
di Gladis Alicia Pereyra.
Nell’estate del 1170 i veneziani assalirono a Costantinopoli il quartiere genovese, di recente costruzione. Le case furono distrutte e merci e beni personali diventarono bottino degli attaccanti. A scatenare la furia veneziana era stata la crisobolla firmata da Manuele I Comneno mediante la quale si concedeva ai genovesi una serie di privilegi commerciali e l’autorizzazione a edificare un intero quartiere per la loro comunità. Finiva così il monopolio commerciale veneziano che durava dal 1162, data in cui pisani e genovesi erano stati cacciati dai territori dell’impero dallo stesso Manuele. Il basileus, richiamando i genovesi, cercava di mettere un freno all’aggressività dimostrata dai veneziani negli affari che danneggiava i mercanti bizantini creando risentimenti e xenofobia tra i greci. Un’altra ragione, non meno importante, andava ricercata nella determinazione con cui Genova osteggiava la politica imperiale di Federico I Barbarossa in Italia. Federico e Manuele si contendevano non solo il possesso delle città italiane del nord, ma qualcosa di più intangibile e più importante: l’eredità dell’Impero Romano. La Superba con la sua flotta era per il basileus un alleato non disdegnabile nel Tirreno. Già nel 1155 Manuele aveva accordato ai genovesi, proprio in virtù della loro ostilità nei confronti del Barbarossa e a condizione di non allearsi con i nemici di Bisanzio, gli stessi privilegi di cui godevano i pisani da più di quarant’anni: una riduzione al 4% del Comercliun, tassa dovuta per tutte le mercanzie che entravano nell’impero, l’assegnazione di un quartiere a Costantinopoli con una chiesa, fondachi per le mercanzie e un molo dove attraccare le navi, oltre a privilegi e onorificenze ai loro consoli. Non ci fu una crisobolla come per i pisani nel 1111 e gli accordi non furono applicati che nel 1160 quando i genovesi presero possesso del quartiere loro assegnato, situato al di fuori delle mura di Costantinopoli, a Galata sulla riva opposta del Corno d’Oro. Come era da aspettarsi, la rivalità tra Pisa e Genova si trasferì nelle loro comunità di oltremare e due anni più tardi, nel 1162 i pisani assalirono il nuovo quartiere dei rivali. I genovesi respinsero il primo attacco, ma due giorni più tardi l’aggressione si ripeté: questa volta a fianco dei pisani ci furono i veneziani e molti greci. Il quartiere fu distrutto e un uomo ucciso. Il grave attentato all’ordine pubblico provocò l’ira di Manuele I che, senza distinguere tra assaliti e assalitori, cacciò dall’impero gli uni e gli altri. I veneziani, la cui partecipazione all’attacco era stata marginale, furono scagionati e l’espulsione dei concorrenti offrì loro la possibilità di stabilire un vero monopolio del commercio occidentale con Bisanzio. Quel monopolio veniva spezzato dal ritorno dei temuti concorrenti ai quali di li a poco si sarebbero aggiunti i pisani, a loro volta perdonati.
Mai come negli ultimi anni del 1160 gli affari in Costantinopoli dei mercanti veneziani erano stati più floridi; allontanati pisani e genovesi non avevano rivali, i mercanti locali non possedevano né l’intraprendenza, né l’audacia e neppure i mezzi con cui opporsi alla loro galoppante espansione. Nel frattempo i rapporti tra Venezia e Bisanzio erano sul punto di spezzarsi e, tuttavia, questo non sembrava arrecare danno alle attività commerciali della colonia veneziana insediata a Costantinopoli.
