
de Clavellis de Fabriano dalla Signoria alla fine della Casata di Giovanni B. Ciappelloni
Nel 1378 dopo la presa del Comune di Fabriano da parte dei de Clavellis tutto il territorio venne abbandonato al saccheggio dei mercenari di Lutz von Landau i quali, secondo Domenico Scevolini, che favoleggia di un singolo bottino di 150.000 ducati, depredarono la ricca cittadina di quanto riuscirono a trovare. Queste devastazioni rientravano purtroppo nelle abitudini del periodo e soprattutto in quelle dei de Clavellis. E dopo più di due secoli il Clan normanno, abituato da sempre a imporre le proprie ragioni usando il filo della spada, riuscì infine ad imporre definitivamente al popolo la propria Signoria su Fabriano e ad ottenere l’avallo del fatto compiuto dal potere ecclesiastico.
Non appena la situazione dopo la risolutiva conquista del potere da parte dei de Clavellis ebbe a tornare alla normalità all’interno delle mura comunali e soprattutto dopo la repressione degli ultimi sussulti di ribellione volti a liberarsi di Guido Napolitano, individuo odiato dalla popolazione e inviso a parte della casata, non ci furono più ostacoli alla consacrazione della Signoria clavellesca su Fabriano. Venne anche istituita una giornata di festa cittadina per commemorare l’evento durante il quale venne reso obbligatorio astenersi dalle attività lavorative a dai commerci.
Nello Statuto cittadino del 1415, definito il chiavellesco, si stabilisce (1):...”nemini liceat aliquod laborerium facere neque fieri facere intus vel extra muros, nec bancas apothecarum nec alias mercationes vel mercimonium exercere, nec in platea comunis ire causa locandi vel conducendi operas alicuius, pena X soldorum”…
Guido dimostra subito di essere oltre che un buon politico anche un ottimo comunicatore. Lui che per le origini della casata non poteva esibire alcun titolo nobiliare non perse tempo a enfatizzare il miles neapolitano, facendolo inserire nei documenti ufficiali. Per questi motivi riuscì a suscitare, nonostante le angherie a cui sottoponeva il popolo e buona parte della borghesia locale, una impressione si direbbe di simpatia nel Legato apostolico, il cardinale Anglico de Grimoard.
Costui compilò nell’ottobre del 1371, sette anni prima della Signoria, una interessante relazione sulla città di Fabriano e sulla casata normanna (2): “Fabrianum qui est notabilis locus et insignis, et de melioribus tocius provincie in mercanciis et aliis…..Clavis est provincie…….Item isti de Clavellis sunt multi numero, inter illos magis odiosus populo dominus Guido miles, filius predicti domini Albergheti, … et eos, ut asserunt, tyrannizavit. Est homo boni capitis et magni sensus in mundanis, et qui multos habet ibidem amicum et multos trahit”.
Questi “praecepta”, appunti per il proprio successore, stilati dal Grimoard offrono una chiara visione della città e dei de Clavellis. Fabriano viene descritta come un centro abitato degno di nota per i commerci e per l’insieme delle attività civili. Viene constatata l’egemonia di Alberghetto sulla città e la posizione strategica del luogo rispetto alle vie di comunicazione della Marca insieme alla bellezza delle costruzioni.
A contraltare questo quadro viene notato il gran numero dei de Clavellis ed il fatto che il popolo nutre un grande odio per Guido, che già esercita il potere, in quanto è visto come un tiranno. Con una frase che denota simpatia personale, forse dovuta alle comuni origini francesi, il Legato definisce Guido uomo di grande intelligenza con eccellenti doti politiche e dai molti amici. Scarse per non dire nulle sono le notizie private su questo personaggio, dal carattere violento, le cronache lo fanno supporre vendicativo verso i nemici residenti in città e clemente con quelli interni alla famiglia, le vicende storiche lo indicano dotato di una riconosciuta accortezza politica, abile nei commerci, con tre mogli e probabilmente con diverse amanti come la presenza del figlio illegittimo Cecchino, lascia intendere. Guido uomo di grande prestanza fisica si sposò tre volte ed ebbe numerosa discendenza. Molti gli attribuirono in moglie una Zambrogina degli Ubaldini, che tuttavia una dispensa matrimoniale di Papa Innocenzo VII datata 1406, presente nell’Archivio storico di Fabriano indica come una futura consorte del nipote Guido figlio di Tomaso di Nolfo (3) . Dopo le nobili Agnese della Torre e Margherita da Montefeltro l’ultima sua sposa fu una “Bella” che aveva la sua dote nella balya di Moscano e forse probabilmente da lì proveniva. Di lei non si sa se ebbe dei figli dal Magnifico Signore e quale fosse la sua famiglia. Per il nome o soprannome probabilmente una popolana che allietò con la sua compagnia un Guido oramai avanti negli anni. Narra Francesco Graziosi (4):” Guido primo ebbe Nolfo, Cecchina, Galasso, Bellafiore, Armellina, Montanina, Bellario, Giovanna, Tedesca, Elisabetta, Corradino, Chiavello, Cecchino, Alberghetto 3°, Crescenzio e Francesca “. Inoltre, anche se può apparire singolare Guido, il miles neapolitano, non apparve mai in prima persona nelle cronache o nei documenti in condotte mercenarie. Certo non è possibile negare che abbia avuto un ruolo militare nella riconquista di Fabriano e nella difesa del fresco potere signorile dagli attacchi degli oppositori interni e dei fuorusciti ma il suo nome non venne mai accostato ad imprese militari di rilievo come invece si può rilevare per gli altri consanguinei al comando del Clan risulta invece presente in diversi documenti amministrativi ed in alcuni che parlano di liti e di conseguenti transazioni con la Camera apostolica. Il commercio, che diverrà la principale attività di reddito familiare, evidentemente iniziava a essere più remunerativo della milizia. Guido oltre al documentato coinvolgimento familiare nella produzione e vendita della carta aveva rivolto un simile interesse verso altre attività sin dalla metà del XIV secolo quando investirà cifre importanti, 8000 lire ravennati e anconetane, nel commercio delle stoffe e dei tessuti.
