Gengiz Khan. La macchina da guerra delle steppe

Giuseppe Cossuto, Gengiz Khan, La macchina da guerra delle steppe, Roma, Edizioni Chillemi, 2009 (“Eroica”, 3), pp. 96, 14,5x20,5 cm
Giuseppe Cossuto, Gengiz Khan, La macchina da guerra delle steppe, Roma, Edizioni Chillemi, 2009 (“Eroica”, 3), pp. 96, 14,5×20,5 cm

Recensione di Giacomo E. Carretto.

Alcuni personaggi storici sono talmente conosciuti da perdere ogni reale consistenza. Tutti, o quasi, ne conoscono il nome e quindi tutti ritengono di conoscerne anche la vera storia. Uno di questi personaggi è Gengiz Khan, i cui eserciti, anzi le “orde” mongole, hanno sempre ispirato sentimenti di terrore nel nostro mondo d’antichi sedentari. Magari abbiamo visto solo The Conqueror, vecchio film del 1956 con un John Wayne dagli improbabili baffetti cinesi e con una Susan Hayward, bellezza troppo morbidamente hollywoodiana per interpretare una di quelle durissime donne mongole, capaci di guidare i guerrieri.

Quello di Cossuto è, dunque, un libro in grado di rovesciare le nostre idee preconcette, avviandoci verso una reale conoscenza, a cominciare dalla parola d’origine turco-mongola orda (ossia ordu), che da noi si è caricata di significati negativi, mentre in realtà vuol dire solo “esercito”. E se fra quei significati ad essa attribuiti ci sono quelli di barbaria e violenza senza regole, niente di più sbagliato. Gli eserciti mongoli sono, nel medioevo, quelli più ordinati e organizzati, dotati di armi frutto di una complessa tecnologia, e guidati con tecniche raffinate: nel nostro Occidente bisognerà attendere a lungo per avere qualcosa di simile.

Ma appartenente a una cultura diversa dalla nostra, Gengiz Khan, insieme ai suoi guerrieri, ci è parso del tutto estraneo, infernale, evocazione improvvisa di Gog e Magog, sorto dalle ombre del Tartaro, e Tartari verranno chiamati i suoi uomini. In realtà i Tatari erano una popolazione turca che partecipava, con altre genti, alle azioni degli eserciti mongoli. Che poi moltissimi fossero i Turchi nelle armate mongole, e che questi, una volta islamizzati, abbiano dominato a lungo la Russia, avviandola su una strada particolare, è un’altra storia dalle complesse implicazioni. Certo i Mongoli, con le loro conquiste dalla Cina all’Asia Centrale, avevano inglobato nel loro mondo molteplici culture che diedero, ognuna, un contributo ai loro straordinari successi militari.

Ma vediamo, dall’inizio, qualcuno dei pregiudizi che il libro di Cossuto contribuisce a cancellare. Possiamo, così, ricordare che i nomadi non derivano dai cacciatori, ma dagli agricoltori. Le buone terre coltivabili dell’Eurasia erano limitate, così la crescita della popolazione spingeva una parte di questa verso zone marginali, e infine molti sceglievano la vita del pastore, poi del nomade. L’allevamento appariva più sicuro dell’agricoltura, e al suo interno potevano svilupparsi molteplici specializzazioni per molteplici attività artigianali.

La “macchina da guerra delle steppe” era basata sulla tradizione mongola, perfezionata dagli apporti delle popolazioni sottomesse a tributo. Composta essenzialmente da cavalleria, leggera e pesante, avevano nell’arco composito l’arma assoluta di quei tempi. Impiegato da abilissimi e veloci cavalieri con una trazione di 80 kg e una portata utile fino a 300 metri, poteva passare qualunque corazza e aveva una rapidità di tiro impressionante. Gengis Khan, inoltre, aveva frammentato la fedeltà tribale, formando nuove unità militari del tutto fedeli ai propri capi, mobilissime che potevano, così, adattarsi ad ogni situazione tecnico-tattica.

L’Occidente avrebbe potuto opporgli solo il longbow, l’arco lungo inglese, fatto di un solo pezzo di legno del tasso mediterraneo, ma era molto più ingombrante e diveniva realmente risolutivo solo se impiegato dietro ripari. Gli uomini del longbow batterono i Francesi a Crecy, Poitiers, Azincourt, ma alla fine gli Inglesi, proprio per quella staticità dei loro arcieri, vennero scacciati dal territorio francese.

La tattica costante dei popoli delle steppe, che sarà poi applicata dagli Ottomani nella loro avanzata verso Vienna e Venezia, era quella della finta fuga che, a volte, si protraeva per giorni. Seguiva l’attacco improvviso con le frecce, da lontano, poi con la cavalleria pesante. A questa tecnica si aggiungevano raffinatissimi metodi di guerra psicologica, con spie e agenti provocatori che precedevano gli eserciti. Veniva perfino impiegato una cortina di fumo puzzolente, nel quale apparivano insegne terrorizzanti con code nere di cavallo e ossa incrociate, in una creazione degna di un buon regista di un odierno film del terrore. E possiamo aggiungere anche le macchine da guerra, per l’assalto alle mura delle città, con fanterie dei popoli sottomessi, e i primi cannoni, derivanti dalla cultura cinese.