Nel 1167, dopo anni di collaborazione con Manuele I, il doge Vitale II Michiele aveva bruscamente cambiato politica. Venezia aveva sostenuto a fianco di Bisanzio una guerra durata cinque anni contro Stefano III re di Ungheria, il quale minacciava d’impadronirsi della costa Dalmata. Un altro pericolo che aveva indotto il doge a mantenere salda l’alleanza con Costantinopoli era rappresentato dalle pretese avanzate da Federico I Barbarossa sulle città italiane del Nord. Nel 1165 Venezia si era impegnata a ottenere la sottomissione di tutte le città settentrionali all’Impero d’Oriente in cambio della garanzia di protezione nell’evenienza di un’aggressione da parte del Barbarossa. Ci furono ambasciate segrete di Bisanzio a Venezia e promesse di finanziamenti a sostegno della costituzione di un fronte delle città minacciate contro Federico I. Venezia, da parte sua, promise di mettere cento galee a disposizione della causa comune. Le manovre politiche di Manuele Comneno nell’Italia settentrionale, sostenute da Venezia, diedero come risultato la creazione della Lega Lombarda che avrebbe inferto una dura sconfitta al Barbarossa. Le ragioni dell’inatteso rovesciamento di posizioni di Vitale II si trovavano, paradossalmente, nella vittoria sul re di Ungheria che la stessa Venezia aveva non poco contribuito a raggiungere. Stefano III era stato costretto a rinunciare alla Dalmazia e alla Croazia che erano così ritornate sotto il potere di Costantinopoli. La presenza stabile di Bisanzio sulla costa settentrionale dell’Adriatico fu subito percepita dai veneziani come una minaccia alla loro indipendenza e la reazione del doge fu consona a questi sentimenti. Vitale accolse freddamente un’ambasciata arrivata da Costantinopoli per chiedere l’ennesimo aiuto della flotta e la congedò dicendo che avrebbe riflettuto sulla richiesta; due giorni dopo offriva a Stefano III di Ungheria di sposare due dei suoi figli con due principesse ungare. Negli anni che seguirono le relazioni tra Venezia e Costantinopoli non accennarono a migliorare; questa era la situazione nell’estate del 1170 quando Manuele Comneno decise di richiamare nell’impero le altre potenze marinare.
Dopo l’aggressione subita, i genovesi si rivolsero chiedendo giustizia al basileus, ritenuto in certo modo responsabile dell’accaduto. Manuele, che mal sopportava la crescente prepotenza dei veneziani, dispose che le proprietà distrutte fossero ricostruite a spese degli aggressori e che i beni sottratti ai genovesi venissero restituiti. I veneziani non soltanto si rifiutarono di obbedire, ma arrivarono addirittura a minacciare una spedizione contro l’Impero. La risposta di Manuele non si fece attendere: ordinò il sequestro dei beni veneziani, denaro incluso, a Costantinopoli; il doge, a sua volta, proibì il commercio con Bisanzio e richiamò in patria i concittadini residenti nell’Impero. L’anno seguente Manuele tornò sui propri passi e richiamò i veneziani con allettanti promesse di concedere loro nuovamente il monopolio commerciale. I mercanti della Serenissima caddero nella trappola -perché di una vera trappola si trattava- e accorsero in massa portando enormi quantità di mercanzie. Secondo alcune fonti furono ventimila i veneziani che fecero ritorno, ma la cifra appare alquanto esagerata.
