
Forme di devozione in movimento: crocifissi animati a Firenze nel Tardo Medioevo di Roberto Del Monte
Lo studio delle fonti e delle opere è oggi sempre più attento alla cultura materiale e alle tecniche seriali, con particolare interesse ai problemi connessi con la devozione popolare medievale. Dalle sacrestie e dalle parrocchie riemergono sempre più spesso crocifissi mobili nati in epoca tardogotica e collegati ai riti drammatici del triduo pasquale, simulacri legati da secoli nell’alveo della spiritualità popolare. Superstiti di una produzione molto più vasta, i crocifissi mobili che si sono conservati sono opere polimateriche preziose, frutto della specializzazione nelle botteghe di tecniche seriali (calchi, pastiglia, Pressbrokat) che raggiunsero un efficace mimetismo (spesso attraverso l’utilizzo di vesti vere e crini per rendere barba e capelli) con lo scopo di un sempre più intenso coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Forse uno degli esempi più noti è il crocefisso di Döbeln, degli inizi del XVI secolo, dotato di braccia mobili, collo fissato con due occhielli di ferro che potevano cadere nel momento della morte, capelli, barba in crine scuro di cavallo e un espediente tecnico che permetteva di far versare alla statua “sangue misto ad acqua” nel momento in cui il centurione avesse colpito con la sua lancia il costato ligneo del crocifisso.
Si sono poi moltiplicate le indagini su queste tematiche, con l’analisi di fonti scritte e degli esemplari sopravvissuti, anche se non si può dire che sia stato raggiunto un livello approfondito di ricerca. Ancora meno noti e studiati dalla critica sarebbero i crocifissi “animati”, cioè quelli dotati di altre parti del corpo mobili, come il collo, la lingua o gli occhi, espedienti di scenotecnica che spesso venivano impiegati in modo improprio da imbroglioni che fingevano falsi miracoli ed essudazioni misteriose. Uno degli studi più importanti a livello europeo è quello di Kamil Kopania, “Animated Sculptures of the Crucified Christ”, che offre anche una interessante panoramica degli studi sul tema aggiornata al 2010; ma si è occupata dell’argomento anche l’italiana Teresa Perusini nel saggio “I crocifissi mobili per la liturgia drammatica e i drammi liturgici del triduo pasquale”, contenuto nel volume “In hoc signo. Il tesoro delle croci” a cura di Paolo Goi, Milano 2006.
I crocifissi viventi si inscrivono nella liturgia della Settimana Santa, e focalizzano visivamente alcuni fondamentali tropi passionistici. La Adoratio, Depositio et Elevatio crucis della liturgia drammatica medioevale, che adottavano proprio crocifissi mobili, si diffusero in Europa nei secoli X e XI nell’ambito dell’adattamento delle chiese occidentali al modello della tradizione gerosolimitana, mentre in seguito vennero sviluppati per la maggior parte tropi passionistici (per la funzione di queste immagini, essenziale lo studio di Elizabeth Parker, The Descent from the Cross: Its Relation to the Extra-Liturgical “Depositio”Drama, 1978). Fu la liturgia drammatizzata di Gerusalemme ad influenzare i riti della Settimana Santa come la lavanda dei piedi, la processione delle palme, la deposizione dalla croce, la visita al sepolcro. I crocifissi con le braccia mobili nacquero ad hoc per questi riti, permettendo un sempre maggiore naturalismo delle rappresentazioni, anche in linea con lo sviluppo dei gruppi lignei delle deposizioni, figurativamente in linea con il Liber de Passione Domini attribuito a San Bernardo.
Dalla fine del XIII secolo i gruppi corali lignei della deposizione vengono progressivamente affiancati dai crocifissi dolorosi di provenienza nordica, legati in particolar modo al misticismo degli ordini mendicanti, che faceva del simulacro un medium per la meditazione sulla passione. Contemporaneamente si sviluppò il tipo del crocifisso con braccia mobili che poteva essere schiodato dalla croce, posto sul cataletto e chiuso nel sepolcro. Se il Deposto aveva anche il bacino mobile allora poteva essere dedicato al planctus Mariae, in quanto tale rito prevedeva che la scultura dovesse giacere accasciata tra le braccia della donna che nella rappresentazione interpretava la Madonna. I principali committenti di queste sculture mobili furono, soprattutto a partire dal XV secolo, le confraternite, per esempio dei Disciplinati che si servivano dei manufatti soprattutto per la teatralizzazione dei drammi della Settimana Santa.
