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di Alberto Biscotto.
Quando Nicola Pisano poco dopo l’anno 1250 lavorava alla decorazione del pulpito del Battistero di Pisa non sapeva di produrre il primo frutto di quella straordinaria stagione della cultura italiana ed europea che è universalmente nota con il nome di Rinascimento. Quel lavoro, così importante per la storia dell’arte, gli era stato commissionato dal vescovo di Pisa, Federico Visconti, ammiratore di Francesco d’Assisi che aveva personalmente conosciuto in gioventù. A quell’impresa collaboravano assieme al maestro alcuni giovani destinati a seguirne le orme e ad ampliarne la risonanza tra cui Tino di Camaino e Arnolfo di Cambio.
A quest’ultimo, attivo in vari cantieri in Italia nella seconda metà del XIII secolo, è stata di recente dedicata una mostra a Firenze. La splendida esposizione, oltre a raccogliere gran parte delle opere di Arnolfo ancora disponibili e laddove possibile a riunirle in modo coerente all’interno di uno stesso progetto architettonico – per tutte valga la ricostruzione della facciata di S. Maria del Fiore – dedicava grande spazio all’influenza dello scultore di Colle val d’Elsa su Giotto.
C’è dunque, evidente, un saldo legame tra il lavoro di Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio e l’arte di Giotto. La pittura di Giotto non è più un timido esempio di arte Rinascimentale, ma ne è già un primo compimento. Il primo grande ciclo di affreschi in cui si evidenzia con sicurezza la novità introdotta dalla sua arte è quello che rappresenta la vita di S. Francesco nella basilica di Assisi.
Quel ciclo gli fu commissionato in vista della costruzione del santuario che, probabilmente a dispetto delle aspettative del grande Santo, voleva celebrarne la gloria a pochi anni dalla morte.
Ancora una volta i primi vagiti di questa straordinaria stagione della cultura universale si incrociano con i seguaci di S. Francesco.
Il Rinascimento fu un rivolgimento di così ampia portata che cercarne la radice rischia di essere vano e fuorviante, tuttavia individuare una serie di eventi che hanno reso possibile un’evoluzione così poco immaginabile a priori aiuta dare ragione di ciò che si è verificato.
Francesco sembra essere la figura tra tutte più lontana dall’evoluzione culturale e artistica del suo tempo. Quando era “nel secolo” aveva probabilmente una cultura sufficiente per l’attività di mercatura, conosceva un latino piuttosto grossolano e poteva esprimersi e cantare in francese. Dopo la “conversio” nei confronti del sapere aveva una certa diffidenza (che è stata spesso equivocata) perché riteneva potesse distogliere chi ne era in possesso dalla vera umiltà.
Ipotizzarne un’importanza tra le sorgenti del Rinascimento può sembrare pertanto un azzardo.
Ma Francesco è stato una rivoluzione assoluta e tale rivoluzione non può mai essere sottovalutata. E’ stato rivoluzione sul piano della teologia, su quello pastorale e su quello liturgico. E’ stato anche, e forse per questo, rivoluzione culturale.
Andiamo per gradi. Francesco non ha studiato la Scrittura come hanno fatto i Dottori della Chiesa, la sua era e rimarrà per tutta la sua vita una fede istintiva, umana, immediata anche se di una profondità sconcertante. I suoi biografi citeranno addirittura episodi ai limiti dell’ortodossia come quello famosissimo della “sortes apostolorum” quando da penitente laico e solitario si trovò a essere il “maestro” di due compagni, di cui uno, Pietro Cattani, prete.
Per comprendere il suo ruolo nello sbocciare del Rinascimento dobbiamo seguire il suo percorso di fede che si sviluppa attorno al concetto della misericordia di Dio, che si manifesta nell’Incarnazione. Di questo Dio incarnato Francesco coglie l’umanità, dolce al momento della nascita, pur nella sua misera ambientazione, e tragica nella agonia della Passione. In quella sofferenza coglie il dolore fisico dell’Uomo e il concomitante dolore del Creatore di fronte alla ribellione della Sua creatura. E Dio interviene, facendosi carico di ogni colpa, di quel peccato che è esito della ribellione, sconosciuto e, addirittura, vilipeso dall’oggetto della salvezza.
