni degli animali giunte sino a noi grazie ai bestiari. Non sono solamente le rappresentazioni iconografiche a lasciarci senza parole, in alcuni casi si tratta di veri capolavori, che richiedevano infinite ore di lavoro ai miniatori che le realizzavano, ma anche le proprietà che gli uomini del Medioevo attribuivano a questi animali spesso ci lasciano esterrefatti: il cervo poteva vivere fino a mille anni; la donnola concepiva i propri figli dalla bocca e li partoriva dall’orecchio; il toro perde le forze se viene legato ad un fico; il caprone ha sempre la febbre e il suo sangue è talmente caldo che può sciogliere il diamante…
Questi pochi esempi ci fanno certamente sorridere, nessuno al giorno d’oggi potrebbe credere che un animale partorisca da un orecchio o che il sangue di un caprone possa sciogliere un diamante – anche se sui social network si possono leggere bufale anche peggiori di questa, ma non divaghiamo dal tema della nostra trattazione –, ma allora perché gli uomini nel Medioevo credevano a queste cose? Forse perché non erano in grado di rappresentare in modo reale gli animali che vivevano intorno a loro?
In realtà gli uomini del Medioevo erano perfettamente in grado di osservare e rappresentare realisticamente la fauna che li circondava, semplicemente non ritenevano che ciò avesse alcun tipo di rapporto con il sapere, né a maggior ragione che potesse condurre alla verità, ciò che interessava loro non rientrava nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra. Ciò che per loro era importante non era la descrizione naturalistica, ma quella convenzionale, che ci è stata trasmessa dai bestiari: nella cultura medievale, preciso non significa vero.
A questo punto credo sia opportuno spiegare cosa siano i bestiari, con questo termine si indicano quei testi enciclopedici molto diffusi nel Medioevo, soprattutto in Francia e in Inghilterra, che si proponevano di identificare un certo numero di animali, sulla base di “proprietà” che permettevano di ricavare insegnamenti morali e religiosi. Queste proprietà – reali o immaginarie che fossero – riguardavano: l’aspetto fisico dell’animale in questione; il suo comportamento; il suo rapporto con altre specie, compresa quella umana; e infine i miti e le leggende che lo riguardavano. Solitamente gli animali nei bestiari vengono classificati in 5 grandi “famiglie”, seguendo nella maggior parte dei casi lo schema caratteristico dell’antichità, si tratta di classificazioni completamente diverse da quelle che conosciamo noi – per quelle dovremo aspettare l’illuminismo –, ovvero: i quadrupedi (selvatici e domestici), i pesci, gli uccelli, i serpenti e i vermi. Qualunque specie animale rientra in una di queste famiglie, che hanno contorni molto ampi e flessibili; ad esempio con il termine “pesci” si indicavano tutte le creature che vivevano in acqua, dai mammiferi marini ai cetacei, ma ne facevano parte anche le sirene e i monaci di mare, creature chimeriche per noi. Allo stesso modo nella famiglia dei “vermi” venivano inclusi tutti gli animali di piccole dimensioni, inclusi: roditori, insetti, gasteropodi e talvolta perfino le conchiglie.
Gli animali sono onnipresenti nel Medioevo, si può affermare che in nessun’altra epoca nel mondo occidentale gli sia stata dedicata una tale attenzione, in qualunque ambito documentario uno storico si avventuri incontrerà degli animali: solo per citare un esempio basti pensare agli apparati decorativi delle chiese, i quali, per altro, non incontravano il consenso unanime dei prelati: come nel caso di San Bernardo, che nella sua apologia (1) per l’abate Guglielmo li critica aspramente.
Visto che il Medioevo copre circa mille anni, il modo di vedere gli animali si è notevolmente modificato nel corso dei secoli, per intenderci la concezione dei cani e dei gatti non era la stessa nell’epoca di Carlo Magno e in quella di Federico II.
Ciò che è interessante notare è la grande attenzione che la cultura cristiana medievale dedica alle bestie, trovando espressione principalmente in due linee di pensiero, che solo in apparenza sono contraddittorie: da un lato c’è l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, che viene contrapposto all’animale, il quale è sottomesso e imperfetto, se non addirittura impuro; dall’altro in alcuni autori emerge il sentimento di un’autentica comunione fra tutti gli esseri viventi e di una parentela – non esclusivamente biologica – tra uomo e animale, con quest’ultimo che può quindi diventare un modello per gli umani, motivo per cui viene citato da teologi, moralisti e predicatori.
