Gli Angioini nel Mezzogiorno

Saluto d'argento di Carlo I
Saluto d’argento di Carlo I

di Ornella Mariani.

Carlo I d’Anjou

Angioini furono i membri del ramo cadetto della dinastia francese iniziato nel Regno di Sicilia da Carlo I, fratello minore del Re di Francia Luigi IX il Santo.

Conte di Provenza per nozze; Re di Sicilia per volontà papale e potentissimo per l’estrazione capetingia, disponendo del possesso di ampi territori in Piemonte e del favore dei Marchesi di Saluzzo e del Monferrato, egli era gradito alla Chiesa quale garante dell’eliminazione definitiva dell’ultimo Hohenstaufen considerato da Alessandro IV un usurpatore.

Assieme ai suoi discendenti, pertanto, imperversò nel Sud saldando la sua fortuna al declino della potenza imperiale sveva avviato dalla morte di Federico II il 13 dicembre del 1250; proseguito col misterioso decesso del figlio Corrado IV, nel 1254; ratificato nella battaglia di Benevento del 1266 dalla tragica fine del Luogotenente Imperiale in Italia Manfredi; concluso con la efferata decapitazione del quindicenne Corradino di Svevia, ultimo rappresentante di quella stirpe che fu straordinaria protagonista della storia del Medio Evo.

In quella stagione di fermenti ghibellini espressi nel Nord da Ezzelino da Romano e nel Centro peninsulare dagli esiti dell’epica battaglia di Montaperti, ove il 4 settembre 1260 era rifulsa d’eroismo la figura di Manente degli Uberti detto Farinata, il Papato aveva creato le premesse perché i Francesi s’impadronissero del Regno di Sicilia distruggendone quella funzione di crocevia di civiltà e culture. Così, la corona isolana, che pure aveva cinto il capo di Edmondo di Lancaster per dieci anni Re di Sicilia per grazia di Dio, a seguito delle trattative già aperte da Urbano IV fu ceduta da Clemente IV, a sua volta animato da irriducibile odio antisvevo ed allarmato dalla crisi del Guelfismo italiano, a Carlo I d’Angiò: il Mezzogiorno era stato consegnato alle derive della decadenza posta in essere quando egli, sceso in Italia alla guida di un imponente esercito di avventurieri e di fuoriusciti guelfi; negoziata l’amicizia con i Savoia ed i Torriani di Milano, a garanzia delle vie di comunicazione con la Francia; favorito dall’odio del Clero nei confronti degli Svevi, fu infeudato ed incoronato a Roma.

Era il 6 gennaio del 1266.

In una manciata di giorni, il disorientamento del fronte ghibellino sul Garigliano gli consentì poi di invadere il Sud e di convergere a Benevento ove, il 26 febbraio successivo, Manfredi fu sconfitto ed ucciso. Da quel momento gli ultimi partigiani degli Hohenstaufen ed in particolare i sostenitori del giovane Corradino, pronto ad esercitare quei diritti negatigli il 23 agosto del 1268 a Tagliacozzo ove senz’arme vinse il vecchio Alardo (Dante, Inferno, XXVIII, 18), furono stretti nella morsa di una feroce politica di rappresaglie: battuto e messo in fuga, l’ultimo rampollo dell’illustre ceppo tedesco riparò nel castello di Astura ove i Frangipane, per denaro, lo consegnarono al nuovo Sovrano che ne ordinò l’esecuzione alla presenza di una indignata e minacciosa folla, sulla Piazza del Mercato di Napoli.

Con l’inaudita atrocità di quel regicidio benedetto dalla Chiesa, padrone incontrastato di Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise ed Abruzzo, Carlo entrò nel complesso scenario del Regno; ne assunse la guida; sostituì l’illuminata tolleranza sveva con una politica crudele, vessatoria e intransigente; candidò alla rovina gli splendori di Palermo, i cui vincoli sociali e culturali si sganciarono definitivamente dal continente frantumando le speranze di un intero Popolo.