Ma c’è un immenso contrasto fra il carattere di Gengiz Khan, pio e ragionevole, il cui compito divino è mantenere il mondo in equilibrio, garantendone la pace, e i metodi durissimi con i quali il suo impero veniva guidato, per riscuotere i tributi delle popolazioni sottomesse e per assicurare quella “pace mongola” nella quale, si diceva, una vergine su un carico d’oro poteva viaggiare tranquillamente. Un solo Dio in cielo e un solo Imperatore in terra, e ognuno, in questo nuovo mondo, poteva restare fedele al proprio Dio in una incredibile tolleranza religiosa, ma per ottenere questa unità le distruzioni furono immense: l’Iran orientale, centro culturale d’Eurasia, non doveva più riprendersi, mentre le città venivano distrutte come macchie nella creazione.

Strumento di questa politica era il terribile cavaliere mongolo dall’aspetto pauroso, che cresce e vive a cavallo, che non si lava perché l’acqua è sacra e non deve essere inquinata. Era tanto il terrore da lui destato, che ne bastava uno solo per ottenere la resa di una numerosa carovana di mercanti. Pure grazie a questi terribili guerrieri giungono fino a noi occidentali innovazioni fondamentali come l’arte della stampa, ed entriamo in contatto con la civiltà dell’estremo oriente.

Ma certo il nostro Occidente venne salvato solo dalla morte del Khan Ogoday, che obbligò i Mongoli a tornare in Oriente, quando le avanguardie della loro ala sinistra, dopo aver distrutto Kiev, battuto Ungheresi Polacchi e Tedeschi, erano giunte in vista dell’Adriatico, vicino Spalato. Ma quale sarebbe stato il destino dell’Europa occidentale, una volta conquistata? I Mongoli, dopo la vittoria militare, avrebbero stabilito la loro sovranità imponendo un tributo, i sovrani avrebbero dovuto sottomettersi ritualmente e periodicamente davanti al khan o ai suoi rappresentanti, seguitando ad applicare le proprie leggi, adorando le proprie divinità. Lo stesso Gengiz Khan era stato estremamente interessato alle religioni diverse dal suo tradizionale sciamanesimo, e nel suo impero cristianesimo nestoriano, islam, buddhismo, manicheismo potevano liberamente prosperare. La vita straordinaria di Gengiz Khan ci viene tracciata, nel libro Cossuto, e seguendola sembra realmente guidata da un potere superiore, dal kut d’origine divina, tanto i suoi successi appaiono incredibili.

Fra gli Stati successori di quello mongolo, sarà l’Impero Ottomano, anch’esso unione di molteplici tradizioni, a mantenere alcune caratteristiche dell’Impero di Gengiz Khan. E sarà tanto il rispetto per questa tradizione, cha a lungo i gengiskhanidi Khan di Crimea vennero considerati come gli unici a poter prendere il posto degli imperatori ottomani, se questi non avessero avuto una discendenza maschile. Inoltre nella tughra, la tradizionale firma dei Sultani ottomani, che pur con nomi diversi riprendeva costantemente una stessa forma, questo sacro titolo di khan veniva attribuito solo al nome del padre del Sultano, non a quello regnante, e questo fino al XVIII secolo, con Mahmud I (sultano dal 1730 al 1754), quando ormai i discendenti di Gengiz Khan perdevano il loro potere reale.

In definitiva questo libro di Cossuto è utile, specie in questo tempo in cui si parla di guerra fra civiltà, anche per rendersi conto della pluralità di culture, della pluralità di punti di vista che potrebbero contribuire a dare forma a un nuovo mondo, se da ognuna fossimo in grado di trarre gli elementi vitali.

Giuseppe Cossuto

Giuseppe Cossuto nasce a Cassino nel 1966. Si Laurea in Islamistica (summa cum laude) nel 1993 presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo: “I musulmani di Romania tra sopravvivenza e riscatto”. Dal 1990 compie numerosi viaggi di formazione, studio e ricerca prolungato nell’Est Europeo e in varie aree turcofone, lavorando anche come dirigente nella cooperazione internazionale e come corrispondente per note agenzie giornalistiche. Nel 1994 è vincitore di un corso di specializzazione nella ricerca storica presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia: “Le popolazioni di origine turca nei secoli IX-XIII sul territorio dell’attuale Romania”. Nel 2002, dopo aver studiato negli archivi d’Istanbul e di Bucarest, riceve il Ph.D presso “La Sapienza” di Roma discutendo una tesi dal titolo: “La vicenda umana e politica di Kantemir Mirza e gli statuti giuridici di Moldavia e Valacchia e Crimea (Stati vassalli ottomani). E’ membro dell’Istituto per l’Oriente “C.A: Nallino” di Roma, del Centro di Studi Ottomani di Bucarest-Istanbul, ed è socio fondatore dell’Associazione culturale per la promozione degli studi orientalistici “Oxus” (Roma).

Ha all’attivo numerose pubblicazioni scientifiche e di divulgazione. Si occupa di relazioni tra il “mondo della steppa” e l’Europa, dell’identità e della storia delle minoranze dell’Est Europa.

Ha pubblicato tre monografie:
Storia dei Turchi di Dobrugia, Istanbul, Isis, (2001);
Giovan Battista de Burgo. Viaggio di Cinque anni in Asia, Africa & Europa del Turco – Milano 1689, Istanbul, Isis (2003);
Genghis Khan. La macchina da guerra delle steppe, Roma, 2009.

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