Tra le due, la corrente dominante è la prima ed in questo modo si spiega il perché gli animali siano evocati, rappresentati e raccontati così spesso. Mettere a confronto l’uomo con l’animale, reso come creatura inferiore, se non addirittura strumento per mettere in risalto determinati concetti, induce a parlarne costantemente, tuttavia è la seconda corrente ad essere la più presente nei bestiari, benché più discreta della precedente.
Non si tratta comunque di un’idea originale del Medioevo: l’idea di una continuità degli esseri viventi era già presente in Aristotele e viene ripresa anche da San Paolo nella Lettera ai romani (8.21), nella quale afferma che gli animali sono figli di Dio e che Cristo è venuto sulla terra per salvare anche loro, insieme agli uomini.
In particolare questo passaggio ha calamitato l’attenzione dei teologi medievali, i quali si chiedevano quale potesse essere il senso di tali parole. Le domande che ha originato questo passo sono innumerevoli, e riguardano diversi ambiti, innanzitutto: tutti gli animali sono davvero figli di Dio? Davvero Cristo è venuto a salvare tutte le creature?
Secondo alcuni il fatto che Gesù sia nato in una stalla è indicatore del fatto che la Salvezza è una questione che riguarda anche gli animali, ma queste affermazioni aprono le porte ad altre domande: gli animali resuscitano dopo la morte? Vanno in cielo con gli uomini oppure hanno un posto specificatamente loro riservato? Altri autori si concentrano di più sulla loro vita terrena: possono lavorare la domenica? Devono essere soggetti a giorni di digiuno? Devono essere trattati come esseri moralmente responsabili?
Domande come queste – che nel XII e XIII secolo divennero oggetto di dibattito perfino nelle università –, ma più in generale le domande che gli uomini del Medioevo si ponevano sugli animali, ci fanno capire quanto il cristianesimo ne abbia favorito la diffusione: se l’immagine dell’animale era trascurata, se non addirittura disprezzata, nell’antichità biblica e in quella greco-romana, questa viene portata alla ribalta dal Medioevo cristiano e proprio i bestiari ne sono la testimonianza libraria più significativa, nonché la più prolissa.
Dopo questa lunga premessa, che spero però possa essere utile a comprendere il modo che avevano gli uomini del Medioevo di rapportarsi con gli animali, passiamo ad analizzarne alcuni esempi celebri, partendo dalle tre fiere che Dante incontra nel primo canto della Commedìa, ovvero: la lonza, il leone e la lupa.
La prima delle fiere che incontra Dante ai piedi del colle ha spesso creato dei dubbi sull’identificazione precisa agli studiosi che hanno affrontato l’argomento, tra le ipotesi più gettonate vi sono: un leopardo – o un ghepardo –; o una lince. Il primo è un animale che Dante avrebbe potuto vedere dal vivo in cattività nel serraglio di Firenze, oppure leggerne alcuni resoconti all’interno di bestiari, cui avrebbe potuto aver avuto accesso; mentre il secondo era un animale piuttosto diffuso nelle foreste italiane del XIII secolo, quindi in questo caso anche un incontro fortuito durante un viaggio, non sembrerebbe essere un’eventualità così remota.
L’interpretazione ad oggi più calzante, a mio parere, della lonza dantesca è che essa rappresenti la vanagloria, piuttosto che la lussuria, esiste inoltre anche un’altra interpretazione, in questo caso etico-politica, che la vedrebbe come la rappresentazione animalesca di Firenze (2).
Ma quale immagine ci fornivano i bestiari dei due principali animali indiziati ad essere la lonza dantesca?
L’immagine del leopardo nei bestiari medievali è tutt’altro che edificante, viene descritto come frutto dell’unione tra il pardo, il maschio della pantera – che è invece, nel genere femminile, un animale ammirevole, mansueto e, pur essendo una belva, è una figura cristologica –, e una leonessa, animale perennemente in calore altrettanto lussuriosa della lupa; visti i genitori, non può che trattarsi di un animale pericoloso e nefasto. Come il padre è un animale crudele e sanguinario, astuto e infedele, dotato di un mantello variopinto.
Per quanto riguarda la lince dei bestiari sono due le possibili interpretazioni: secondo alcuni autori si tratta di un animale simile ad un lupo gigante, velocissimo nella corsa e dotato di una vista prodigiosa; secondo altri invece si tratta di un verme bianco, la cui vista è in grado di penetrare perfino le montagne! Ciò su cui ambedue le descrizioni sono concordi è che la lince sia dotata di una vista eccellente, motivo per cui nel sistema medievale dei cinque sensi, ad essa corrisponde la vista (3).
