Flagellum Dei?

Massima espansione dell'impero unno, 451 circa
Massima espansione dell’impero unno, 451 circa

Flagellum Dei?
Il fuoco degli Unni

di Federico Moro, romanzo
Studio LT2 Edizioni, ISBN 978-88-88028-12-5

Abstract

Medio corso del fiume Tissa, primavera.

Orrendi sono anche i visi dei loro neonati, un’informe massa rotonda che sporge è la testa. Sotto la fronte due buie fessure sono gli occhi. La luce del giorno che sfiora la fronte penetra a stento sino alle pupille infossate, anche quando non siano chiuse. Nonostante le strette fessure oculari, riescono a scrutare larghi spazi e in luogo delle pupille due puntini penetranti guizzano nei pozzi profondi degli occhi. Le narici non devono sporgere oltre la superficie del viso, sicché vengono avvolte da un laccio perché stiano sotto la visiera dell’elmo. Così l’amore materno sfigura i figli in omaggio all’arte della guerra, perché la superficie del viso diventa più larga ove non sia interrotta da un naso che sporge.

Orso Galbaio sospira. La testa gli ronza. Fatica a rimanere concentrato, specie per l’odore. Un fetore nauseabondo di fango ed escrementi sgocciolante da ogni grumo di terra. E aggrappato alle tende. Gli pare davvero troppo chiamarle case, come definire città il villaggio in cui stanno entrando. Superato il crinale della collina, il sentiero penetra in un avallamento. Orso spalanca la bocca mentre gli esplode in faccia un’onda urlante di uomini, donne, bambini, vecchi, bestie. Al centro, in alto, la “reggia” per usare le parole della sua guida e garante, Aspar lo sdentato. Un caotico ammasso di legno e tela circondato da palizzata e torri verso cui tutto converge. Alla sua destra, un altro recinto, più piccolo e senza torri, per il secondo in importanza dopo il re.

Una nuova piaga è costituita da schiere sciamanti di sfrenata ferocia: terribili, avide di bottino, violente, e giudicate barbare persino tra i popoli barbari.

Le parole del poeta ed erudito di Lugdunum, Caio Apollinare Sidonio, gli rimbalzano tra le tempie. Ora le tocca con mano.

“Cosa porti, Aspar, schiavi romani per Attila?”

“Non arrivano dal re, guardali! Gli si schianta il cuore dalla paura!”

Centinaia di bocche vomitano insulti, rabbia, minacce. Qualcuno si avvicina, stringendoli in una specie di morsa. Aspar lo sdentato fa un segno con la testa, i talloni picchiano sui fianchi dei cavalli e il piccolo gruppo parte al galoppo attraversando il campo.

Pianura del fiume Tissa, uno dei maggiori affluenti dell’Ister che i Romani chiamano Danubio e per molti è semplicemente la frontiera, il limes. Non lontano da lì, il re unno Attila ha fissato il centro del proprio potere. Da dove governa gli sterminati territori ereditati o conquistati. Quando c’è. E in quel punto raduna l’esercito in vista della prossima campagna. Accade ogni anno, con regolarità e sempre a primavera, come in questa dell’anno 452 dell’era cristiana.

Difficile chiamare armata l’orda ammassata dalla prospettiva di bottino e dalla reputazione del capo nomade. A prima vista somiglia a un mare in tempesta. Odio. Ce n’è dovunque. Verso i sedentari che sbarrano il passo, contadini attaccati alle terre e cittadini al riparo delle mura di mattoni, soprattutto contro le regole scritte chiamate leggi e affidate a interpreti di professione. Garantiscono tutti in eguale misura, senza concessioni alla superiorità del valore.

O così dovrebbe essere, pensa Orso Galbaio procedendo alle spalle di Aspar lo sdentato, perché la realtà è diversa.

Le cose non sempre sono come appaiono. Saperlo talvolta aiuta.