Tra le righe delle carte sembra di intravedere anche un’attività di prestito agli imprenditori locali ai quali vengono finanziati i costi in cambio di parte dei guadagni oltre al rimborso della somma anticipata. Inoltre con Guido comincia ad affievolirsi senza tuttavia annullarsi del tutto quel protagonismo in campo ghibellino che era stata una caratteristica familiare. Per questo atteggiamento il potere clavellesco, rientrato evidentemente nell’obbedienza romana, riesce ad ottenere una definitiva legittimazione nel 1393 da parte di papa Bonifacio IX attraverso la nomina di Guido a Vicario Apostolico dei territori soggetti al Comune di Fabriano. I fratelli Gualtiero e Antonio, prima dell’instaurarsi della Signoria, erano stati associati dal padre Alberghetto a Guido nel godere i benefici del potere, come attuato in precedenza da lui con i fratelli Giovanni e Crescenzio. Ma Guido una volta conquistata la Signoria evidenzia che non desidera dividere il potere con alcuno: “Dominò Guido Fabriano per lo spazio di tre anni senza provare altri contrasti, ma nel 1382 il suo fratello Gualtiero II volendo parte delle entrate della Terra, gli divenne nemico e fece ribellare i Castelli di Pierosara e di Cerreto, consegnando Cerreto a fuorusciti, e fatto lega col Signor Ridolfo da Camerino” (5).
Su Gualtiero che probabilmente non è il secondogenito, in quanto negli atti notarili tra fratelli viene sempre nominato al terzo posto dopo Guido e Antonio si reperiranno notizie che denotano grande ambizione personale ed abilità militare. E’ sicuramente un uomo d’armi di buona reputazione e su di lui le prime notizie inizieranno a essere presenti nei documenti solo dopo il suo matrimonio, celebrato forse nel 1353, con la nobildonna fermana Mitarella, figlia di Mercenario da Monteverde di Fermo e di Risabella o Isabella dei conti di Rovellone, quando era già vedova del nobile Nicola d’Acquaviva. Gualtiero ha sicuramente delle ragioni da far valere che non vengono riconosciute e cerca degli alleati. Ottiene l’appoggio, probabilmente nel 1382, di Rodolfo II da Varano e di Pietro d’Ortensio di Cerreto, miles di valore. Ma l’anno successivo le cronache narrano della morte dell’Ortensio in un agguato tesogli da una masnada di campagnoli, probabili sicari di Guido, che lo assalgono a tradimento al Ponte di Someglia, vicino Fabriano, e qui lo uccidono. Dopo questo avvenimento Gualtiero che deve aver partecipato alle prime gesta di Guido ed alla riconquista del 1378 di Fabriano sembra ottenere una qualche forma di clemenza e viene probabilmente costretto ad allontanarsi. Infatti lo ritroviamo nel 1383 negli Abruzzi agli ordini di quel Bartolomeo “delle Vittorie” Smeducci anche lui vicino a Rodolfo da Varano. E con il 1384, anno anche della morte di Rodolfo II da Varano, di tutta la ribellione sembra non rimanere più traccia.
Degli altri fratelli ininfluenti nelle vicende storiche familiari si sa poco o nulla. Agli inizi del XV secolo i figli di Alberghetto e Marsobilia non dovrebbero esistere più ed essere tutti passati a miglior vita. Mentre dei vari Fornaciaro, Antonio, e delle figlie non si conosce la data di scomparsa, di Finuccio sappiamo dai documenti di Orve che risulta deceduto prima del 1362 mentre Francesco, Abate di San Vittore delle Chiuse, abbandona questo mondo nel 1370. Guido e Gualtiero si spengono a qualche anno di distanza l’uno dall’altro. Gualtiero probabilmente in maniera banale nella sua dimora di Fabriano mentre Guido muore nella rocca di Capretta si direbbe rinunciando agli agi cittadini e a testimonianza del suo legame con la storia di famiglia. Oppure, più prosaicamente, qui relegato dai familiari per non vederlo abbandonato, in quanto infermo, agli sguardi malevoli ed indiscreti della cittadinanza che lo aveva subito per anni e che lo odiava profondamente. Circostanza ipotizzabile a seguito della presenza nelle cronache cittadine di un Guido imprecisato che viene ritenuto Signore di Fabriano prima di Chiavello, che muore dopo due anni di malattia e sul quale non vengono fornite ulteriori informazioni (6). L’anno del decesso di Guido dovrebbe essere collocato tra il 1396, quando il figlio Chiavello è già nominato Vicario in temporalibus (7), ed il 1400 come sembrerebbe di capire da notizie marginali collegate a Guido unite al precipitoso arrivo a Fabriano dai quartieri viscontei di Chiavello che dovrà soffocare l’ennesimo tumulto cittadino esploso quasi sicuramente in occasione della morte del padre.
Il naturale successore di Guido è il primogenito Nolfo che risulta già trapassato. Per questa ragione Chiavello, assume il potere in attesa che il nipote Tomaso, il maggiore di Nolfo, faccia esperienza e gestisce gli affari della casata fino al 1412. Nei documenti la prima menzione su Chiavello è del 1393 quando viene citato (8) insieme al padre ed ad altri rappresentanti di casate locali tra cui i da Varano, i Simonetti e gli Ottoni da Papa Bonifacio IX per una usurpazione di terre della Chiesa nella Marca Anconitana. Il 5 settembre 1395 è a Milano al fianco di Antonio da Montefeltro all’incoronazione di Gian Galeazzo Visconti a Duca di Milano. Il futuro Signore di Fabriano sarà costantemente accompagnato nelle cronache dal titolo onorifico di “Messere” chiaro attestato di rispetto ma non di nobiltà e risulta essere colui che permette al pittore Gentile da Fabriano di inserirsi e venire apprezzato nell’ambiente artistico lombardo.
Nel gennaio del 1397 Chiavello consente ai monaci silvestrini di S.Caterina d’Alessandria in Castelvecchio di unirsi all’ Ordine di Monte Oliveto sorto a Siena grazie all’appoggio del vescovo ghibellino Guido Tarlati da Pietramala. Il 1397 registra anche la presenza di Chiavello al matrimonio di Biordo Michelotti, Signore di Perugia, con la giovanissima, Giovanna Orsini. Nel “Diario del Graziani” troviamo: “E quel di Fiorenza menò XII uomini d’arme per giostrare… il mercoledì si giostrò una barbuta con l’armi del Comune dietro, cioè il grifone; dove intervenne un famiglio di Messer Chiavello, il Tinto, Lionello, Francesco D’Aluigi, Agnelo di Nollo e Roberto di Nicolò: e giostrar di continuo fino a notte onde fu d’uopo adoperarvi le torce. Il premio della giostra l’ebbe il famiglio di Messer Chiavello” (9). E’ quasi certo che “il famiglio” sia stato il fratello Alberghetto, uomo di capacità notevoli e di grande reputazione, sia come letterato che come uomo di tornei, un campione famoso che era solito risultare vittorioso nelle giostre. Chiavello combatterà nel 1402 a Casalecchio di Reno nella prima squadra agli ordini di Alberico da Barbiano contro la lega fiorentina, padovana, bolognese comandata da Giovanni Bentivoglio. Da cronache perugine e di Città di Castello si ha notizia che nel 1398 gli Ubaldini, famiglia molto vicina ai Montefeltro ed imparentata ai de Clavellis avevano fomentato ribellioni nella città tifernate per impadronirsene. Chiavello e Antonio da Montefeltro inviarono circa 1000 uomini armati per sostenere in questo tentativo Ottaviano degli Ubaldini della Carda (10). I reciproci tentativi di ottenere soddisfazione e così gli scontri armati per la supremazia si protrassero a lungo finché dagli Ubaldini venne avanzata, nell’Agosto 1406, una proposta di pace proponendo come mediatore “messer Chiavello da Fabriano uomo retto e imparziale”. Firenze da parte sua inviò come plenipotenziario Rinaldo degli Albizzi per trattare la pace tra gli Ubaldini, Città di Castello e Firenze. L’accordo si raggiunse il 18 dicembre 1406 e vi furono tre giorni di festeggiamenti in onore di Chiavello.