La seconda fiera che incontra Dante è il leone, i vari studiosi sono concordi sull’indicarlo come simbolo di superbia, nonché metafora politica per indicare Filippo IV il Bello – guarda caso il suo stemma era proprio un leone – secondo l’interpretazione etico-politica delle tre fiere, cui ho già accennato in precedenza.
Nei bestiari il leone è pressappoco una costante. Talvolta già nel Medioevo viene presentato come rex animalium, mentre in altri casi è descritto come rex bestiarum. Ciò su cui i vari autori sono concordi, è che sia il più forte degli animali terrestri.
Dal punto di vista simbolico è un animale ambivalente: può essere rappresentato sia come crudele, brutale, scaltro ed incarnare tutte le forze del male; oppure come una creatura che mette il suo coraggio al servizio del bene e il cui ruggito rappresenta la parola di Dio.
Gli stessi padri della Chiesa si dividono sulla natura del leone: S. Agostino ad esempio odia tutte le belve, leone compreso, vedendo nelle sue fauci l’abisso infernale e affermando che ogni scontro con un leone sia uno scontro con Satana stesso; Ambrogio invece vede nel leone, in quanto signore degli animali, un’immagine di Adamo o di Cristo. Sarà questa l’immagine che alla fine prevarrà, che è largamente diffusa nei bestiari del XII e XIII secolo e che permetterà la valorizzazione cristiana del leone.
Particolarmente interessanti sono alcune proprietà che vengono attribuite al leone, per esempio: un leone che fugge cancellando le sue tracce con la coda per disperdere gli inseguitori, è la rappresentazione di Cristo che nasconde la propria divinità incarnandosi nel grembo di Maria, mentre un leone che risparmia un avversario sconfitto, simboleggia Dio che risparmia un peccatore che si è pentito.
Il leone con l’uomo sa essere magnanimo, donne e bambini non devono temerlo ed in genere non mangia gli uomini, a meno che non sia molto affamato. È un buon padre e un bravo sposo, fedele per tutta la vita, ma se la leonessa viene meno al suo dovere in compagnia del pardo – il traditore per eccellenza –, la punisce crudelmente.
Prima di passare alla lupa vorrei analizzare un ultimo aspetto del leone: in quanto re delle bestie, poteva aver paura di qualche altro animale? La risposta è sì. In alcuni bestiari troviamo notizia che il leone ha paura di un solo animale: il gallo bianco. Purtroppo il motivo per cui il leone sia spaventato proprio da un gallo bianco, non viene spiegato chiaramente nei bestiari che vi fanno riferimento e per questo rimane un punto ancora oscuro.
Con la lupa terminiamo le fiere che Dante incontra all’inizio del suo viaggio, anche in questo caso l’animale non viene scelto a caso dal poeta, il quale se ne serve per indicare la cupidigia, intesa come il bisogno insaziabile di possedere beni materiali e potere. Anche in questo caso, come per le altre due fiere, vi si può leggere un riferimento etico-politico: se la prima belva si riferiva a Firenze, la seconda alla Francia di Filippo il Bello, la terza, in quest’ottica, non può che indirizzarci verso la Chiesa di Roma – il cui simbolo è, guarda caso, la lupa. Il fatto che nel 1300 il papa fosse Bonifacio VIII, uno dei papi più importanti di tutto il Medioevo soprattutto per la sua ferma volontà di far primeggiare la Chiesa, oltre che in ambito spirituale, anche in quello politico (4), rende secondo me ancora più credibile questa interpretazione.
Passiamo ora ad analizzare la figura del lupo nei bestiari medievali. Come il leone anche il lupo è praticamente onnipresente nei bestiari e nelle enciclopedie. La prima cosa che ritengo sia interessante notare è come gli uomini e le donne del Medioevo non avessero paura dei lupi, erano altri gli animali che suscitavano in loro un vivo terrore, per esempio i draghi, la paura incontrollata per i lupi è più caratteristica dell’epoca moderna. Nel Medioevo non è raro che il lupo venisse visto come un animale ridicolo, come nel caso di Ysengrin, il lupo del Roman de Renart, che non ha nulla a che vedere con l’animale terrificante che incontra Dante, anzi è l’esatto opposto: viene strapazzato dal leone, ingannato e cornificato dalla volpe, risultando dunque più vicino all’immagine del lupo delle favole antiche, rispetto ad una creatura in grado di generare un terrore incontrollato.