Orso ingoia la saliva, l’ultima, la bocca è un mantice secco. E dire che l’hanno spedito lassù per la fama di coraggioso. Da Altino lungo la via Annia fino a Concordia e Aquileia. Nel capoluogo della provincia Venetia et Histria aveva incontrato l’arcivescovo Secondo con le ultime raccomandazioni e le informazioni più recenti provenienti dalla Pannonia e da più oltre, dal cuore stesso della pianura della Tissa. Per niente incoraggianti. Viaggiatori e spie continuavano a ripetere la stessa storia. Dopo essersi lanciato verso mezzogiorno, nel tentativo d’impadronirsi di Costantinopoli, e aver disceso la valle del Reno sino alle Gallie Attila punta sull’Italia.

L’estrema offerta dell’arcivescovo ingolfa la testa di Orso dal momento della partenza. Un patto condito da sontuoso donativo in oro e pietre preziose. Se gli unni rinunceranno all’Italia, verrà pagato un sostanzioso tributo annuale. Cos’altro può volere il re?

Il piccolo convoglio si era rimesso in marcia dallo spiazzo di fronte alla basilica di Aquileia. Uno strano edificio formato da tre aule rettangolari disposte a ferro di cavallo. Le due parallele, dai pavimenti incrostati di raffinati mosaici, per celebrare la liturgia e insegnare le Sacre Scritture. L’ultima, più modesta, a servire da raccordo. Per questo a terra avevano buttato un fondo di cacciopesto. Battistero e alcune stanze di servizio completavano il complesso. Alle spalle della basilica, i moli abbandonati dell’antico scalo fluviale sul Natisone. Un fiume largo una volta quarantotto metri su cui si allungavano trecentocinquanta metri di banchine attrezzate e giganteschi magazzini. Tutto abbandonato o quasi.

Quanta ricchezza doveva trovarsi qui perché una città agonizzante riesca a mettere insieme tanto oro! il pensiero di Orso.

La verità è più complessa. L’intera Venetia et Histria si sta mobilitando per evitare l’invasione unna. Lo stesso Orso Galbaio, in fondo, è partito da Altino, più a sud lungo la stessa via Annia ma sulle rive del Sile, non certo a mani vuote. Paura ovunque laggiù, tra le campagne centuriate dalle bonifiche e le città strette ai loro fiumi. Madre Terra si mostra indifferente come Padre Cielo.

“Abbiamo cacciato gli Dei ancestrali dagli altari per alzare al loro posto un crocefisso!” aveva borbottato sconsolato suo zio, Marco Partecipazio, nel salutarlo davanti alla porta Boreana di Altino, “non prevedo nulla di buono. Roma l’ha già pagata quaranta anni fa.”

Parole senza senso aveva pensato Orso montando a cavallo. Davanti alla basilica di Aquileia il primo dubbio. Qui sulla Tissa, solcando le orde unne, le parole di Marco acquistano sapore di profezia.

Rallentano la corsa dei cavalli. Si avvicinano alla “reggia” e non è davvero prudente arrivarci al galoppo. Non certo per gli ambasciatori di un popolo ritenuto ostile e sul punto di venire attaccato. Gli arcieri di guardia si alzano e incoccano le frecce. Quello che sembra il comandante avanza di qualche passo e alza il braccio ordinando di fermarsi. L’ufficiale riconosce Aspar e gli fa un cenno. Silenzio. Assoluto. Vuoto diventato pietra nel ventre di Orso Galbaio da Altino e dei suoi compagni di viaggio, Domenico Obelerio e Beato Anafesto. Tutti dello stesso quartiere, nati e cresciuti dalle parti della porta Boreana, figli di mercanti e mercanti loro stessi. Un’altra delle ragioni per cui sono stati scelti. Scrutano le frecce pronte a colpire.

“Grosse punte di ferro a tre ali,” borbotta Domenico, “lanciate da archi riflessi lunghi poco meno di un uomo, impossibile fermarle!”

“E non dimenticare le spade sottili” aggiunge Beato.