La produzione della carta insieme alla lavorazione dei pellami, del ferro e dei tessuti risultano a pieno diritto tra le prime attività commerciali tra le mura comunali e nel 1406 gli antichi statuti della corporazione dei fabbri vengono confermati da Chiavello. E si ha notizia di una nuova impresa, il commercio del sale, che conferma l’attitudine imprenditoriale della famiglia. I de Clavellis e i Malatesta, nei primi anni del XV secolo, risultano associati insieme ad un tale Giorgio di Rosa di Zara nella vendita del sale nell’entroterra dell’Italia centrale. Scrive lo storico Pietro Maria Amiani a proposito dei Malatesta per il 1408: “Dilatarono in quest’occasione i Malatesti nella Marca i loro acquisti e fatta società co’ signori Chiavelli di Fabriano, formaronvi delle saline delle quali diedero l’amministrazione a Pietro de’ Beccadelli da Bologna loro tesoriere “(11). Sull’operato di questa società i codici malatestiani informano che il sale si provvedeva a Venezia ed in Schiavonia e di là lo si mandava via terra o via mare alla volta di Fano dove esisteva un deposito centrale. Da qui veniva inviato in Toscana, nella Marca ed in Romagna, dove veniva venduto per conto della Compagnia. Chiavello che godeva di enfiteusi sulle proprietà della Abbazia di San Vittore alle Chiuse, dietro pagamento di un canone annuo di 150 ducati, che nel 1405 si fece ridurre dalla Camera Apostolica a 100 ducati, nel 1406 acquistò il monastero di S. Bartolomeo, anticamente san Damiano, contiguo alla chiesa di San Biagio per donarlo alla suore benedettine di Valdisasso.
Sempre Chiavello l’anno precedente aveva acquistato per 172 ducati d’oro l’eremo di Valdisasso, che poteva vantare alcune visite di San Francesco, per donarlo ai frati minori. In questi anni o in quelli appena successivi il Signore di Fabriano aveva commissionato al Gentile il Polittico di Valleremita per farne omaggio ai frati francescani e collocarlo nell’eremo di cui era un assiduo frequentatore: “l’illustre principe Chiavello signor di Fabriano… fu tanto devoto de frati osservanti che oltra a provedere a quel monastero di tutte le cose necessarie in abbondanza egli alcune volte vi stava molto familiarmente & diceva coi frati l’ufficio diurno “(12). Nel 1404, qualche anno dopo la morte di Guido Napolitano Chiavello associò il nipote Tomaso, primogenito di Nolfo, al governo della città di Fabriano indicandolo come futuro Signore e ripristinando così la linea dinastica della famiglia inoltre mise mano alla rocca cittadina e ne migliorò la funzionalità difensiva dalle parti della contrada di San Sebastiano. Fece costruire una bertesca (13), nella zona più debole delle mura cittadine quella tra il Ponte delle Cannelle e la Chiesa di S. Maria Nuova. Chiavello protesse sicuramente Gentile da Fabriano e ne promosse l’attività e viene da domandarsi se a volte il Gentile che usava inserire nei suoi dipinti ritratti di committenti e familiari, per ossequio o gratitudine, non abbia tratteggiato nel Polittico di Valleremita la figura di Chiavello al posto di quella di san Francesco ai piedi del mistico sposalizio della Vergine e quella della consorte Lagia in quella della Maddalena. Di Lagia, la moglie di Chiavello, che venne indicata, con il nome di fantasia di Livia insieme ad altre gentildonne locali come una poetessa petrarchesca da Francesco Sansovino, Domenico Scevolini e dal canonico fabrianese Giovanni Andrea Gilio si è sempre ignorata la provenienza. Riguardo alle sue origini in un manoscritto riguardante la vita di Bernardino della Carda presente anche nella biblioteca di Urbania è stato possibile rintracciarne la famiglia: “la moglie di Mes. Chiavello che era sorella di Ottaviano”, quindi Chiavello aveva come consorte una Ubaldini della Carda. Costei sarebbe rimasta praticamente sconosciuta se Giovanni Andrea Gilio non le avesse attribuito nel 1580, nel suo “Topica poetica”, due sonetti dal sapore petrarchesco ritrovati in un archivio imprecisato.
Giosuè Carducci in “Rime di Francesco Petrarca…” escluse questa possibilità e parlò di un evidente falso storico: “Me ne dispiace per il bel sesso: ma di questa nidiatella di gentildonne poetesse non c’è memoria veruna del secolo XIV o del seguente… e chiunque si conosca un poco di lingua e di poesia italiana non può dubitare un momento che tutti quei puliti sonetti non sieno… un bel pasticcio di un cinquecentista”. Tra gli ultimi documenti riguardanti Chiavello ve ne è uno datato 7 giugno 1412, precedente ad una sua partenza per Venezia per mettersi agli ordini di Carlo Malatesta, dove risultano elencate le sue ultime volontà, tra le quali la nomina ad erede universale del nipote Tomaso e dei figli di costui. Il 10 di settembre 1412, il Senato veneto dette licenza a Carlo Malatesta di riparare a Rimini per curarsi da alcune ferite. Poco dopo, il 20 di settembre, venne ricostruito il conteggio delle competenze per il servizio militare effettuato dal capitano generale veneziano che stava per essere sostituito dal fratello Pandolfo. In questo documento (14) si parla anche del “dominus Clavello de Fabriano” e vi è un passo della massima importanza per cercare di capire quando ebbe inizio la sua assenza dal campo di battaglia per la nota infermità che poi lo condusse alla morte: “Nota quod lanzeas domini Clavelli de Fabriano debent poni in ratione prefato magnifico domino pro tempore quo servierunt et de predictis detrahi defectus lanzearum prefati domini et aliorum qui recesserunt de campo a die primo augusti citra“.