Il fatto che gli uomini nel Medioevo non fossero spaventati dal lupo, come quelli di epoca moderna, non significa che l’immagine che ci viene trasmessa dai bestiari non sia terrificante e diabolica, anzi è esattamente il contrario. Il lupo nei bestiari è descritto come un animale nocivo, crudele e astuto, cammina sempre seguendo la direzione del vento, per impedire ai cani di seguire le sue tracce e se è solo ulula portandosi una zampa davanti al muso per far credere di essere in branco. Il suo morso è velenoso, perché talvolta si nutre di rospi e come il cane è soggetto alla rabbia.
La sua preda preferita è l’agnello, per questo è solito travestirsi indossando la pelle di una pecora, in modo da avvicinarsi alla preda senza essere riconosciuto. In caso di necessità estrema si può nutrire anche solo di aria e di vento, ma la sua voracità è talmente spropositata da portarlo a rubare il cibo ai suoi stessi cuccioli, se non addirittura a cibarsene: nel Medioevo infatti il cannibalismo dei lupi è un fatto accertato.
C’è però una carne di cui il lupo è ancor più goloso e che preferisce a quella di qualunque altro animale: quella umana. È un divoratore di bambine, come tutti noi sappiamo dalla favola di Cappuccetto Rosso, la cui versione più antica documentata risale all’anno mille nella regione di Liegi. Se il lupo è affamato è scaltro e furente, una volta sazio diventa codardo e pigro, ma difficilmente rimane a lungo in questa condizione, vista la sua celebre bramosia.
Ama il male anche fine a sé stesso, infatti se può tortura le sue vittime prima di cibarsene, uccidendone sempre più di quante gliene servano per nutrirsi, per questo viene spesso paragonato ai signori feudali che non sono mai sazi di potere e che, per pura cupidigia, spogliano i vassalli di basso rango e i contadini dei loro beni – questo paragone è piuttosto frequente nei bestiari del XII e XIII secolo.
Il verso del lupo è terrificante e di notte i suoi occhi brillano come candele, secondo gli autori dei bestiari la vista è il suo senso più sviluppato, era abbastanza diffusa la credenza secondo cui se un lupo vedeva un uomo prima di essere visto, potesse paralizzarlo e quindi ucciderlo senza sforzo, mentre se accadeva il contrario, diveniva completamente inoffensivo.
Anche l’anatomia del lupo è molto studiata nei bestiari. Il collo è molto rigido, al punto che non può girare solo la testa senza muovere anche il resto del corpo, ciò lo pone in una posizione di inferiorità durante gli scontri con altri animali, come ad esempio l’orso, che infatti può sconfiggere anche venti o trenta lupi in una sola volta. Il cervello del lupo non ha una dimensione fissa, ma cresce e decresce con la luna, per questo motivo di notte i lupi sono molto più temibili che di giorno, che è dunque il miglior momento per cacciarli.
La carne del lupo non ha alcun valore, così come la sua pelle, ma i suoi canini ricurvi, una volta affilati, sono un amuleto in grado di decuplicare la forza di colui che li indossa. La coda possiede diversi poteri: un pelo preso dalla coda sana dell’animale è un potente talismano amoroso; se gli viene tagliata costituisce un importante trofeo per il cacciatore, poiché quando è attaccata, permette al lupo di mantenere l’equilibrio in posizione eretta, rendendolo un animale spaventoso. Inoltre se il lupo è inseguito dai cani può scegliere di staccarsi la coda da solo, per potergli sfuggire.
Esiste però anche una virtù, l’unica per altro, che viene attribuita al lupo: la prudenza, infatti per proteggere i propri piccoli i lupi cacciano molto lontano dalla loro tana, ed è questo il motivo per cui, secondo gli uomini che vissero verso la fine del Medioevo, i lupi si vedono più frequentemente nei territori in cui non vivono.
Tutti e tre gli animali che abbiamo analizzato finora rientrano nella categoria dei quadrupedi, passiamo ora ad un’altra famiglia che catturava spesso l’attenzione degli studiosi di animali medievali: gli uccelli.
Gli uccelli sono spesso presenti nei bestiari, ma addirittura in alcuni casi hanno libri interamente dedicati a loro, che prendono il nome di aviari, probabilmente il testo più famoso appartenente a questo genere è quello realizzato da Federico II (5).