Il danno conseguente alla soppressione degli Hohenstaufen si ripercosse su tutto l’assetto politico europeo, dando vita al Grande Interregno ed alla contesa, senza vincitori, fra vari pretendenti al seggio imperiale: Guglielmo d’Olanda; Riccardo di Cornovaglia; Alfonso di Castiglia finché, per porre fine all’anarchia, nel 1273 i Principi Elettori tedeschi riuniti a Francoforte con l’assenso del Papato assegnarono la corona imperiale a Rodolfo I d’Asburgo, incoronato in Aquisgrana.

Seppur tenuto a battesimo da Federico II di Hohenstaufen, egli non nutrì alcun interesse per le vicende italiane: non solo rinunciò alla prosecuzione della politica staufica; ma mantenne un buon rapporto col Papato riscuotendo il rigoroso giudizio di Dante che lo alloggiò nel Purgatorio con l’accusa di aver abbandonato l’Italia e d’aver decretato l’inaridimento del Giardino dell’ Impero: il rinnovato edificio imperiale, spezzando il suo legame storico con l’Italia, consentì a Carlo I d’Angiò di dominare la politica italiana. Pertanto, la sua attività non consistette solo della mera sostituzione di una potenza dinastica con un’altra, ma della lotta per la legittimità nazionale fra Guelfi e Ghibellini e del definitivo strappo fra le regioni del Mezzogiorno peninsulare e la Sicilia.

Nato da Luigi VIII Re di Francia e da Bianca di Castiglia nel 1220; dotato dell’appannaggio personale delle Contee dell’Anjou, del Maine, della Provenza quale bene dotale della moglie, e dell’Hainault per effetto di conquista; munito del controllo di Nizza e Ventimiglia e di Alba, Cuneo, Mondovì ed altri territori meridionali del Piemonte fino al Col di Nava e al Col di Tenda; Senatore di Roma; Vicario di Toscana e Governatore di Firenze, spietatamente Carlo I esercitò la supremazia sulla penisola; perseguitò e spogliò dei feudi gli ultimi seguaci della monarchia sveva; occupò tutti gli uffici pubblici con funzionari francesi corrotti e malvagi; oppresse fiscalmente la popolazione; distrusse ogni provvida istituzione amministrativa e burocratica introdotta da Federico II. Nei patti sottoscritti col Papato, infine, assicurò Benevento e la ricadenza del Regno alla Chiesa ove egli fosse morto senza discendenza, restituendole i beni a suo avviso usurpàtile, assieme all’obbligo dell’omaggio dei Re di Sicilia e di Puglia ed alla clausola che nessun altro erede rivendicasse il titolo di Imperatore e di Re dei Romani, né la Signoria in Lombardia e Toscana, né la pretesa di collegare il Regno ad altro d’Italia o all’ Impero.

Insediatosi, ampliò il suo progetto politico orientandosi verso il Mediterraneo; puntando all’ acquisizione di Tunisi, dell’Acaia e di s.Giovanni d’Acri; interferendo nelle vicende politiche d’Oriente; sostenendo Baldovino II contro lo scomunicato Michele Paleologo; occupando l’Albania; imparentandosi con l’Ungheria, onde garantire a sé ed alla famiglia diritti successori su quel trono; spingendo il fratello Luigi IX verso quella fallimentare crociata nella quale trovò la morte. Definito da Martino IV Imperatore Universale, egli trasse infatti profitto anche dalla drammatica fine del germano, pretendendo dagli Arabi un contributo annuo ed una indennità di ristoro, col suo avido e cinico protagonismo e la sua soverchiante condotta agitando la Curia Romana; accentuando il malessere delle Baronie ed il risentimento dei sudditi; abbandonando al suo destino la Sicilia che, insorta il 31 marzo del 1282 nella Guerra del Vespro, stroncò i suoi appetiti egemoni ed offrì, in un nostalgico rigurgito filosvevo, la corona a Pedro III d’Aragona, marito di Costanza, figlia di Manfredi di Svevia e nipote di Federico II di Hohenstaufen.