Questo “citra” indica chiaramente che Chiavello non fu in grado di combattere già prima del primo di agosto. Un autore che accenna a questi ultimi giorni del de Clavellis é Francesco Sansovino ripreso poi da Lukas Wadding nei suoi “Annales Minorum”. Entrambi parlano della sua morte avvenuta il 7 Agosto 1412, senza tuttavia specificarne le cause. Alcuni cronisti locali parlano al proposito di “gravissima infermità“, lo Scevolini di “mortal malattia“, mentre Francesco Graziosi aggiunse altre notizie: “Morì in Venezia come si disse e fu sepolto all’Eremita di Fabriano. Per la trasportazione di esso cadavere furono pagati scudi 50 di gabella “(15). Il primogenito di Nolfo Thomas/Tomaso dopo la morte di Chiavello assunse la gestione del potere all’interno della famiglia come risulta da documenti datati 1413 tra i quali una vendita di terreni ai Simonetti di Jesi. La sua data di nascita, se si da credito a quanto viene riportato nelle cronache cittadine sulla strage del 1435, va collocata intorno al 1358. Martino V confermò a Tomaso il vicariato su Fabriano e le altre terre amministrate come appare da alcuni documenti vaticani del 1419 dove costui vi viene indicato come Vicario Apostolico. Dopo qualche tempo la defezione dalla milizia di Chiavello, a causa del suo decesso, Tomaso viene richiesto dai Malatesta o da Venezia al suo posto, ma oppone un netto rifiuto adducendo come causa, essendo intorno ai cinquanta anni, una età non più adatta per guerreggiare.
Tomaso è un uomo di pace, attende al governo della città, riesce ad ottenere una grande considerazione personale e a mantenere il benessere raggiunto. Secondo quanto affermano i cronisti in quel tempo a Fabriano si contavano ventiquattro “cavalieri aurati”, altrettanti “dottori” e sette medici di gran fama, in più sul territorio si annoveravano otto compagnie di ventura (16). Nomi di condottieri locali come “Taliano ac Daniele de Fabriano” vengono accomunati a quello del più noto Bernardino della Carda e si rinverranno in una corrispondenza di Filippo Maria Visconti dell’ottobre 1425 (17). Tuttavia Tomaso nelle cronache locali viene indicato come uno che: “Nulla fece di notevole, fuori dell’ordine dato di gettare le basi de’ due castelli di Monte Orso e Bastia” (18), ma non appare del tutto giustificato giudicarlo in modo così affrettato. Tomaso va ricordato per uno Statuto Comunale giunto fino a noi con il nome di Statuto Signorile o Chiavellesco da lui voluto e promulgato nel 1415. Il testo di questo regolamento giunto a noi mancante di alcune pagine rappresenta l’atto formale di una Casata, dall’autorità oramai non più in discussione che aspira a consolidare definitivamente la propria egemonia sul territorio attraverso la promulgazione di un corpus juris, con il quale vuole dare testimonianza al popolo di intraprendere un percorso di legalità con apparente rinuncia alla legge del più forte.

Nel contempo i de Clavellis abbandonano del tutto uno stile di vita dai contorni militari divenuto sicuramente gravoso e sgradito per il presentarsi di altre prospettive decisamente più intriganti. E gli agi civili di una vita tranquilla, da poco assaporata, che contempla non più scontri e battaglie ma il piacere della sedentarietà cambiano completamente le abitudini di questo gruppo normanno e permettono anche di raggiungere un imprevisto e sorprendente consenso popolare. In questo statuto si rinvengono diversi riferimenti a pratiche venatorie e piscatorie che trovano un imprevisto riscontro in un documento amministrativo vaticano del 1419, relativo a una rata annuale di censo relativo a Serra S. Quirico e Domo dove si rinviene una informazione che fa riemergere l’antico trasporto per la caccia dei de Clavellis: “pro censu et nomine census… unum canem actum ad aucupia cum rete nobis vel successoribus nostris et Ecclesie predictis seu Camere Apostolice in Romana Curia” (19). Francesco Graziosi a proposito di questo vicariato conferma la richiesta di un medesimo tributo per gli anni 1422 e 1423. Quindi la Curia apostolica come censo per Serra San Quirico e il castello di Domo richiede per diversi anni ai de Clavellis il tributo di un cane, equipaggiato con una rete che evidentemente è funzionale, “actum ad aucupia“, all’attività venatoria. Il termine singolare di aucupium indica genericamente la caccia agli uccelli ma qui abbiamo un aucupia quindi un plurale che implicitamente indica il complesso delle cacce rivolte alle varie specie di uccelli terricoli che si possono intraprendere con un cane equipaggiato con una rete. Oltre a ciò, per maggiore chiarezza, il cane che veniva impiegato con il falcone, a beneficio del quale doveva far volare le prede nascoste fra la vegetazione veniva denominato “ab ausello“(20) per distinguerlo dai cani aucupatori.
Già nel suo “Ruralium Commodorum” del 1304 il giudice bolognese Pietro de Crescenzi descriveva un catulus aucupatorem che si arrestava alla vista degli uccelli permettendo l’uso della rete. Più o meno negli stessi anni Ambrogio Lorenzetti dipingeva per il Comune di Siena le sue allegorie sul buon governo. In quella dedicata alla vita in campagna si può notare una coppia di nobili che si reca a caccia accompagnata da un aiutante che reca in spalla una rete e porta forse vettovaglie mentre in basso, a fianco dei due cavalli, camminano due cani di tipo braccoide. Il bianco pezzato di nero, in primo piano, risulta la raffigurazione di un pointer ante litteram, tra l’altro con una ottima estetica. Un rinomato trattatista, Domenico Boccamazza, XVI secolo, che era il capocaccia di papa Leone X de’ Medici a proposito dei bracchi da utilizzare nella campagna romana ci fa pervenire questa sua opinione: “chi vuole copia di bracchi… in la Toscana e in lo ducato di Urbino se ne trovano assai e buoni…è ben vero che in la Marcha e in quel di Perugia e in la Città di Castello se ne trovano ancora delli buoni” (21). Anche il canonico veronese Giovanni Olina, autore di un famoso trattato sulla caccia agli uccelli, nel capitolo intitolato “Della caccia del bracco a rete” conferma le parole di Domenico Boccamazza: “Questa caccia è delle più utili e gustose che sia pigliandosi con essa camminando uccelli diversi di pregio … A questa vi sono necessarie due cose il cane e le reti… Il cane vien detto da molti Bracco da rete da altri can da fermo… In Italia si stimano quelli della Marca e del Regno di Napoli” (22).