Il pensiero di entrambi incrocia la strana invenzione portata dai nomadi nel modo di stare in sella. Nessuno ci aveva pensato prima. Due strisce di robusta stoffa su cui appoggiare i piedi. Permettono di cavalcare stancando meno le gambe e offrono grande stabilità al momento di combattere.

Orso ride. Gli pare incredibile tanto interesse in materia di equipaggiamento e tecnica bellica. Cercano una spiegazione “scientifica” ai successi del nemico e riescono pure a trovarla. Si tratta dell’argomento che inzuppa di parole l’aria putrida di ogni villaggio e città lungo la via Annia.

Gli unni vincono perché possiedono armi migliori che imparano a maneggiare sin da piccoli, riflette Orso, così si dice, i romani invece perdono a causa del peggiore equipaggiamento e della superiore civiltà da cui deriva la considerazione della guerra quale male assoluto da cancellare dalla storia. E intanto si auto assolvono.

Discorsi ad avvitarsi. Il mercante di Altino, spedito sulla Tissa perchè senza paura, si guarda intorno. Aspar lo sdentato, guida e garante, continua a parlare a bassa voce con l’ufficiale al comando della guardia. Gli arcieri restano al loro posto, immobili e pronti. Orso gira la testa, si aspetta di incrociare visi larghi e schiacciati, corpi segnati dall’abitudine a restare in sella, invece…

Si chiama re, ma il sovrano deve di continuo rendere conto ai grandi di un’aristocrazia prodotta dal campo di battaglia. Quanto al regno, è una federazione di popoli in perenne fermento, genti di lingue, religioni, culture diverse. A tenerle insieme, necessità, profitto e successo in guerra.

Esistono davvero questi unni? si chiede Orso.

Lì intorno c’è un po’ di tutto. Goti, gepidi, eruli, sarmati, alani, romani e greci. Vestono tutti alla maniera dei nomadi, a tradirli sono i lineamenti.

“Cosa pensi?” gli chiede Domenico.

“Niente.”

Aspar sta tornando. Pare soddisfatto e una specie di sorriso gli straccia le labbra. Li raduna, poche frasi per ricordare come ci si comporta a corte. Massimo rispetto per il re, è ovvio, e per i nobili seduti alla sua tavola. Con un’avvertenza. Ci vuole misura, la deferenza deve essere graduata a seconda dell’importanza di ognuno. La stessa cosa con i doni.

“Gli uomini non sono uguali,” conclude Aspar, “nascono e muoiono, è vero, però il valore li rende diversi in vita. Gli Dei lo sanno.”

Vallo a spiegare a uno come Beato Anafesto, cristiano e lettore appassionato di San Paolo, l’apostolo delle genti. Proprio per questo convinto che neppure le buone opere sanciscano alcun merito agli occhi di Dio. Al massimo aiutano il fedele a perseverare. Osceno anche solo accennare a una gerarchia.

Domenico Obelerio, invece, non capisce l’insistenza dell’unno su un dettaglio del genere. Aspar gli risponde che lui non è solo la loro guida fino alla pianura della Tissa, ma il garante di fronte ai suoi capi. Certo l’ha fatto per denaro. E quanto! Lo sa, non cambia nulla però. Non vuole trovarsi nei guai come successo con un’ambasceria degli altri romani, quelli di Costantinopoli. Si erano presentati con un apparato formidabile per impressionare gli ospiti. Prima stupidaggine. I nomadi non si lasciano incantare da messe in scena da circo. Dopo, avevano distribuito i doni senza tener conto dell’importanza di ognuno. Seconda idiozia. Per calmare i suoi era dovuto intervenire Attila in persona e al re non piaceva doverlo fare. Meglio cautelarsi.

Il comandante della guardia ordina agli uomini di abbassare le armi. Gli archi tornano nelle faretre, i soldati si ributtano a terra accanto ai fuochi. La folla si disperde, se i romani entrano nella reggia non c’è nulla da aspettarsi. Per il momento.

“Andiamo” mormora Aspar. Lo seguono.