Per recuperare il tempo perduto, i veneziani ripresero i traffici a Costantinopoli con più lena di prima, intanto si preparava una congiura ai loro danni che vide all’opera l’intera amministrazione dell’Impero, senza che nulla trapelasse. Il 12 marzo 1171 scattò la trappola e furono arrestati nello stesso momento tutti i veneziani, mercanti e non, in ogni angolo dell’Impero. Soltanto nella capitale ne furono presi più di diecimila; le prigioni non bastavano per contenerli tutti e molti furono rinchiusi nei conventi. Si calcola in 400.000 iperperi il valore dei beni sequestrati: per Venezia fu un duro colpo. Manuele giustificò il suo atto con il peso eccessivo della colonia veneziana nell’economia bizantina che ledeva i diritti dei concorrenti greci e con la situazione venutasi a creare tra l’Impero e Venezia dopo il rifiuto della Serenissima di allinearsi alla politica estera di Costantinopoli, come aveva fatto in passato. A causa del sovraffollamento delle carceri, alcuni dei veneziani imprigionati nella capitale ebbero la fortuna di essere liberati dopo pochi giorni, sotto parola di non allontanarsi dalla città. Uno di loro, un ricco mercante di nome Romano Mairano, riuscì a impadronirsi di una grossa nave tonda con la quale insieme ad altri conterranei lasciò nottetempo il Corno d’Oro. La nave fuggiasca fu avvistata nei presi di Abido da navi bizantine che tentarono di darle fuoco senza riuscirci. Respinti gli assalitori, Mairano e i suoi compagni presero la via della Palestina e si rifugiarono ad Acri. Altri tentarono l’impresa ma furono fermati dalla flotta imperiale. Soltanto venti navi veneziane fuggite per tempo da Almiro riuscirono a evitare la cattura e portarono la notizia dell’accaduto in patria.
Saputa la notizia, a Venezia l’indignazione non ebbe limiti; un grido di vendetta serpeggiò lungo i canali e alla fine di settembre una flotta di cento galee e venti navi, in tutta fretta costruita, era pronta per salpare verso Costantinopoli sotto il comando del doge. L’obiettivo era liberare i conterranei prigionieri e recuperare i beni confiscati; il modo in cui si sarebbe portato a termine l’impresa, tuttavia, era poco chiaro. Anche se il successo di un’azione di forza non era scontato, forse si pensava d’intimorire Manuele con la sola presenza della flotta o di piegare la sua volontà, razziando le coste dell’Impero. La flotta navigò lungo la costa dalmata dispiegando i gonfaloni di San Marco; alcune città, tra queste Zara, passarono dalla parte di Venezia e Ragusa fu sottomessa. Lasciato l’ Adriatico, la flotta s’inoltrò nell’Egeo e attaccò la capitale dell’Eubea, allora chiamata Negroponte. L’isola faceva parte dell’Impero Bizantino e il comandante del presidio imperiale si offrì come intermediario presso Manuele per ottenere il rilascio dei prigionieri. Il doge inviò due ambasciatori a Costantinopoli per tentare una trattativa e proseguì verso Chios dove ci fu uno scontro con il presidio bizantino. Si trattò senz’altro di qualche scaramuccia senza conseguenze poiché la flotta si fermò e le truppe si accamparono sull’isola per passare l’inverno e attendere i risultati dell’ambasceria. Gli inviati tornarono a mani vuote: l’imperatore non si era degnato di riceverli. Con loro arrivò un funzionario greco -presumibilmente con il compito di portare notizie al basileus sull’entità delle forze veneziane- che consigliò d’insistere e d’inviare una seconda ambasciata. Il consiglio fu accettato e i due legati ripartirono per Costantinopoli accompagnati da un interprete di nome Filippo Greco. Nel frattempo alcune galee veneziane si erano date alla pirateria a danno delle coste bizantine, può darsi cercando di rifornirsi di vettovaglie per far fronte all’inverno che non si presentava propizio. All’incertezza della situazione si aggiunse il flagello di un’epidemia che scoppiò tra le truppe veneziane facendo in poco tempo più di mille vittime; correva voce che l’imperatore avesse fatto avvelenare l’acqua e il vino. All’accampamento arrivarono notizie dell’avvicinarsi di forze greche per terra e per mare; era l’inizio della primavera e il doge decise di lasciare Chios e partì verso Panagia. A Panagia giunsero i legati di ritorno da Costantinopoli, la loro missione era risultata un nuovo insuccesso: per la seconda volta l’imperatore si era rifiutato di riceverli. Gli ambasciatori, anche in quell’occasione, erano accompagnati da un funzionario bizantino che suggerì di tentare ancora. L’epidemia non abbandonava la flotta e da Chios l’inseguì a Panagia; le morti tra soldati e marinai continuavano e il morale degli uomini era sempre più basso; d’altro canto era chiaro che Manuele temporeggiava per lasciar logorare le forze veneziane e costringerle a rinunciare al loro obiettivo; ciò nonostante, Vitale II Michiele non si diede per vinto e fece partire nuovamente i legati. Dell’ambasciata faceva parte Enrico Dandolo: il destino tesseva le sue trame e nessuno poteva immaginare quanto sarebbe costata a Bisanzio la violenza che per mano greca quell’uomo avrebbe subito durante la sua missione. Dandolo, il futuro doge che avrebbe guidato l’armata veneziana nella quarta crociata, fatale per Costantinopoli, durante la sua ambasciata fu parzialmente accecato. Ci sono solo ipotesi su come si svolsero i fatti che gli provocarono in parte la perdita della vista, forse fu abbacinato per ordine di Manuele o forse ricevette una ferita alla testa durante una rissa, come sostiene Villehardouin che lo conobbe personalmente, in ogni caso la colpa fu imputata all’imperatore e il Dandolo non lo dimenticò mai. L’occasione di vendicarsi sarebbe arrivata trent’anni più tardi, quando era quasi centenario.