In Italia vi è la più alta concentrazione di sculture sopravvissute: ben 64, di cui la maggior parte è concentrata in Toscana (38), di cui una buona parte nelle aree limitrofe a Firenze.
A Firenze ne sono attestate 11.
Per i crocifissi dell’area fiorentina, è essenziale lo studio di Margrit Lisner (Holzkruzifixe in Florenz und in der Toskana von der Zeit um 1300 bis zum frühen Cinquecento, 1970), che stila una lista di 23 opere a Firenze e in Toscana, dal XIV al XVII secolo, certificando la popolarità di simili manufatti in area toscana. Di questi 11 crocifissi, solo uno è anteriore alla metà del XIV (quello proveniente dal Battistero di San Giovanni ed oggi al Museo dell’Opera del Duomo, datato al terzo decennio del ‘300): la maggior parte dei crocifissi sopravvissuti (anche di quelli nelle aree limitrofe) si attesta tra il 1490 e il 1530. È quindi ragionevole ipotizzare che il picco di popolarità delle sculture animate si collochi agli inizi del XVI secolo.
Il crocifisso mobile più antico, quello del Battistero di San Giovanni, è oggi attribuito a Giovanni di Balduccio. Un documento datato al 28 agosto 1333 già ne parla, e lo descrive sull’altare a destra della porta del Paradiso (Frey, Le vite del Vasari, 1911, p. 337). In seguito le braccia sono state fissate nella posizione del Cristo della Deposizione, forse per ragioni di spazio. Immagine molto venerata (come sottolinea il Del Migliore, nel 1684, e poi ancora dal Richa, nel 1757), si credeva fosse stata scolpita dall’olmo nato miracolosamente al passaggio del feretro di San Zanobi. Secondo il Frey l’opera sarebbe di Andrea Pisano; il Francovich ( L’origine e la diffusione del crocefisso gotico doloroso, 1938, p. 260 e sgg.), che lo inserisce giustamente nel tipo iconografico tedesco dello Schmerzensmann, ma indipendente rispetto ai suggerimenti nordici, lo attribuisce ad un seguace di Giovanni Pisano, sulla base del confronto con quello al Museo dell’Opera di Siena. L’attribuzione più recente è quella della Lisner, che vede sia ricordi dell’opera di Giovanni Pisano che elementi stilistici di Andrea Pisano, e lo colloca nel corpus delle opere di Giovanni di Balduccio, a partire soprattutto dall’osservazione stilistica di elementi come la bocca o il perizoma.
Sebbene i crocifissi mobili siano spesso prodotti della devozione popolare, a Firenze vi è un gran numero di opere di alta qualità, realizzate da artisti di rilievo. Tra tutte, la scultura in Santa Croce, opera di Donatello, rappresenta uno dei lavori più importanti del suo lascito artistico, un’opera significativa anche in termini di sviluppo della scultura fiorentina nella prima metà del XV secolo. Anche il crocifisso uscito dalla bottega di Andrea di Ugolino Pisano (e attualmente a Berlino), e quello in Santa Trinita collegato alla bottega di Giuliano da Sangallo, sono caratterizzati da eccezionale qualità formale.
Il Crocifisso di Santa Croce è interessante anche come esempio della relazione tra manufatto e spazio devozionale. Non possediamo fonti che ci dicano quale fosse la sua esatta collocazione originaria all’interno della chiesa. Paoletti, che ha studiato i metodi di esposizione dei crocifissi mobili in Italia tra XV e XVI secolo, considera il riferimento al Crocifisso contenuto nel Libro di Antonio Billi (1530), e che ci dice che fosse “a meza la chiesa”. Vasari ci informa invece della presenza dell’affresco con un miracolo di San Francesco, opera di Taddeo Gaddi, che si trovava sull’iconostasi (rood screen) “sopra il Crocifisso di Donatello”, implicando quindi che questo fosse nel mezzo della navata come descritto da Billi, ed inoltre che fosse collocato a terra, ad altezza occhi dello spettatore (J. T. Paoletti, Wooden Sculpture in Italy as Sacral Presence, 1992, p. 88). Il Crocifisso di Donatello è dunque un esempio chiaro degli obiettivi che questi manufatti si prefiggevano di raggiungere, ossia suscitare la pietà e l’emozione del fedele, e permettere il contatto diretto, quasi fisico, con il Cristo.