Il cielo è arato da nuvole spumose, potrebbe essere perfino bello, punteggiato com’è dai giochi iridescenti dei raggi del sole nell’azzurro lavato dalla pioggia. Dalla terra, odore di marcio. La pianura… steppa senza fine ondulata qua e là in corrispondenza di un lago o di un fiume. Come in quel punto dove scorre la Tissa, il maggiore degli affluenti dell’Ister/Danubio. Un taglio netto nelle viscere della terra al di là del limes, a lungo parallelo al grande fratello in cui alla fine si getta. Tra di essi, ormai da ottanta anni, il cuore del regno unno. Un cuneo piantato nel mezzo dei domini romani. Verso occidente e meridione quattro province di nome Pannonia. Prima, Secunda, Valeria e Savia. A settentrione e a oriente il vuoto dell’Eurasia, madre di ogni invasore. Goti, vandali, eruli, sciri, rugi, all’inizio fuggivano dinnanzi alla furia dei signori del nulla, gli unni, poi hanno preferito sottomettersi. Meglio dividere con gli invincibili nomadi vittorie e bottino che vagare alla ricerca di una nuova patria. Ragione per cui sono tanto numerosi là, nella pianura della Tissa.

Tutte cose note a Orso Galbaio da Altino e ormai inutili. Smontano da cavallo e salgono su una specie di piattaforma di legno per attraversare la palizzata, da questo momento sono nell’Ordu. I loro passi rimbombano sulle assi unite in modo approssimativo. Costruire non è davvero l’arte dei nomadi. I romani appoggiano i piedi con cautela, la paura di cadere risale le gambe con raffiche di crampi. Chi può dire quale reazione scatenerebbe vederli lunghi distesi? L’ingresso, finalmente. Una donna li accoglie sulla soglia. Non molto alta, snella nella tunica stretta in vita secondo la moda greca di una classicità scomparsa da tempo, braccia scoperte, i capelli raccolti all’indietro e un diadema a lamine d’oro sul cranio deformato artificialmente.

“Chi sono?” chiede ad Aspar

“Gli ambasciatori delle città italiche.”

La donna annuisce.

Orso la sfiora. Profuma di gelsomino e muschio, fiori e terra. Unna, pensa subito Orso e subito dopo, di alto lignaggio visto come la salutano tutti. E forse qualcosa di più. Gli piacerebbe saperlo.

Aspar se ne accorge e per evitare problemi gli bisbiglia in fretta qualche informazione. L’Ordu rappresenta il quartiere generale d’inverno del re. In legno. Al suo interno, sale pubbliche di riunione, ricevimento e banchetto, ma anche gli appartamenti privati. Compresa la parte destinata alle donne. I sovrani unni ne hanno una schiera, la poligamia è la norma, Attila poi è famoso per l’appetito sessuale. Ad amministrare l’Ordu, una di loro di nome Kreka. Lo stesso della regina che ha dato tre figli al suo signore, ma una persona diversa, parecchio più giovane e… lascia il concetto a prendere forma nella mente del mercante di Altino, ma non aggiunge altro.

Kreka dal cranio deformato e vestita alla greca si ripete Orso ed entra.

Attraversato un lungo corridoio, il gruppo guidato da Aspar si ferma sulla soglia di una grande stanza. Attila è già lì, al centro, seduto su un divano. Un secondo divano è alle sue spalle, giusto davanti a un grande letto con lenzuola di lino e copriletto sagomato. Più o meno come preparano i letti nuziali i romani d’Occidente e d’Oriente.

Un solo ambiente per ricevere, dormire e, probabilmente, mangiare! osserva Domenico Obelerio.

Anche Beato Anafesto e Orso si stupiscono. Pur costruito in legno, circondato da palizzata e torri e con pretesa di reggia, l’Ordu resta una tenda.

A semicerchio lungo le pareti una serie di scranni. Un domestico si avvicina ai romani offrendo da bere. Orso e Domenico si guardano preoccupati. Aspar sibila di ingoiare tutto subito.