All’interno dello Statuto del 1415, si trovavano alcuni articoli che normavano l’attività venatoria locale. Essendo noto che il tenere cani sciolti nelle campagne può nuocere alla fauna selvatica le norme specificavano che dal giorno della festa di San Bartolomeo, 24 agosto, alla fine della vendemmia non si potevano tenere liberi i cani da seguita al contrario di quelli da rete cioè i cani fermatori. Una norma successiva: “De non ocellando vel capciando certo tempore“, introduce un concetto di protezione per la fauna durante il periodo delle nidiate e dei coltivi con una particolare attenzione alle vigne e pone il divieto di uccellagione di ogni tipo dalle kalende, il primo giorno, di Maggio alle calende di Agosto mentre ogni caccia possibile è vietata nelle vigne dal primo di Giugno a metà ottobre. Quindi le norme erano improntate a un evoluto concetto di salvaguardia della fauna e di rispetto del territorio con un corretto utilizzo dei mezzi utili ad insidiare i selvatici. In “De non piscando ad calcinam” vi era la proibizione di catturare i pesci scaldando le acque con l’impiego della calcinam, ovverosia con la calce viva, e di non pescare con le nasse da Luglio ad Agosto. Il documento vaticano attesta un’attività e certifica l’esistenza di un’eccellenza locale che viene riconosciuta addirittura dalla Camera Apostolica. Quindi o i de Clavellis erano allevatori di una razza di cani locali dalle qualità particolari oppure avevano avuto l’occasione di acquistare altrove, per il loro piacere, alcuni ausiliari di una genealogia molto conosciuta ed oltremodo famosa per le proprie qualità venatorie.

Ritornando alle vicende locali si rinvengono nelle cronache umbre due notizie che diversi anni prima non sarebbero state possibili. Il 16 febbraio 1420 Andrea Fortebracci meglio conosciuto come Braccio da Montone è a Firenze per incontrare papa Martino V e fare atto di sottomissione. Viene considerato presente alla cerimonia oltre ai Berardo da Varano ed Averardo Nepis di Assisi anche Tomaso de Clavellis. Successivamente nel 1423, il 14 di febbraio, Braccio da Montone venne proclamato in Perugia Conestabile del Regno di Napoli e Principe di Capua per concessione di Alfonso V d’Aragona e di Giovanna II d’Angio. Anche qui sono presenti i signori di Camerino e quelli di Fabriano. E’ giusto anche ricordare che nel 1416 una figlia naturale di Braccio era andata sposa a Roberto di Pandolfo Malatesta e che nel dicembre 1420 costui, da pochissimo vedovo, impalmava Nicola sorella di Berardo da Varano in Santa Maria degli Angeli di Assisi presenti tutti i da Varano, gli Ottoni di Matelica ed anche i de Clavellis, dunque si era, oltre che tra alleati, anche tra parenti. Nel 1422 viene alla luce una disputa tra Fabriano e Rocca Contrada, in merito ai confini comuni, all’interno della quale Gandolfino dei Conti della Genga viene incaricato di rappresentare gli interessi del Comune di Fabriano. Inoltre nel 1429 Tomaso riceve in lascito testamentario una casa con aia, forno, vigna ed un piccola estensione di terreno in località Castelvecchio di Nebbiano.
Nei Registri Commemoriali di Venezia vi è il testo della pace di Ferrara del 26 aprile1433 con tutte le clausole tra i vari alleati dei principali contendenti e cioè Venezia, Firenze ed il Duca di Milano. In una carta successiva vengono dichiarati aderenti di Venezia: Amedeo duca di Savoia, Gian Jacopo marchese del Monferrato, Nicolò marchese d’Este, Gianfrancesco marchese di Mantova, Guidantonio conte di Urbino, Galeotto, Carlo, Sigismondo e Domenico Malatesta, Ostasio da Polenta signore di Ravenna, i castellani della valle Lagarina e Paride di Lodrone. A loro volta i Signori nominati rendevano noti i loro alleati e in un altro documento (23), vengono presentati quelli di Guidantonio conte di Montefeltro e duca di Urbino. In questa seconda fascia per importanza e peso politico abbiamo tra gli adherentes, “Thomaso de Chiavelli de Fabriano“. Questa seconda pace ferrarese sancisce una spartizione definitiva delle zone d’influenza tra i due contendenti penalizzando Filippo Maria Visconti che cerca di allargare al sud il conflitto aggredendo lo Stato della Chiesa con l’invio in quei luoghi di Francesco Sforza che occuperà la maggior parte della Marca Anconitana tra la fine del 1433 e l’inizio del 1434 in meno di un mese. In questo momento si affaccia prepotentemente alla ribalta della Marca un capitano di ventura dalla grande abilità politica e di superiore arte militare. Non appena Francesco Sforza iniziò a sottomettere con le armi i comuni marchigiani non lesinando violenze e saccheggi la maggior parte delle comunità locali si precipitarono a Montolmo oggi Corridonia, dove era collocato il quartiere generale sforzesco, a fare patti con il condottiero per non essere assalite.
I de Clavellis, come risulterebbe dalle Riformanze e dalla rilevata assenza di tali accordi nei carteggi della cancelleria sforzesca conservati nell’Archivio di Stato di Milano, dovettero offrire probabilmente non sottomissione ma collaborazione. Questo spiegherebbe la presenza di Guido di Tomaso de Clavellis tra i capitani sforzeschi. I de Clavellis governano una città ricca per i numerosi commerci esercitandone anche altri che esulano da quelli della borghesia cittadina come dimostra l’esistenza della Compagnia del Sale. Guido, figlio di Tomaso, milita nelle truppe sforzesche con milizie proprie e Tomaso cerca di mettersi al sicuro da eventi esterni destabilizzanti facendo di tutto per mantenere quella tranquillità politica che risultava necessaria ai commerci e sembra non avvertire i molti segnali che gli arrivano dagli avvenimenti marchigiani. Su tutti la faida familiare interna ai da Varano che, dopo aver dato il via alla rivolta popolare camerte del 1434, pone Camerino sotto la protezione dello Sforza e costringe i superstiti a rifugiarsi momentaneamente altrove. Tora, sorella di Guglielmina da Varano moglie di Chiavello Battista, il primogenito di Tomaso, si trasferisce a Fabriano con il nipote Giulio Cesare. Nello stesso tempo l’agire di Tomaso non sembra evidenziare molta fiducia nella lealtà dello Sforza, che impone anche un balzello per finanziare le sue milizie, in quanto si hanno notizie di contatti clavelleschi con Nicolo Fortebracci (24).