Cristo, questo Dio di Redenzione, di donazione gratuita ripagata con la più ignominiosa delle morti, è l’espressione estrema della misericordia. Misericordia che si manifesta attraverso la carità, l’amore verso l’altro, anche verso un prossimo colpevole e indegno, misericordia che si estrinseca solo nell’umiltà. Solo nell’assenza di ogni potere c’è vera umiltà ed è solo attraverso l’umiltà, il sentirsi sempre e comunque al servizio di ogni altro, nel non avere diritti, ma doveri, che si può esprimere la vera misericordia. Il Dio fatto Uomo ha scelto questa via. L’Onnipotente si fa umile, si fa ultimo, per la redenzione dell’uomo.
E l’umiltà, l’assenza di ogni potere si realizza in primo luogo attraverso la povertà, la povertà di Cristo, quella povertà totale e assoluta che Francesco non si stancherà mai di raccomandare a se stesso e ai suoi discepoli, quella povertà che diviene segno distintivo di quest’uomo (il poverello di Assisi) – e che grandi problemi di carattere dottrinale e organizzativo avrebbe dovuto provocare alla fraternitas da lì in poi – che non è, come spesso appare, vuoto ascetismo penitenziale, ma epifania della misericordia dell’Uomo verso l’uomo, vera sequela christi.
Dio-uomo dunque, Dio di amore per l’uomo. Uomo al centro dell’universo del Santo così come al centro di quella filosofia ancora lontana nel tempo che sarà l’umanesimo.
Umanità, creatura, corporeità, non antitesi dello Spirito, ma espressione di misericordia. Non decadimento dalla purezza originaria, né dominio dei demoni e di insane passioni, ma Creazione.
E’ opportuno notare che proprio Francesco, che chiamava frate asino il suo corpo, interverrà ordinando ai suoi discepoli troppo zelanti di non mortificare la carne con strumenti di sofferenza quali il cilicio, perché quel corpo, che pure non può essere soddisfatto nei suoi desideri impuri, deve essere considerato creatura.
Ecco dunque il corpo divenire luogo privilegiato dell’umana santificazione. Dio si incarna, Dio diviene attraverso il corpo umano di Maria carne e sangue umani, pur rimanendo vero Dio si fa vero uomo. Di quel Cristo, Francesco, ha l’intuizione della straordinaria umanità. Anche se nell’iconografia del secolo XII già iniziava una rappresentazione più drammatica della crocifissione, il Cristo veniva vissuto più come vincitore della morte, che non come l’uomo torturato dal supplizio della croce, in preda agli spasmi dell’agonia, quale lo vede appunto il Santo. Egli ne avverte inoltre l’emarginazione nell’umiliazione della nascita in una stalla. Proprio rispondendo a questo sentimento concreto della realtà terrena di Cristo dà importanza e rilievo alla festa del Natale e, superando di gran lunga sul piano della liturgia l’importanza che aveva agli inizi del Duecento, fu indotto a “reinventare” il presepe. Straordinaria tenerezza del corpo infantile di Gesù, tra le braccia umane di Maria madre amorosa e attenta, vegliato da Giuseppe, il carpentiere, sempre disponibile alle esigenze di quella famiglia.
Al pessimismo culturale che rappresentava il terreno di crescita di molte eresie Francesco contrappone una concezione dell’esistenza che può essere gioiosa se se ne coglie il valore divino che la pervade. La misericordia di Dio è fonte di letizia.
Tutta la realtà creaturale è il risultato di una straordinaria, onnipotente bontà, bontà che nella creazione dell’universo si rivela anche come bellezza.
L’uomo creato a partire dal fango, destinato a ritornare polvere non è solo sulla terra, alla stessa Volontà creatrice appartengono tutte le altre creature.
La vita di Francesco è stata il paradigma dell’umiltà, egli si poneva sempre al servizio, facendo di se stesso uno strumento; non al fondo della scala sociale, ma a livello delle altre delle creature, manifesterà la sua carità anche verso i lupi e gli uccelli.
E in una consonanza perfetta tra vita vissuta e parola scritta comporrà il Cantico di Frate Sole, noto anche, e forse più, con il titolo di Cantico delle Creature.
Questa meravigliosa lirica, che inizia glorificando Dio e stabilendone l’inevitabile distanza dall’uomo, prosegue con la lode del Creatore con tutto ciò che Egli ha creato e specialmente il sole “lo quale è iorno et allumini noi per lui”. E’ nominato per primo per la sua bellezza e perché “ de te, Altissimo, porta significazione”. La lode poi va a Dio per la luna e le stelle, per fratello vento e per i fenomeni metereologici che consentono all’uomo, con il suo lavoro, di procurarsi il sostentamento, per l’acqua, umile , preziosa e pura, e per il fuoco. Ultima fra le realtà del creato la terra di cui esalta la bellezza e il fascino:”la quale ne sostenta et governa et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba”.