Paura. Fibrillazione di ogni maledetto muscolo. Tre mercanti sbattuti da Altino negli spazi infiniti della Pannonia per trattare con un capo barbaro. E non uno qualsiasi, bensì Attila, il flagellum Dei. Accettare? E cosa succederà… chi potrebbe essere sicuro del liquido buttato giù a forza lungo la gola ispessita dal panico. Rifiutare? Respingere il gesto simbolo dell’ospitalità nomade significa dichiararsi nemico.

Orso afferra la coppa e con un cenno di deferenza verso il re ne prende una lunga sorsata. Dopo di lui, Domenico e Beato, Aspar è l’ultimo. A questo punto vengono accompagnati ai loro posti.

Entrano i nobili. Onegesio, il più in vista, si siede alla destra di Attila, seguito da due dei figli del re. Il terzo si accomoda invece sul divano del padre, ma a un’estremità e senza osare guardarlo. In segno di rispetto. Berico, altro grande dignitario, si sistema alla sinistra del sovrano, la fila su cui si trovano anche i romani.

“Cerimoniale semplice, ma preciso,” sussurra Orso a Domenico, “testimonia l’importanza della forma presso qualunque popolo.”

L’amico annuisce, poi aggiunge. “Non è una delle ragioni per cui esiste la guerra? Imporre e vedersi riconosciuta dal vinto la propria superiorità. Il modo diventa sostanza.”

Nessuno ha ancora pronunciato una parola. Non appena gli scranni sono occupati, un domestico porta al re una coppa di legno colma di vino. Attila la prende e la alza in direzione di Onegesio. Questi scatta in piedi e ci rimane finché il sovrano non ha bevuto. L’operazione viene ripetuta per ciascuno dei presenti. Soltanto alla fine comincia il pranzo.

L’ora è quella giusta anche se lunghezza del viaggio e necessità di cambiarsi avrebbero consigliato ai romani di rinviarlo al giorno dopo. Non sono ospiti di riguardo, però, ma una missione di secondaria importanza e in fondo il re ha accettato di incontrarli per pura curiosità. Parola di Aspar. Forse ad Attila un po’ piacciono tre mercanti a digiuno di diplomazia e guerra, tanto sciocchi o audaci da chiedergli udienza. Cosa sperano, di comprarne il favore con una manciata d’oro? Davvero non sanno o non immaginano quale sia il suo obbiettivo nel venire in Italia?

I domestici entrano portando dei tavoli che vengono sistemati davanti agli scranni. Sui loro ripiani giganteschi vassoi d’argento grondanti cibo. Nessuno degli ospiti dovrà alzarsi per prendere da mangiare.

Il re, invece, si limita ad assaggiare della carne servita su un modesto tagliere di legno.

Come la coppa del suo vino, osserva Orso, mentre a noi ha riservato calici d’oro e d’argento.

“Hai notato i vestiti?” gli bisbiglia all’orecchio Domenico.

Risponde di sì. Puliti, ma semplici, pensa, non indossa niente di costoso. Non sembra nemmeno un capo barbaro… e nemmeno un ricco romano!

Al termine della prima portata si ripete il rito delle coppe. Stavolta sono i commensali a rivolgersi ad Attila. Quando il giro è completo, arriva una seconda serie di vassoi. Il banchetto è abbondante eppure si svolge con una certa velocità. Sembra ci sia fretta di concluderlo. Ancora la cerimonia del bere, quindi i domestici sgombrano i tavoli.

“Scommetto ci toccano cantastorie e buffoni!” ridacchia Domenico. A voce bassa.

Orso lo fulmina con lo sguardo. Stupido pensa.

Ha ragione. I romani sono costretti ad apprezzare canzoni e scherzi unni. Si commuovono e ridono in ritardo rispetto agli altri, facendo comunque del loro meglio.

“Le campagne vittoriose e il valore guerriero del re nella sua lingua!” osserva Beato quando è sicuro di non essere ascoltato se non dagli amici.