Sono innumerevoli gli uccelli che vengono descritti nei bestiari, in questo contributo mi limiterò ovviamente a citarne solo alcuni celebri per particolari proprietà. Pressoché tutti sono concordi nel ritenere l’aquila la regina dell’aria. È un simbolo cristiano che rappresenta talvolta Dio, talvolta Cristo, ma è anche simbolo dell’impero, spesso tuttavia si sopravvaluta la sua importanza, infatti sia nella simbologia altomedievale germanica, che nella mitologia nordica, l’aquila non riveste un ruolo rilevante, senza dubbio i due uccelli più importanti sono: il corvo e il falco.
L’uccello prediletto dell’aristocrazia medievale, difatti, non era l’aquila, bensì il falco: coraggioso e fedele, pur elevandosi fino a scomparire dalla vista, non ne approfitta mai per fuggire.
Quanto al corvo, celebrato da molte mitologie, perde prestigio nel corso dei secoli, fino a quando viene inserito nei bestiari del diavolo dai padri della chiesa, a causa dell’episodio dell’arca di Noè, da cui ne deriva l’immagine di un animale infedele, egoista e che si nutre di carogne. Da questo momento si sprecano le descrizioni negative: ladro insaziabile; orgoglioso delle sue penne nere, al punto di reputarsi l’uccello più bello del mondo; ingordo al punto di mangiare anche cibi avvelenati, si ciba di carne tutti i giorni – anche durante la quaresima –; è anche ipocrita, si finge stupido, mentre in realtà è estremamente astuto e malizioso.
Nonostante tutte queste caratteristiche negative – non le uniche per altro –, talvolta si trovano tracce dell’antico prestigio, soprattutto tra i Celti e i Germani, in particolare nell’ambito dell’onomastica, che attribuisce al corvo un ruolo premiante. Anche in ambito agiografico si trovano notizie di corvi protettori e nutritori: è un corvo che salva San Benedetto da un tentativo di avvelenamento da parte degli altri monaci, che non sopportavano l’eccessiva rigidità della regola da lui imposta, rubando il pezzo di pane avvelenato destinato all’abate.
In alcuni bestiari nel corvo viene vista l’immagine del predicatore: oltre al fatto che è un uccello chiacchierone, il suo piumaggio nero ricorda il saio benedettino, venendo interpretato come un modo di denunciare la sozzura dei peccati e invito per i fedeli a convertirsi. Questa è un’idea già presente in Gregorio Magno e in altri padri della chiesa, ma pur essendo ripresa da alcuni bestiari, non prese mai piede definitivamente, per via del suo smodato amore per le carogne, per il furto e la sua furbizia, che non gli hanno permesso di diventare un simbolo completamente positivo.
Prima di passare ad altro, vorrei parlare di un ultimo uccello: l’ibis.
Si tratta di un uccello simile alla cicogna, ma immondo al suo confronto; vive vicino alla foce del Nilo, le sue principali caratteristiche sono la pigrizia e la sporcizia. Non sa nuotare e nemmeno vuole imparare, per paura dell’acqua – simbolo di purificazione –, vive sulle sponde del fiume e si nutre di fango, parassiti, uova di serpente e carogne. Ovviamente questa dieta è molto indigesta, per potersi liberare l’ibis ha però trovato una soluzione: raccoglie l’acqua sfruttando il suo grande becco ricurvo e se la inserisce nel sedere. I testi descrivono lo spettacolo come abominevole, ma l’effetto è immediato, per questo suo comportamento è considerato un animale sporco.
Secondo alcuni autori, che riprendono Ippocrate e Galeno, l’uomo ha appreso da questo uccello la tecnica del clistere, anche se un buon cristiano non deve assolutamente seguirne l’esempio: non deve temere l’acqua purificatrice, non deve nutrirsi di immondizie e tantomeno interessarsi alle parti indecorose del proprio corpo.
Come dicevo in precedenza, talvolta nelle famiglie medievali troviamo animali che noi non classificheremmo mai così: ad esempio il coccodrillo, che per noi è un rettile, per gli autori dei bestiari rientrava o tra i pesci, o tra i serpenti – facevano parte di questa famiglia anche le lucertole.