La terza ambasciata ebbe lo stesso risultato delle precedenti. Ormai Manuele era sicuro di avere in mano la situazione; l’epidemia aveva giocato un provvidenziale ruolo a sua favore e nulla lo costringeva a cambiare atteggiamento nei confronti dei veneziani: la partita era chiusa e lui riportava la vittoria.
Vitale II, tuttavia, non si rassegnò e continuò a trascinare l’armata malconcia da Panagia a Lesbo e poi a Sciro, con l’epidemia che, mietendo vittime, accompagnava le navi in ogni spostamento. Il doge avrebbe tentato un ultimo disperato tentativo di avvicinarsi a Costantinopoli dirigendosi a Lemno, ma le truppe si rifiutarono di seguirlo e lo costrinsero a tornare in patria.
Il rientro a Venezia nel mese di maggio del 1172 fu doppiamente penoso: la gagliarda flotta che era partita affiancata dalla brama di vendetta dell’intera città, non portava indietro soltanto l’insuccesso, ma anche la peste. La delusione e la rabbia dei cittadini fu equivalente alle loro aspettative e Vitale II Michiele fu assassinato per strada, pagò così il fallimento di una politica sbagliata che esprimeva, tuttavia, la volontà di tutti i veneziani e della quale lui era stato soltanto esecutore.
I prigionieri furono liberati nel 1179, a conclusione di lunghe trattative e dopo la firma di un trattato tra Venezia e i Normanni della Sicilia che sicuramente ebbe il suo peso nella decisione di Manuele Comneno di venire a patti con i veneziani.
Sono nata a Cruz del Eje, una cittadina della provincia di Cordoba in Argentina. Mia madre era figlia di italiani; mio padre, un giornalista argentino di ascendenza basca, morì prima del mio secondo compleanno. Sono cresciuta a Cordoba in una famiglia di sole donne: mia madre, due sorelle molto più anziane di me e mia nonna materna: fu lei a insegnarmi ad amare l’Italia. Era nata a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia e i ricordi del paese dell’infanzia che mi raccontava come fossero delle fiabe, destarono in me il desiderio di “ritornare” nella terra di origine. Finito il liceo, per colpa di effimeri entusiasmi giovanili, mi dedicai a studiare arte drammatica e più tardi regia cinematografica, tralasciando la scrittura che insieme alla lettura e all’interesse per la storia erano state fino ad allora – e oggi continuano a essere – realtà costanti nella mia vita.
Dopo alcune esperienze teatrali a Buenos Aires, realizzai il progetto maturato nell’infanzia e a lungo rimandato di “ritornare” in Italia. Di ritornare – senza virgolette – sentono, come me, molti figli o nipoti di emigrati, cresciuti lontani dall’Italia ma in un ambiente che ha mantenuto vive tradizioni e cultura italiane.