L’epoca di Francesco è quella in cui la natura è vista come un nemico da vincere. E’ parca di frutti, pur coltivata produce assai poco; richiede un lavoro durissimo, che ,con pochi strumenti disponibili, è fatto di fatiche massacranti. E’ fonte e sede di pericoli, dalle fiere alle intemperie, e ricca di suggestioni terribili il cui eco è ancora presente nelle nostre fiabe, l’orco, la strega e il lupo stanno sempre nel bosco.
Inoltre, e forse anche a causa di ciò, le dottrine eretiche che si andavano diffondendo e che non erano lontane dalla religiosità popolare (altrimenti non sarebbe stato facile spiegarne se non il successo, almeno il fascino esercitato su ampie fasce della popolazione) ritenevano la materia espressione del male. Una delle posizioni di base del catarismo stabiliva che il creatore del mondo fisico o, almeno, il suo ordinatore fosse Satana, la salvezza era possibile solo a chi avesse avuto in orrore tutto ciò che è materiale.
Contro queste idee Francesco, senza ricorrere a discussioni teologiche, estranee al suo temperamento e alla sua cultura, fa valere due aspetti del mondo, entrambi con capacità di persuasione intuitiva, tenendo presenti mentalità che non erano dialetticamente preparate, e cioè l’onnipotenza di Dio stesso e la positività della creazione, in quanto opera di bellezza, di armonia, che di per se convince anche come bontà.
L’universo quindi, per il Santo, non può essere male, non è l’inferno, in cui sono imprigionati gli angeli, ma, invece, è l’opera, il risultato di una straordinaria, onnipotente bontà che nella creazione si rivela anche come bellezza. Del resto proprio lo stretto legame tra bontà e bellezza contribuisce a dare il senso globale di opposizione alla cultura allora diffusa e alle dottrine eretiche (e in particolare al catarismo): uno degli argomenti più forti degli eretici contro la creazione divina del mondo era precisamente la forza distruttrice della natura, che veniva presentata dunque come male, evidenziandone la bruttezza in particolare in ciò che era deforme (pensiamo agli storpi o ai lebbrosi). L’universo che mostra la capacità creatrice di bellezza, che è Dio, ne esclude il male.
Dunque eccoci di fronte a una straordinaria intuizione di Francesco della quale si sono impadroniti, pur senza comprenderla nel suo significato reale e spirituale, schiere di romantici, ecologisti e da ultimo i sostenitori di misticismi panteistici, trascurando di inserirla nel contesto nella quale si è formata, ed estrapolandone solamente gli aspetti esteriori e superficiali.
Universo realtà creaturale, manifestazione della misericordia di Dio, dell’onnipotenza creatrice, bellezza quale esito di quella bontà soprannaturale, corporeità, umanità della creatura concepita a immagine e somiglianza di Dio, non carcere dello spirito, ma espressione concreta e tangibile di una realtà in cui il Figlio di Dio, si è immerso fino a nascere da Donna.
L’arte medioevale aveva rappresentato fino ad allora sia il Creatore che l’uomo. Li aveva raffigurati per quello che rappresentavano, in modo “simbolico” senza un reale interesse per la riproduzione del reale. L’arte fino ad allora non aveva gli strumenti per riprodurre esattamente l’aspetto fisico dell’uomo, cioè le tre dimensioni che occupava il suo corpo, ma se anche li avesse avuti se ne sarebbe disinteressata. Ne sono prove il fatto che spesso nell’arte romanica i personaggi appartenenti a gruppi sono quasi sempre la stessa immagine ripetuta, e che anche le immagini che abbiamo di re o imperatori non sono rassomiglianti all’originale, nemmeno quando prodotte da chi aveva avuto modo di vedere i soggetti che poi aveva dipinto o scolpito. Inoltre l’ambiente in cui i personaggi si muovevano era raffigurato raramente e solo se utile a illustrare il senso dell’opera; se sfogliamo un qualsiasi manuale di storia dell’arte non vediamo un paesaggio, nemmeno alle spalle del soggetto, fino ai capitoli che si occupano del rinascimento.