Il coccodrillo è un mostro orribile e crudele, immensamente vorace, non muovendo la mascella inferiore non mastica, ma ingoia le prede. Praticamente tutti gli autori parlano della sua scaltrezza, paragonandola a quella della volpe, può fingersi addormentato e balzare improvvisamente addosso alla sua preda. Secondo alcuni autori è in grado di provare rimorso: ogni volta che vede un uomo non resiste e lo divora, per poi pentirsi del gesto e piangere a lungo, le sue lacrime hanno dunque valore di penitenza, testimonianza della sofferenza per il grave peccato commesso. Per altri autori invece non si tratta di rimorso, bensì di ipocrisia: il coccodrillo finge solamente di piangere, mentre in realtà è ben contento del pasto appena consumato.
Oltre ad essere brutto, ingordo e violento, il coccodrillo è anche pigro: può dormire giornate intere al sole senza fare nulla, ignorando tutte le possibili prede, compresi gli uccellini – stando alle fonti spesso si tratta di pivieri e regoli –, che entrano nella sua bocca spalancata per nutrirsi di vermi e sanguisughe.
Concludiamo la descrizione del coccodrillo parlando della tecnica di accoppiamento, secondo le fonti si accoppia come gli uomini, il maschio gira infatti la femmina sulla schiena, sfregando il suo ventre su quello della compagna, questo perché la pelle liscia e fragile della pancia potrebbe lacerarsi se venisse a contatto con la schiena ricoperta di scaglie, la cosa che sconvolgeva gli autori dei bestiari era però un’altra: l’accoppiamento non avveniva di nascosto in acqua, ma sulla terra e davanti a tutti. Di fatto è interessante notare una cosa riguardo alla descrizione del coccodrillo: di fatto l’analisi degli autori è particolarmente accurata e per molti aspetti combacia con quelle degli scienziati moderni, specialmente in merito alle abitudini di vita dell’animale, ma come già ho accennato in precedenza, gli interessi medievali non coincidono con i nostri, dunque pur osservando in maniera molto simile alla nostra, giungevano a conclusioni differenti.
L’ultimo animale di cui intendo parlare è senza dubbio quello che più di tutti noi colleghiamo al Medioevo: il drago.
Partiamo con il dire una cosa che solo in apparenza è ovvia: gli uomini medievali credevano che i draghi fossero veri, che esistessero e fossero una minaccia concreta.
È il più grande dei serpenti, ma ha anche due, o quattro, zampe; alcuni draghi hanno le ali, gigantesche ali da pipistrello dietro il collo, quelli che ne sono sprovvisti sono ancora più viscidi: non volano, ma nuotano benissimo.
Ciò che accomuna tutti i draghi sono: le scaglie, molto più dure di quelle dei pesci e dei serpenti; la lunga coda affilata; una cresta dorsale con ardiglioni, zampe da leone con artigli d’aquila; testa allungata e orecchie appuntite; gli occhi sono piccoli e rossi; la bocca non è grande, ma è dotata di denti aguzzi e lingua a forma di tridente.
In alcuni casi hanno più teste – l’anfisbena ne ha due: una sul collo e l’altra all’estremità della coda; l’idra ne ha addirittura sette! –, tutti mordono, sputano, vomitano e sbavano, producono fuoco dalla bocca (alcuni anche dalle orecchie) e dalle narici gli esce un fumo che impesta e corrompe l’atmosfera, mentre dalle scaglie esce un umore appiccicoso e nauseabondo, ma non velenoso.
La loro origine è in Etiopia, India e “Barberia”, ma da lì si sono diffusi in tutto l’universo. Un’altra spaventosa caratteristica dei draghi è, infatti, la loro capacità di spostarsi molto rapidamente, dato che possono camminare, volare, nuotare, strisciare e arrampicarsi, appartengono dunque a tutti e tre i mondi: quello terreste, quello celeste e quello acquatico. Sulla terra abitano nelle caverne, che riempiono di tesori, da cui escono per seminare terrore nelle contrade vicine. Sottoterra vivono in acqua, che fanno esondare quando si arrabbiano o quando si battono con altri animali acquatici. In aria sfidano gli angeli, competono con i più feroci uccelli da preda e sono in grado di scatenare tempeste.
La forza del drago risiede nella sua coda, con cui uccide tutti coloro che colpisce. Chi vi rimane intrappolato non ha scampo: neppure l’elefante, nemico mortale del drago, può salvarsi se viene avvinto nelle spire della coda del drago(6).
Secondo alcuni autori i draghi sono immortali, ma cadono in sonni profondi, che possono durare molto a lungo e da cui non devono essere svegliati.