Contrariamente a ciò che avrebbe potuto desiderare mia nonna, non ho scelto per vivere Pavia o Milano, ma Roma. In questa città, carica di tempo e di storia, mi sento nel mio ambiente naturale.
Qualche mese dopo il mio arrivo, una borsa di studio mi permise di frequentare un corso di regia televisiva presso la RAI di Firenze. In seguito ho lavorato come assistente volontaria alla regia in un film di Franco Rossi e come fotografa per un’agenzia; nel contempo tenevo lezioni private di spagnolo. Furono anni felici ma difficili: finite le risorse portate dall’Argentina, dovevo trovare, o inventare, un lavoro che mi permettesse una certa stabilità economica. La ricerca mi condusse a scoprire la ceramica. I primi risultati furono piuttosto incoraggianti e in un tempo relativamente breve fui in grado di eseguire pezzi unici che venivano apprezzati e soprattutto si vendevano. La ceramica mi insegnò qualcosa di me che non avevo ancora capito: mi piace lavorare, creare in solitudine. Rinunciai al cinema e alla fotografia e ripresi a scrivere, in spagnolo; subito mi accorsi, però, dell’impossibilità di vivere e pensare in una lingua e scrivere nella sua sorella: se avessi scritto in tedesco, forse, la difficoltà non sarebbe esistita. Avevo iniziato a studiare italiano da adolescente, lo parlavo e lo leggevo perfettamente e, se non fosse stato per le doppie spesso e volentieri messe a sproposito, avrei anche potuto ritenere di saper scrivere, ma fare letteratura, naturalmente, era tutta un’altra storia. M’impegnai a perfezionare l’italiano: se mia sentivo questa terra dove non ero nata, mia doveva essere la sua lingua. Fu un periodo molto intenso, di lunghe e diversificate letture: letteratura, storia, antropologia, psicologia, storia delle religioni. Seguii un corso di latino presso l’Università Gregoriana di Roma e di francese presso l’Alliance Francaise. Mi preparavo, ma dubitavo di avere capacità sufficiente per affrontare con serietà la scrittura. Diventare scrittrice mi appariva un traguardo troppo in alto per le mie forze. Un Natale ricevetti in regalo I miti di creazione di Marie Louise Von Franz, quel libro mi diede la spinta, il coraggio che mi mancava e nacque il mio primo romanzo: I quattro lati del cerchio che, una volta finito, giudicai troppo sperimentale e saggiamente lasciai nel cassetto. Cominciai a lavorare a Il cammino e il pellegrino e per cinque anni frugai tra le pieghe della storia fiorentina della fine del XIII secolo per costruire la quotidianità dei miei personaggi. Il nuovo romanzo ebbe lettori di eccezione come Pietro Citati e Daniel Chavarria che lo apprezzarono e mi incoraggiarono. Fece parte della cinquina del Premio all’inedito Palazzo al Bosco e Giovanna Querci Favini, promotrice del premio, tentò senza successo di farlo pubblicare. Finito il libro, gli studi sul medioevo italiano continuarono. Intanto con alcuni amici ho fondato l’Associazione Culturale Clara Maffei di cui sono presidente. A settembre del 2009 ho finito il mio terzo romanzo: I panni del saracino. All’edizione di quell’anno di Più libri più liberi ho contattato Anna Grazia D’Oria presso lo stand della Pietro Manni editore. Era la prima volta che mi rivolgevo a una casa editrice indipendente; la mia intenzione era chiedere di visionare l’ultimo romanzo. Sul momento, tuttavia, ho cambiato idea e le ho parlato di Il cammino e il pellegrino; è stato uno slancio di puro istinto. A giugno mi è arrivata la proposta di contratto che ho accettato. I panni del saracino attende fiducioso il suo turno; intanto lavoro a un nuovo romanzo e pubblico articoli e piccoli saggi di storia medievale sul sito dell’Associazione Clara Maffei.
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