E si arrivò al 26 maggio 1435, giorno dell’Ascensione. L’anonimo estensore un manoscritto, probabile XVII secolo, narra della celebrazione della cerimonia religiosa di quel giorno e scrive “el dì dela Asinsione ale undici hore” e parla del rito officiato durante il primo mattino di una giornata infrasettimanale. Il 25 maggio 1435, in Italia centrale, il tramonto del sole avvenne intorno alle 19,30 e di conseguenza il giorno successivo, secondo gli usi del periodo, iniziò circa trenta minuti dopo con la fine dei vespri ed i rintocchi dell’Ave Maria. Se alle ore 20 del 25 maggio si aggiungono undici ore l’inizio della cerimonia del 26 maggio avvenne verso le ore 07. Questo può spiegare l’assenza delle donne de Clavellis circondate da numerosa prole, mentre i Magnifici Signori presenziavano per doveri istituzionali, e giustifica la presenza dei ragazzi più grandicelli che dovevano iniziare ad esercitare il ruolo signorile.
Oreste Marcoaldi sintetizza realisticamente le motivazioni del popolo che portarono alla strage: “Quale si fosse la cagione reale di cotanto sterminio… non puossi con certezza affermare; derivandola alcuni dalla gravezza delle imposte, dalla tirannia e dagli sregolati costumi di Battista… altri da misteriose trame ordite in Camerino, altri dalle suggestioni del duca Francesco Sforza per impadronirsi più agevolmente di Fabriano…altri per solo desiderio di novità, o meglio per private vendette” (25).
Tutte le categorie di popolazione che vivevano esclusivamente del proprio lavoro appaiono rappresentate in una sollevazione verso il potere propria del tessuto cittadino ma anche dei castelli del contado. Sintomo di un grande malessere di tutta la società fabrianese al quale si sommano le ambiziose mire territoriali dello Sforza che quasi certamente hanno un ruolo in questa ribellione cittadina. Le cronache forniscono il nome di coloro che dettero corpo alla strage nella chiesa di S.Venanzo. Sia il manoscritto, sia le altre fonti parlano di una ristretta lista di 17 individui di materiali esecutori della strage tratta da un elenco di 107/108 congiurati. Vennero trucidati il vecchio Tomaso con i figli Bulgaro, Galasso, Battista Chiavello ed i nipoti che non riuscirono a fuggire o nascondersi. Si salvarono i figli Nolfo che era rimasto nel castello di San Donato e Guido che era con i suoi uomini ad Assisi. Il tumulto si propagò velocemente per tutta la città. Vennero derubate le case signorili, la casa del podestà insieme a quelle dei suoi ufficiali e quella del comandante della Guardia. Uguale sorte subirono il Cassero grande (26), tra Porta Pisana e Porta Cervara ed il Cassero del Piano. Vennero dati alle fiamme cancelleria comunale, biblioteca ed archivi signorili e strappati alcuni bambini ancora in fasce dalle braccia delle balie. Vennero molestate le donne di casa de Clavellis ed una di loro, gettata durante i saccheggi da una finestra, viene abusata dopo morta. Il sabato successivo, il 28 di maggio, vennero rinvenuti da alcuni sacerdoti del Capitolo di san Venanzo tre fanciulli che avevano trovato rifugio sotto l’altare. Ma un altro religioso del Capitolo li denunciò ai congiurati che li condussero alle Case vecchie. Qui insieme a Gismondo e Gentile, figli di Battista, che erano stati strappati dalle braccia delle balie, si cercò di avvelenarli con l’arsenico per ben due volte per poi venire strangolati. Fuggirono verso l’esterno e si mischiarono con il popolo due figli di Guido: Tomaso, di 8 anni e Galasso di 6. Nascosti e passati di casa in casa rimasero in Fabriano fino al 13 di giugno quando furono calati da alcuni frati agostiniani e da altri individui dalle mura cittadine dietro la chiesa di S. Maria Nuova.

Poco dopo, il 20 di giugno, la chiesa di S. Venanzo che si era ritrovata sconsacrata per i delitti in essa commessi venne ribenedetta da Innocenzo, vescovo di Jesi. Il 22 di luglio vennero mandati ambasciatori a Francesco Sforza affinché accettasse sotto la sua protezione il comune di Fabriano. Il 27 di luglio i Priori a causa delle pressanti insistenze dei Montefeltro e del doge Francesco Foscari non poterono esimersi dal dare il permesso alle donne de Clavellis ed a Tora da Varano di andarsene dalla città insieme alle sette figlie di Battista ed al nipote Giulio Cesare. Maria di Jacobo di Sigillo la vedova di Galasso venne scortata alla volta della casa paterna da alcuni familiari. Guglielmina e le figlie furono accompagnate da uomini armati dei Montefeltro in Urbino. Tora scortata dagli armati di Nicolò Giunta, uomo dei Malatesta, si diresse verso il castello di Sassoferrato e da qui raggiunse un’altra sorella, Bianchina, moglie di Giovanni Manfredi signore di Faenza. A distanza di quasi tre mesi dai fatti di San Venanzo, il 13 agosto, Guido e Nolfo insieme a Francesco Piccinino tentarono inutilmente di rientrare in città ma i tempi erano cambiati e la fortuna aveva girato definitivamente le spalle. Alcuni giorni dopo, il 28 di agosto, lo Sforza pretese dai Priori una completa sottomissione. Venne deliberato dal Consiglio di Credenza il completo assoggettamento della comunità, in maniera conforme ai desideri del condottiero, ed a fine mese si mandarono 4 ambasciatori allo Sforza con il si della città. Dopo il fallito tentativo di Nolfo e Guido dell’agosto del 1435 non si rinvennero a breve notizie su vicende clavellesche mirate al ripristino della Signoria e le cronache locali che si dedicarono soprattutto alla condotta di Francesco Sforza e alle azioni della Comunità fabrianese mirate ad espropriare gli odiati de Clavellis, liquidati nei documenti con un ” ya Signori “, dal possesso di ogni proprietà a loro riconducibile sul territorio della Marca Anconetana.
Il 6 giugno 1437 vennero confermati a molti dei congiurati i privilegi concessi nella prima ora, estesi anche a figli, famiglie e discendenti. Di alcune di queste agevolazioni rimase anche una traccia in alcuni documenti del XVI secolo presenti nel Libro rosso del Comune di Fabriano (27). In questo periodo tutto il territorio doveva essere in grande subbuglio e Francesco Sforza prese provvedimenti rinforzando le truppe presenti sul territorio fabrianese e questa iniziativa gli verrà utile. Infatti tra le carte presenti nell’Archivio Visconteo di Milano si può leggere in una lettera di un tale Pietro de Plaza, datata 6 settembre 1437, indirizzata a Filippo Maria Visconti la notizia della cattura di Guido de Clavellis e della sua carcerazione a Rocca Contrada (28). Durante questa estate ebbe a verificarsi anche l’assalto al castello di Genga, che venne espugnato, ed i Conti Gandolfino di Contuccio, Pietro di Simone insieme a sua moglie ed Antonio di Gaspare di Contuccio vennero dal podestà di Fabriano condannati a morte tramite il taglio della testa, sentenza che fu data per eseguita dai cronisti (29). Considerata l’esecuzione dei della Genga che chiudeva i conti con la fazione clavellesca non è azzardato supporre che anche Guido de Clavellis abbia posto termine ai suoi giorni, ingloriosamente e segretamente, proprio nella ex fortezza di famiglia di Arcevia. Per completare l’opera e per chiudere ogni via di fuga a tutti coloro che non lesinavano sforzi per ottenere il ripristino della passata Signoria nell’agosto del 1438 lo Sforza ordinò di prendere Sassoferrato che venne assaltato, conquistato in poco tempo e poi abbandonato al saccheggio della soldataglia che commise ogni genere di violenza sulla popolazione non risparmiando donne e fanciulle, molte delle quali vennero tratte prigioniere a Fabriano (29).