Campagna vittoriose, borbotta a se stesso Orso, già, ma quali?

La pericolosa idea gli s’insinua nella mente. Tarlo al lavoro tra gli incroci della memoria, strappa Attila l’unno dal divano dove il figlio non osa guardarlo e ne sfarina la figura, rivestita di abiti semplici, lungo i faticosi sentieri dei Balcani e delle Gallie. Di sicuro, assieme al fratello maggiore Bleda, ha sconfitto i romani d’Oriente in campo aperto. Ha quindi ucciso Bleda e domato le rivolte di alcune tribù unne che non volevano accettarlo quale unico sovrano. Quando l’ira della Terra ha spianato la cintura di mattoni e pietra della Nuova Roma sul Bosforo, s’è precipitato ad attaccarla. È tornato indietro. Sconfitto. L’anno dopo è sceso lungo il Danubio e il Reno per impadronirsi dell’Occidente. Ai Campi Catalaunici il fortunato genio di Aezio, magister militum dell’imperatore della vera Roma sul Tevere, gli è stato fatale. La pianura della Tissa e l’Ordu l’hanno accolto, cercando di curarne le ferite.

“Avanti, tocca a voi!” intima all’improvviso Aspar, lo sdentato.

Orso si scuote. Silenzio nella sala. Un muro di sale, bianco e granuloso su cui le parole rischiano di franare. I tre mercanti di Altino sono in piedi.

“Grande sovrano,” inizia Orso, “noi abbiamo intrapreso questo viaggio perché…” si blocca.

Curiosità, attenzione, sconcerto. Gli ambasciatori non dovrebbero avere la lingua svelta? E parlare magari quella del luogo? Orso, invece, usa il latino della Venetia marittima, infarcito di parole arcaiche e suoni dalle radici antiche. E in più si perde nel labirinto delle sue stesse frasi.

Non ci sono donne nella sala. Una di loro, però, ascolta e guarda dal riparo di una grossa tenda. Di lana, al pari dei tappeti stesi sul pavimento che ne assorbono i passi. Scalzi.

Brucia la gola di Orso. Forse non doveva mangiare e bere. Tardi per pentirsene. Sorriso ironico sul volto del re. I figli del sovrano e la cerchia dei nobili è pronta a esplodere in risate di scherno.

No, no, no si ripete.

Sudore freddo a bagnare fronte, collo, mani. Riesce a muovere solo gli occhi. Incrocia il terrore di Domenico e Beato. Nessuno sa cosa fare. Era stato tutto preparato con cura, ogni singola sillaba pesata e collocata al punto giusto. Sin dalla partenza da Altino e poi nelle varie tappe di quel viaggio. Concordia, Aquileia, Forum Iulii, Aemona, Andautonia… quante volte hanno preparato il momento in cui avrebbero affrontato la bestia della steppe? Con le uniche armi che sanno maneggiare con sicura perizia, intelligenza e coraggio. Un meccanismo oliato alla perfezione.

Ancora uno spostamento del punto focale. Il piano visuale è confuso, incerti i contorni, opalescenti le luci. Una grossa tenda. Di lana. Le pupille di Orso inquadrano un paio di piedi nudi. Risalgono. Riconoscono il vestito alla moda greca di tanto tempo fa, i capelli neri e lucidi, il diadema appoggiato sul cranio deformato.

Kreka sussurra il mercante nato dalle parti della porta Boreana. E come in una tempesta estiva, il fulmine.

Federico Moro

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, ha come principali campi d’interesse la narrativa e il lato strategico di eventi e decisioni politiche.
È membro della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato i romanzi Donne all’Asta (2002), La Voce della Dea (2003), L’Oro e l’Argento (2005), La Custode dei Segreti (2005), Il Fulmine e il Ciclamoro (2007), Flagellum Dei? (2008), la raccolta di racconti Storie a pelo d’acqua (2004), il saggio Venezia in Guerra (2005 e 2007 seconda edizione illustrata), poesie e racconti in nove diverse antologie.

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