Dai Vespri verso il tracollo della dinastia angioina

In Sicilia, il malcontento e l’odio antifrancese erano montanti, soprattutto per il trasferimento della capitale del Regno da Palermo a Napoli.

Favorito l’insediamento dell’industria tessile; modernizzati i porti di Bari, Brindisi, Manfredonia e Napoli; immessi nei monopoli della Corona l’estrazione dei metalli e la produzione del sale; affermata l’autorità su Pisa e su Siena; guadagnato il favore di Fiorentini, Lucchesi e Pisani, cozzando con le resistenze di Gregorio X, Carlo I si accinse a muovere contro l’Impero greco col sostegno dei Veneziani, dei Serbi, dei Bulgari e dei Despoti di Tessaglia ed Epiro. Tuttavia, proprio mentre le sue truppe erano pronte a salpare per l’Oriente, la Sicilia fu attraversata dal fremito dei Vespri.

Era il 31 marzo del 1282: lunedì di Pasqua.

La perquisizione che un militare francese, tal Drouet, intendeva effettuare in violazione e spregio del decoro di una giovane isolana, sul sagrato della chiesa palemitana del S.Spirito, fu la scintilla per il massacro di duemila francesi: le campane suonarono i rintocchi dell’ora del Vespro e la gente coralmente gridò morte.

Così Dante: se mala signoria che sempre accora i popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar “mora! Mora”!…

All’alba del giorno successivo, Palermo proclamò la sua indipendenza

Il contagio insurrezionale contagiò rapidamente tutto il territorio: per la prima volta espressiva di un’irrinunciabile coscienza nazionale, la rivolta assumeva una connotazione patriottica mirata ad espellere l’assolutismo straniero. Ma non si può decontestualizzarla dagli eventi politici internazionali e, più in particolare, dall’accesa rivalità fra Pedro III il Grande, assiso al trono aragonese dal 1276, e Carlo I d’Anjou, entrambi tesi ad accaparrare l’egemonia del Mediterraneo.

Di fatto, il 25 luglio di quell’anno di sangue, impedendo lo sbarco di settantacinquemila Francesi e oppressa nella morsa di un durissimo assedio, la popolazione di Messina resistette ad oltranza in attesa dei rincalzi del sollecitato Pedro III d’Aragona.

Nato a Valencia nel 1240; figlio di Giacomo I d’Aragona il Conquistatore; padre di Alfonso, Giacomo II e Federico; intenzionato a recuperare l’eredità dell’Italia meridionale, nell’agosto del 1282 Pedro III sbarcò a Marsala invocato contro il tiranno ed i suoi alleati Filippo III di Francia e Papa Martino IV dalla sofferenza della popolazione; dall’esule Giovanni da Procida, medico della Corte federiciana; dall’Ammiraglio Ruggero di Lauria; dai ghibellini genovesi guidati dal Conte di Montefeltro; da Pietro di Castiglia; da Edoardo d’Inghilterra: da Rodolfo d’Asburgo; da Michele Paleologo; dalla Nobiltà locale.

Deciso a rivendicare i diritti ereditari della moglie, egli giunse a Trapani ed entrò trionfalmente a Palermo: era il 30 agosto.

Il successivo 29 settembre Carlo, rinunciò ad espugnare Messina e tornò a Napoli.

Nello stesso 1282, le Baronie elessero Pedro previa garanzia di successione separata fra Regno d’Aragona e Regno di Sicilia ed impegno che, alla sua morte, gli succedesse il figlio cadetto Giacomo II, sotto reggenza materna. Tuttavia, i vagheggiati fasti svevi rivissero per un solo anno, fra varie turbolenze: l’annientamento della flotta angioina durante la rivolta messinese; l’impegno di Manfredi Lancia nell’insidiare il presidio angioino a Malta; l’occupazione di Capri ed Ischia da parte di Ruggero di Lauria; lo spostamento del conflitto sul continente, così favorendo sommosse delle città costrette nell’orbita francese; il drammatico embargo inflitto a Napoli; la cattura di prigionieri eccellenti, ovvero i figli di Carlo I d’Angiò.