Conclusasi la dominazione di Francesco Sforza sulla Marca Anconetana cercando anche di approfittare del malcontento diffuso in Fabriano verso l’amministrazione della Camera Apostolica uno dei due figli di Guido di Tomaso scampati alla strage, del quale si ignora il nome, nel 1458 appoggiandosi ai numerosi ed ancora presenti sostenitori locali degli ex Signori tentò insieme a Jacopo Piccinino di riprendere il potere, fomentando dei tumulti in città, e di ripristinare la Signoria dei de Clavellis. Anche questo ultimo tentativo clavellesco fallì per l’intervento del Legato apostolico Giovanni Castiglioni, Governatore della Marca Anconetana, che intervenne facendo arrestare i congiurati fabrianesi. Anche il papa, Calisto III, con un breve, espresse il suo rammarico per il “nequissimo conatu” ed auspicò che gli autori del medesimo venissero arrestati e puniti. Con la cattura e la carcerazione di Guido di Tomaso, citato in un ultimo documento non più con il temuto e glorioso “de Clavellis” ma con un più anonimo e sbrigativo “da Fabriano”, in maniera probabilmente ancora tragica e comunque ingloriosa si chiuse in pratica la vicenda locale e di potere di questa famiglia, proveniente dall’alta Normandia, che dopo essere stata privata della Signoria e di ogni bene all’interno della Terra di Fabriano non lasciò alcun rimpianto dietro di se. A Fabriano il popolo che non amò mai il Clan francese, avvezzo a comportarsi tra le mura comunali come un padrone violento, non ebbe pace fino a che non se ne liberò in maniera definitiva e negli anni a seguire l’eccidio del 1435, venne intenzionalmente cancellata e minimizzata ogni vestigia, ogni memoria visibile degli odiati ex Magnifici Signori che tuttavia molto avevano fatto per il benessere cittadino e per lo sviluppo dell’artigianato e dei commerci comunali. Alcuni de Clavellis, citati nelle cronache e nei documenti insieme ai molti ignorati dalle carte, che sopravvissero ai tumulti finali e che fecero in tempo a non essere investiti dall’odio dei concittadini fuggirono da Fabriano. Diversi si diressero al nord verso il Piemonte mettendosi al servizio dei Savoia, altri in Francia raggiungendo Parigi, altri ripararono al Sud e arrivarono in Sicilia sino a Palermo.
E nelle nuove residenze indosseranno pubblicamente l’appellativo di Clavelli o di Chiavelli, che tuttavia nei documenti rimarrà de Clavellis, con le Armi di famiglia, quando verranno mostrate, che si caricheranno di simboli nuovi quasi a voler esorcizzare un passato che si vuole dimenticare. In questa maniera venne interrotto quasi del tutto ogni collegamento tra le vicende iniziali del gruppo parentale dei de Clavellis e gli avvenimenti dei suoi discendenti rendendo difficoltoso riconoscerli e ricostruire i legami tra di loro. Lo storico locale Romualdo Sassi, parlandone, scrisse: “Nei secoli XVII e XVIII famiglie, specialmente dell’Italia settentrionale, che avevano il cognome Chiavelli compirono o fecero compiere indagini per allacciarsi alla stirpe dei signori di Fabriano… questa relazione di parentela non è lontana dalla possibilità”. Francesco Graziosi trascrisse nei suoi appunti sulla storia di Fabriano alcune lettere inviate, nella prima metà del seicento, dai Chiavelli di Ceva a personaggi fabrianesi e una lettera scritta da un Chiavello Chiavelli di Crema a Padre Bernardo Clavelli di Arpino nel Lazio. Con queste lettere si offrono e si danno notizie sugli spostamenti prima e dopo l’eccidio del 1435 e si cercano conferme per avere la convalida di una origine comune di cui si è perso l’iter documentale ma non la memoria familiare. Non destano quindi sorpresa le lettere che giungono a Fabriano nel XVII secolo alla famiglia Chiavellini, da parte di un militare al servizio dei Savoia tale Girolamo Chiavelli di Ceva, in Piemonte, e a monsignor Tomaso De’ Vecchi, nobile fabrianese, da parte di Nicolò Chiavelli fratello di Girolamo anche lui di Ceva con le quali si cercavano di riallacciare i rapporti con i parenti residenti a Fabriano.
Esplorando il contenuto delle lettere di Girolamo Chiavelli troviamo nominate queste località: Ceva, Pinerolo, Parigi, Palermo, Borgo San Donnino, oggi Fidenza. E da questi luoghi emergeranno riscontri e conferme. Già Camillo Lili nella sua “Istoria di Camerino” dava notizia della presenza di de Clavellis fabrianesi a Pinerolo (30). Per quello che viene riferito nelle lettere dei Chiavelli di Ceva appare evidente che gli scriventi si ritenevano a buon diritto discendenti dal ramo principale dei Signori di Fabriano in quanto certi di appartenere alla progenie di Galasso e Tommaso, i due fanciulli, figli di Guido, salvati dai monaci della chiesa di S. Maria Nuova oggi S. Agostino. Questa importante presenza clavellesca in Ceva, e in Piemonte in generale, è possibile farla risalire al 1342 quando i Visconti divennero, con Luchino, signori di Ceva. Numerose sono le figure clavellesche che emergono dai documenti di Ceva nei vari periodi. Nel 1793 un tale Carlo Antonio Chiavelli risulta essere il comandante militare della cittadella di Mondovì. Anche qui è possibile notare che come a Pinerolo, dove risultano documentati diversi de Clavellis che occupavano una porzione di un quartiere con una strada che prendeva il nome da loro, nel 1548 “in burgo superiori Ceve” esisteva una “ruata de Clavellis” (31) confermando l’ abitudine di questi personaggi a fare gruppo ed a vivere vicini. Gli stretti rapporti prima con i Visconti e poi con i Savoia offrono ampi motivi e spiegazioni a questa nutrita presenza in Piemonte dei de Clavellis che poi fornì un approdo sicuro, durante la fuga verso altri luoghi, agli ultimi discendenti di questa famiglia. Anche tra i Cavalieri di Malta, ordine religioso cavalleresco di cui facevano parte diversi fabrianesi, tra cui il Salimbene che cercò di cacciare Alberghetto II nel 1348, si rinviene il cognome Clavelli unito a dei Dragonet/Dragonetto tutte forme di Drago/Drogo un nome squisitamente normanno. Anche a Palermo vi è traccia di una famiglia “Chiavelli”.