Il Crocifisso di Santa Croce presenta una costruzione simile alla maggior parte dei manufatti che stiamo trattando: una differenza interessante è che non è possibile distendere completamente le braccia del Cristo lungo il corpo. Una volta abbassate le braccia, il risultato ricorda una Imago Pietatis. È quindi improbabile che la scultura fosse usata in una scena di Depositio: più verosimilmente, essa avrebbe potuto illustrare il particolare momento tra la Discesa dalla Croce e la Sepoltura, quando la Vergine e San Giovanni sostengono le mani di Cristo mentre Nicodemo e Giuseppe di Arimatea rimuovono i chiodi: dunque, quello che viene rappresentato, attraverso una forte connessione con la Imago Pietatis, è un momento teatralmente rilevante, non necessariamente connesso soltanto con la Settimana Santa.

A Firenze abbiamo almeno due crocifissi prodotti nei primissimi anni del ‘500 da Baccio da Montelupo, e stilisticamente dipendenti dal Crocifisso di San Marco del 1496. Lisner segnala 9 opere che possono essere collegate a lui o alla sua bottega, sebbene non rappresentino un gruppo stilisticamente omogeneo (John Turner è più cauto, poiché secondo lui alcuni lavori non hanno affinità con lo stile dell’artista, e segnala solo quelle – 4, tra cui le due di Firenze – che trovano riscontro documentario certo).
Nel 1501 Baccio realizza, per la Compagnia di Gesù Pellegrino (confraternita attiva a Santa Maria Novella) un crocifisso animato. Lisner, osservando le dimensioni (94 cm di altezza), ipotizza che non fosse usato solo durante la Settimana Santa, ma anche durante tutto l’anno liturgico come crocifisso processionale, in quanto né troppo largo né troppo pesante. Tale ipotesi trova conforto nei documenti della Compagnia, che parlano di un crocifisso “daportarfuorj” (Protocollo di Testamenti e Contratti, 1404-1504, c. 18v, Archivio di Stato, Firenze). Dallo statuto e dagli inventari della Compagnia emerge anche che il crocifisso trovasse sede stabile sull’altare della Compagnia stessa all’interno dell’oratorio di Santa Maria Novella. Questo crocifisso è insomma prova della natura multifunzionale delle sculture animate. Scrive Turner: « The identification of Baccio’s Crucifix as an altar decoration and as a portable cult object, along with its moveable arms, suggests a grounding of the sculpture in various time-honored, ritualistic traditions: it was certainly a kind of standard behind which the Confraternity members marched in their public displays of penitence; and probably also the central focus of re-enactments of the death and resurrection of their symbolic leader » (Turner, The sculpture of Baccio da Montelupo, 1997, p. 68).
Sicuramente a motivare il minor utilizzo di questi manufatti si pone la perdita della funzione originaria, dovuta anche al cambiamento dei riti (in particolare dopo il Concilio di Trento), al modificarsi del gusto, e all’incuria. La stessa gerarchia ecclesiastica finì per temere l’eccessivo naturalismo e le pratiche devozionali legate a tali simulacri, che potevano suscitare casi di idolatria o essere usati impropriamente da chierici senza scrupoli.
Il rito della deposizione di Cristo dalla croce mediante l’uso di un crocifisso snodabile è praticato ancora oggi in diversi luoghi della Sardegna, dell’Umbria, della Sicilia, dove, rinnovata di anno in anno la sera del Venerdì Santo, rivive una tradizione antica di secoli, fortemente radicata nella sensibilità del popolo. In Sardegna durante la processione della Deposizione (S’iscravamentu cioè lo schiodamento) si adottano attualmente crocifissi mobili.
La tipologia del crocefisso mobile è il risultato di un’operazione di stile che, anche per l’accentuazione dei caratteri patetici, non trova paragoni in nessun’altra espressione artistica di quel tempo e che difficilmente si ritroverà anche più avanti, se non nel fiorire dei gruppi scultorei in terracotta, gesso e cartapesta delle stazioni dei sacri Monti, soprattutto nell’Italia del Nord e in Umbria. Basti ricordare in proposito le sette statue in terracotta policroma realizzate da Niccolò dell’Arca per la Pietà nella Chiesa di santa Maria della Vita a Bologna, che raggiungono effetti di drammaticità tesa fino allo spasimo, o il Sacro Monte di Varallo, dove Gaudenzio Ferrari ha eseguito le scene della Natività, dell’Adorazione dei Magi e della Crocefissione, ispirandosi proprio alle sacre rappresentazioni del teatro medioevale.

Roberto Del Monte è storico dell’arte medievale, formatosi all’Università di Firenze sotto l’ala di Guido Tigler, è impegnato nella ricerca sul Medioevo Europeo. Da un anno lavora per NUME, portando avanti numerosi progetti volti all’approfondimento della conoscenza del patrimonio medievale europeo.
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