Ma, dicevamo, la cultura dell’epoca non vedeva nulla di interessante nella natura, aspra e nemica, avara e temibile se non espressione del male.
Con Francesco tutto cambia, ma Francesco non era un artista da imitare, e nemmeno un “magister” destinato a formare schiere di intellettuali. Era, e voleva essere, l’ultimo tra gli umili.
Può quindi la sua idea, la sua particolare visione della cose aver avuto una tale portata da essere considerata una delle radici del rinascimento e quindi della cultura moderna? Può quell’uomo consacrato solo a Dio aver lasciato un’impronta così importante in una cultura che sarà da allora considerata laica?
Può e, anche se ancora oggi si trovano rari accenni alla questione, il merito di averla indagata per primo va proprio a uno storico dell’arte che sul finire del XIX secolo stava studiando il rinascimento italiano, e non certo la figura e l’opera di frate Francesco.
Ciononostante egli colse una cesura precisa alla fine del Duecento e arrivò a ipotizzare che tale svolta potesse spiegarsi con la presenza e l’influsso di una personalità dalla forza eccezionale, con una forza spirituale nuova e straordinaria che poteva essere di un solo individuo, ma che fosse riuscita a trovare una cassa di risonanza tale da poter modificare rapidamente il sentire comune.
La novità di Francesco si diffuse con una rapidità straordinaria attraverso l’ordine minoritico la cui espansione lascia esterrefatti. Fu tanto vasta non solo numericamente e geograficamente, ma anche, e specialmente, tale da coinvolgere (e in parte sconvolgere) tutte la classi sociali.
Schiere di semplici la diffusero con l’esempio a livello del popolo, e schiere di dotti ne impregnarono la cultura, attraverso l’insegnamento, anche nelle università. Erano francescani anche maestri del pensiero come Bonaventura da Bagnoregio che fu generale dell’ordine dal 1257 e cioè trent’anni dopo la morte del fondatore. Pochi anni prima, pur avendo ottenuto la “licenza docendi” non potè avere la cattedra di teologia (che ottenne sempre nel 1257) a causa di una polemica scoppiata tra maestri secolari e gli ordini mendicanti. Della vicenda dovettero interessarsi il Re di Francia e il Papa. A tal punto era giunta la loro penetrazione anche nell’ambiente universitario che, viste le origini del movimento, sembrava il più lontano dalle aspirazioni dell’Assisate.
Questa diffusione capillare e rapidissima, estesa geograficamente in tutto il continente e socialmente a tutti i livelli non poteva non lasciare un segno potente sulla cultura dell’epoca.
Non stupisce affatto che sensibilità straordinarie come quelle di artisti del calibro di Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio e Giotto ne siano state colpite e ne abbiano informato la loro opera. Paradossalmente l’elemento dell’arte rinascimentale che più rivela il rapporto con Francesco è proprio quello in cui la manualistica tradizionale vedeva un netto rifiuto della mistica cristiana: l’importanza attribuita al corpo.
Il lavoro di Thode non fu particolarmente apprezzato dalla critica a lui contemporanea che si orientava in modo assai diverso, forse anche a causa della concomitante uscita del lavoro del Sabatier che per anni indirizzò la critica nei confronti della figura di S. Francesco e che solo in tempi recenti è stata messa in discussione dagli storici. Non rimase però lettera morta se è vero che vent’anni più tardi anche il Goetz, in un suo famoso articolo, segnalò il merito del Francescanesimo nella nuova visione del mondo naturale che si impose dalla fine del XIII° secolo.
Nonostante questo ancora oggi questa idea stenta ad affermarsi e se ne trovano accenni sporadici nel lavoro di alcuni storici dell’arte e di studiosi di Francesco e del Francescanesimo, quasi ci fosse pudore, in un mondo così laico, ad attribuire ad un uomo di Dio un ruolo determinante nello sviluppo artistico.
A dispetto di questa “pregiudiziale”, che è palpabile anche per altri grandi Santi implicati nell’evoluzione della Storia, ci sembra che gli elementi illustrati, il succedersi delle idee e degli uomini che ne furono interpreti consentano di affermare che il Giullare di Dio, con la sua fede, il suo esempio e i suoi scritti ha avuto un impatto determinante e imprevedibile sull’intera cultura del suo tempo, e anche sulla storia dell’arte di cui involontariamente contribuì ad aprire una nuova stagione.