Tali circostanze furono stigmatizzate nel 1285 da Martino IV che anatemizzò Pedro, Giacomo, Costanza e Federico e bandì contro tutta l’Aragona una crociata capeggiata da Filippo l’Ardito, nipote di Carlo I.

Ma quello fu un anno difficile e fatale a molti protagonisti dello scenario politico internazionale. Morirono, infatti, l’Angioino cui successe il figlio Carlo II lo Zoppo, ancora ostaggio dei nemici; a Vilafranca del Penedès, Pedro III che lasciò l’eredità dell’Aragona al primogenito Alfonso III e la Sicilia al secondogenito Giacomo; Filippo III, al quale subentrò Filippo IV il Bello; lo stesso Papa, in sostituzione del quale fu eletto Onorio IV.

In conformità delle decisioni concordate nel Parlamento di Messina del 1282, Giacomo II fu incoronato Re di Sicilia mentre a Carlo II, liberato nel 1288 per effetto del Trattato di Canfranc e della conciliazione mediata da Edoardo d’Inghilterra, restarono i territori continentali, nell’ improbabile coesistenza di due Re di Sicilia, l’uno saldamente arroccato nell’isola; l’altro faticosamente impegnato a mantenere la frammentata realtà peninsulare.

Incoronato a Rieti, il 19 maggio del 1290 Carlo II sedette al tavolo della Pace di Senlis, per effetto della quale fu deciso che sua figlia Margherita sposasse Carlo di Valois, fratello di Filippo IV. Ma la morte di Alfonso III, già dopo un anno rilanciò la conflittualità e, il 12 giugno del 1295, pur di porre fine ad una lunga ed estenuante guerra, riunite nella sua persona le corone di Aragona e Sicilia, Giacomo II accettò le clausole del Trattato di Anagni avviato da Celestino V e realizzato da Bonifacio VIII, che riunì i belligeranti al tavolo delle trattative: Carlo II ottenne la Sicilia in cambio della rinuncia di qualsiasi rivendicazione da parte di Filippo IV e di Carlo di Valois sul trono aragonese e della Licenza Invadendi, ovvero l’assenso a che l’Aragona conquistasse i feudi di Corsica, Sardegna e Baleari e liberasse i prigionieri angioini; parallelamente, Giacomo, Costanza e Federico ottennero l’assoluzione dalla scomunica.

L’accordo indignò il Parlamento siciliano che depose Giacomo ed incoronò Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae, secondo la formula del vecchio Regno, Federico III d’Aragona col nome di Federico II: abile condottiero; lungimirante legislatore; politico carismatico quanto l’omonimo avo.

Era l’11 dicembre del 1295.

La seconda fase della Guerra del Vespro, che a quel punto vedeva alleati di circostanza Carlo II d’Angiò e Giacomo II, riprese contro il nuovo Re: né gli affondi della flotta sicula da parte di Ruggero de Lauria; né lo sbarco nell’isola da parte di Carlo di Valois, fratello del Re di Francia Filippo il Bello; né l’assedio di Catania effettuato da Carlo d’Angiò ebbero ragione della resistenza locale: l’isola adottò una linea di strenua difesa della propria indipendenza poiché, se il riconoscimento del titolo di Sovrano di Sicilia all’Angioino era stato conferito dal Papa nella convinzione che il Regno fosse appannaggio feudale della Chiesa, Federico era invece legittimato dal Parlamento di una popolazione sempre più ostile ai Francesi.

Egli era il primo Sovrano Costituzionale di Sicilia.