Il colore dei draghi è motivo di discordia tra i vari autori dei bestiari: secondo alcuni sono gialli, per altri sono verdi, la maggior parte degli autori arriva ad un compromesso affermando che sono giallo-verdi; ciò che in molti ci tengono a precisare, però, è come i draghi possano cambiare colore, come i camaleonti, riuscendo ad assumere anche i colori dell’arcobaleno, caratteristica che condividono anche con la pantera, altra sua nemica al pari dell’elefante.
Internamente il drago è rosso, per via del fuoco e del sangue, il quale viene raccolto per farne un colore utilizzato dai pittori: il sandragon (7), che serve per dipingere la faccia del diavolo e il corpo dei demoni.
Dalle descrizioni fornite dai bestiari, come abbiamo potuto vedere, i draghi sono animali completi, hanno relazioni con tutti e quattro gli elementi – acqua, aria, terra e fuoco – e con tutti e cinque i sensi: terrificanti a vedersi, viscosi al tatto, disgustosi da mangiare, hanno un alito nauseabondo e sono estremamente rumorosi. Tuttavia sperma e sangue di drago hanno proprietà fecondanti e difensive: chi si immerge nel sangue di drago diventa invulnerabile e immortale, come fece Sigfrido della saga dei Nibelungenlied, anche se a causa di una foglia di tiglio che gli si posò sulla schiena non divenne completamente invulnerabile.
Il drago medievale, polimorfo e polivalente, è il risultato dell’unione in una sola creatura di molte tradizioni antiche: bibliche, orientali, greco-romane, germaniche. Appartiene più alla categoria del soprannaturale, che a quella del meraviglioso (8), ed è proprio per questo che è considerato un animale estremamente reale, è terrificante, ma non strano, di cui possedevano una conoscenza approfondita. Lo si ritrova anche nella vita quotidiana, nelle chiese è addirittura più diffuso del leone, ma anche in altri ambiti è presente, basti pensare che nel Medioevo si ha più paura di incontrare ed essere divorati da un drago, che da un lupo: in pratica il drago è la rappresentazione del diavolo.
Ecco perché ogni vittoria su un drago è la vittoria del bene sul male. Solo i più grandi, che siano santi o eroi (9), possono affrontarlo e sconfiggerlo. Questi combattimenti, che per le ragioni che ho indicato prima, possono avvenire in terra, in acqua o in aria, divengono immediatamente indimenticabili, dando origine a numerosi racconti – sia agiografici, che letterari. Ma imprese del genere vengono celebrate e rappresentate anche artisticamente, dando vita, grazie al carattere polimorfo del drago, ad ogni genere di rappresentazioni, le quali ovviamente variano a seconda del periodo in cui vengono realizzate. Diversamente da tutti gli animali di cui ho parlato finora, nella cultura medievale europea non esistono draghi buoni, non hanno alcun pregio o virtù, mentre in quella asiatica sono molto numerosi i casi di draghi buoni.
Come abbiamo avuto modo di vedere, nel Medioevo gli animali venivano studiati in modi molto diversi da come facciamo noi oggi, tuttavia sarebbe sbagliato da parte nostra etichettare tutti i contenuti dei bestiari come sbagliati, dobbiamo capire come approcciarci a questi meravigliosi testi, che ovviamente, nella maggior parte dei casi, non possono darci le risposte che noi ci aspetteremmo da un testo di zoologia, ma che tuttavia possono darci importanti indicazioni sul modo di pensare, di persone vissute diversi secoli prima di noi, rivelandoci in cosa credevano, che cosa li interessava e che cosa li spaventava. Già queste sono informazioni fondamentali per chi si appresta a studiare il Medioevo, inoltre chi ci garantisce che tra cinque o sei secoli, tutte le concezioni contenute nelle nostre enciclopedie e nei nostri volumi di zoologia, che per noi sono dati di fatto oggettivi, alla luce di nuove scoperte compiute, non possano essere lette con un sorriso dagli uomini di quell’epoca, come noi facciamo oggi con i bestiari medievali?