Qui non sono presenti documenti nell’Archivio di Stato tuttavia esiste una borgata in periferia chiamata Belmonte Chiavelli. Per la maggioranza di costoro non è stato possibile trovare un collegamento con una fuga dai fatti del 1435 in quanto soprattutto manca al riguardo una qualche documentazione nei locali archivi storici inoltre nella maggior parte viene cancellata ogni memoria delle origini o del luogo di provenienza. Tuttavia rimangono inalterati i primitivi colori delle armi, quando sono presenti, e si aggiungono nuovi simboli e figure (7) che le renderanno completamente diverse. In quello esibito, nel XVII secolo, da un Chiavelli di Ceva, “D’argento con quattro tavolette quadre, cucite di azzurro caricate cadauna di un bisante d’oro. Ornamenti: Un angelo nascente. Motto: Servanda Diu” (32) si perde ogni ricordo del passato ma viene conservata inconsciamente, nei quattro “bisanti”, memoria della trascorsa attività mercantile della Casata. La fitta rete di parentele e di rapporti commerciali costruita negli anni, la grande reputazione militare conseguita attraverso le tante condotte e le ingenti ricchezze accumulate con la militia ed una intensa attività mercantile consentiranno ai superstiti fabrianesi di questo Clan normanno di temuti militari e di abili commercianti di individuare nuovi approdi grazie anche al grande numero di relazioni familiari, all’interno dell’Ambiente Signorile del proprio tempo, accortamente coltivate fin dal loro primo apparire.
Note:
1) Statuto comunale di fabriano (1415), Libro II, de maleficiis, n.LXXIII, pag 166
2) Augustin Theiner : “Codex diplomaticus dominii temporalis S.Sedis” – tomo II, doc. DXXVII,pag.537
3) Archivio storico comunale Fabriano: Pergamene Busta n.XII n..525
4) Francesco Graziosi: “Memorie istoriche della città di Fabriano”, vol. II, fg. n.170 del manoscritto in archivio Ramelli
5) Francesco Graziosi, “Memorie istoriche della Città di Fabriano”, vol. II, fg. n. 371 , manoscritto c.s.
6) Francesco Graziosi, “Memorie istoriche della Città di Fabriano”, vol. II, fg.174 e Romualdo Castrica, “Istoria e origine di Fabriano”, pag.9. Manoscritti c.s
7) Reg.vat.,315, fg.63 r.
8) A.Theiner: “Codex diplomaticus Dominii temporalis S.Sedis”, vol.III, pag.76
9)A. Fabretti: “Diario del Graziani”, pagg. 261-263
10) Giovanni Muzi: “Memorie civili di Città di Castello”, pag.194
11) Pietro Maria Amiani: “Memorie istoriche della Città di Fano”, pag.332 e Archivio Comunale di Fano: Codice. Malatestiano. n.20 fgg. 127/131
12) Marcos de Lisboa: “Delle croniche dei frati minori del serafico padre Francesco”- vol.3, pag.9
13) Opera muraria, sporgente, costruita sul lato esterno delle mura e munita di feritoie per osservare ed offendere il nemico, senza essere colpiti, anche con archi e balestre
14) Archivio di Stato di Venezia: ” Registri Commemoriali”- n.11, fg.86
15) Francesco Graziosi: “Memorie istoriche della città di Fabriano”, vol. II, fg. n.216 del manoscritto in archivio Ramelli
16) La milizia aurata, detta anche: Ordine dello Speron d’Oro, sorse come dignità cavalleresca nel XIV secolo e poteva essere conferita sia dai Pontefici che dagli Imperatori e, più tardi, anche da Marchesi, Duchi ed Università. Il titolo onorifico di “Dottore”, in epoca medievale, definiva i docenti più prestigiosi ed era riservato a chi insegnava oppure aveva una grande reputazione in medicina ,diritto e teologia.
17) Luigi Osio , “Documenti diplomatici tratti dagli Archivi milanesi”, vol.II, pag.158
18) Agostino Crocetti: “Storia di Fabriano”, pag.13
19) Archivio storico comunale di Fabriano, Pergamene Busta XII n.530
20) Ovverosia “da uccello” da: “La caccia nel Medioevo da fonti veronesi e venete”, pag.28
21) “Gli otto libri quali narreno de varij e diverse cose apertinenti alli cacciatori”, libro V
22) “Uccelliera”, pag. 51
23) Archivio di stato di Venezia: Libri Commemoriali – n.12, doc. 200 – c.119
24) Capitano antagonista di Francesco Sforza. Giovanni Benadducci: “Della Signoria di Francesco Sforza nella Marca e peculiarmente in Tolentino”, pag.62
25) Oreste Marcoaldi: “Guida e statistica della città di Fabriano”, pag.7
26) Il “cassero” era una fortificazione della cinta muraria che a volte coincideva con la porta di accesso all’abitato e che veniva utilizzato anche come deposito di armi
27) Doc. n. 285: anno 1546, Conferma della validità di alcune esenzioni di imposte. Doc. n.286: anno 1548, Ranuccio Farnese, cardinale legato della Marca, proroga di 10 anni l’esenzione fiscale ai soggetti del doc.285. Doc. 290: anno1549, Lo stesso legato pronuncia un nuovo arbitrato tra la comunità di Fabriano, che si oppone alle esenzioni, ed i beneficiari delle stesse.
28) Archivio storico di Milano: Carteggio Visconteo Sforzesco, Cartella n. 8 – doc. 107
29) Archivio Ramelli: Romualdo Castrica “Istoria e origine di Fabriano” pag.20 e Gaetano Moroni: “Dizionario di erudizione storica ecclesiastica”, vol.XXVIII , pag.245
30) Camillo Lili: “Dell’Historia di Camerino”, parte seconda, lib.V, pag.177
31) Giuseppe Barelli: ” Liber instrumentorum del Comune di Ceva”, pag.133
32) Antonio Manno: “Blasonario delle Famiglie Subalpine”, Consegnamento del 1613

Giovanni B. Ciappelloni da sempre interessato alla storia di Fabriano, con particolare attenzione al basso medioevo, ha già pubblicato “Chiavelli e de Clavellis”, “Ruggero, Chiavello ed altri Messeri” e “de Clavellis de Fabriano, dal XII al XV secolo”. Non è presente sui social network.