Bibliografia

– Bernardo di Clairvaux, Apologia ad Guillelmum Sancti-Theoderici abbatem, XII.29, edizione italiana In Id., Opere, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense – Fondazione di studi cistercensi, vol. I, Milano, 1984;
– Federico II di Hohenstaufen, De ars venandi cum avibus, in edizione italiana, Il trattato di falconeria, Edicart, Legnano 1991;
– Lanza A., L’allegoria etico-politica delle tre fiere e il vero significato della corda nell’episodio di Gerione, in «Dante Gotico e altri studi sulla commedia», Firenze, Le Lettere, 2014;
– Le Goff J., L’immaginario medievale, Laterza, Roma-Bari 2003;
– Paravicini-Bagliani A., Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII, Carocci ed., Roma, 2001;
– Pastoreau M., Il colore, in G. Castelnuovo e G. Sergi (a cura di) Arti e storia nel medioevo, vol. II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Einaudi, Torino 2003;
– Pastoureau M., Bestiari del Medioevo, Einaudi editore, Torino 2012;
– Seriacopi M., Questioni di esegesi dantesca: il caso della Lonza in un commento del XIV-XV secolo, in – «Dieci studi danteschi (con un’appendice bonifaciana)», FirenzeLibri s.r.l./Libreria Chiari, Firenze, 2008.

Note

1) Bernardo di Clairvaux, Apologia ad Guillelmum Sancti-Theoderici abbatem, XII.29 [ed. it. In Id., Opere, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense – Fondazione di studi cistercensi, vol. I, Milano 1984].
2) Riguardo alle possibili interpretazioni della lonza dantesca, rimando a due validi saggi: M. Seriacopi, Questioni di esegesi dantesca: il caso della Lonza in un commento del XIV-XV secolo, in «Dieci studi danteschi (con un’appendice bonifaciana)», FirenzeLibri s.r.l./Libreria Chiari, Firenze 2008; e A. Lanza, L’allegoria etico-politica delle tre fiere e il vero significato della corda nell’episodio di Gerione, in «Dante Gotico e altri studi sulla commedia», Firenze, Le Lettere, 2014, pp. 41-52.
3) Gli altri sensi erano: udito la talpa, olfatto l’avvoltoio, tatto il ragno e gusto la scimmia.
4) Il riferimento è all’enciclica Unam sanctam del 18 novembre 1302 di Bonifacio VIII, si compone di una prima parte ecclesiologica, in cui viene descritta la costituzione e la natura della Chiesa, in cui viene affermata con insistenza la fondamentale unità e unicità; la seconda parte, invece, analizza i poteri che derivano al papa dalle considerazioni della prima, attribuendogli, in modo categorico, la plenitudo potestatis, espressione della superiorità gerarchica del potere spirituale su quello temporale. Vi si ritrova nuovamente il simbolo delle due spade – metafora che risale a Papa Gelasio I nel V secolo –: quella materiale che deve essere impugnata dai laici, ma pro Ecclesia e ad nutum et patientiam sacerdotis; mentre alla potestà spirituale spetta di instituere et iudicare quella terrena, fermo restando che il papa non può esser giudicato da nessun altro all’infuori di Dio. In conclusione non sono due i principi ma uno solo, e de necessitate salutis ogni creatura deve sottostare al papa. Per approfondire ulteriormente l’argomento, rimando a: A. Paravicini-Bagliani, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII, Carocci ed., Roma 2001, pp. 172-174; la voce Bonifacio VIII, a c. di Eugenio Dupré Theseider, in Enciclopedia dei Papi (2000), disponibile online; infine, sempre online, è possibile consultare il testo dell’enciclica nella versione latina con testo a fronte: http://www.dcuci.univr.it/documenti/Persona/curr/curr681026.pdf.
5) Federico II di Hohenstaufen, De ars venandi cum avibus, in edizione italiana, Il trattato di falconeria, Edicart, Legnano 1991.
6) Per altro la lotta tra elefante e drago è il simbolo della lotta tra il bene ed il male. Anche se sembra che il male trionfi, l’elefante rappresenta l’anima del giusto che va in paradiso, mentre il drago, che è l’anima del peccatore, è destinato all’inferno.
7) La leggenda del sandragon si trova in M. Pastoreau, Il colore, in G. Castelnuovo e G. Sergi (a cura di) Arti e storia nel medioevo, vol. II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Einaudi, Torino 2003, pp.417-426.
8) Per approfondire la questione della differenza tra “soprannaturale” e “meraviglioso” si veda: J. Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 11-23.
9) Tra coloro che sconfissero un drago sono presenti anche due donne: Santa Marta e Santa Margherita, oltre ai più famosi San Michele e San Giorgio, mentre i laici ad essere riusciti in quest’impresa furono: Artù, Tristano e Sigfrido.

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