Non a caso, nello stesso giorno della sua elezione, presentò le Constitutiones regales mirando a conferire allo Stato uno stabile ordinamento; prendendo a modello gli impianti istituzionali avanzatissimi di Aragona e Catalogna; introducendo la legge pazionata, ovvero patteggiata; riconoscendo al Popolo il diritto di eleggersi la guida.

Solo con la Pace di Caltabellotta, sottoscritta il 31 agosto del 1302, si giunse alla divisione fra parte insulare e parte peninsulare del Regno. Federico accettò di sposare Eleonora, figlia di Carlo II e, impegnandosi al passaggio dell’isola agli Angioini dopo la sua morte, fu nominato Re di Trinacria pur senza mai rinunciare all’ambizione di recuperare l’intero Mezzogiorno, quale erede degli imperscrittibili diritti imperiali di Federico II di Hohenstaufen e del figlio Corrado IV: quella tregua, sarebbe durata fino a quando non avesse rivendicato il titolo di Re di Sicilia per il figlio Pedro!

In teoria, il conflitto era terminato e con il suo provvido talento diplomatico, il Sovrano regnò per otto lustri coltivando anche l’intima aspirazione a vestire la corona bizantina e la corona gerosolimitana, allora in testa agli Angiò. Tuttavia, nella sua lungimiranza, incorse in sviste irreparabili: condizionò ed oppresse lo sviluppo delle libertà delle città demaniali; le escluse dal patto costituzionale; accrebbe l’arroganza delle Baronie, proprio mentre il potere feudale entrava in crisi.

In quegli anni, l’ingerenza capetingia negli affari della Chiesa; il trasferimento del Papato ad Avignone ed il virulento scontro fra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, occuparono la scena politica internazionale.

La querelle era esplosa per una vicenda apparentemente insignificante: il diniego del Papa a condannare il Primate di Pamiérs Bernard Saisset, accusato di tradimento dalla Corona. La condotta di Bonifacio indispose Filippo che gli intimò di comparire avanti ad un Consiglio Generale di Corte. A fronte dell’indifferenza del Pontefice, nel settembre del 1303, l’arrogante Re di Francia inviò ad Anagni il suo braccio armato Guillaume de Nogaret: con un sommario processo, il Primate Romano fu giudicato eretico e simoniaco; fu umiliato; fu schiaffeggiato ed arrestato prima di essere liberato dalla popolazione insorta e prima di morirne di crepacuore. Alla violenta iniziativa fornì il suo sostegno Giacomo Colonna detto Sciarra, acerrimo nemico storico dei Caetani.

Il caso, amplificato dalla drammatica Questione Templare, denunciava il declino del potere ecclesiale e l’anarchia della Chiesa, conseguendone il trasferimento del Papato ad Avignone su iniziativa di Clemente V, al secolo Bértrand de Got.

Era il 1309.

La cattività, trascorsa in Provenza praticamente sotto il controllo della Corona francese, fu la prima e tangibile manifestazione del tracollo dell’asserito ecumenismo romano: per circa settanta anni, sulla politica italiana non gravò il peso dell’ingerenza clericale emergendo, sempre più forte, la figura di Carlo II d’Angiò.

Di aspetto assai gradevole, ancorché claudicante; saggio e di indole liberale; figlio e successore di Carlo I d’Anjou; nato nel 1248 e morto nel 1309; successo al padre nel 1285; incoronato Re di Sicilia nel luglio 1289, Carlo II lo Zoppo era stato prigioniero di Pedro d’ Aragona con i tre figli e con cinquanta Nobili del Regno a margine della battaglia navale di Napoli del 5 luglio 1284, nel contesto della annosa Guerra dei Vespri Siciliani per il controllo della Sicilia. Pertanto, la potestà règia era stata assegnata de jure alla moglie Maria, figlia di Stefano V d’Ungheria e di Elisabetta di Cumania, malgrado de facto governasse il Vicario Roberto d’Artois. Per effetto del Trattato di Camporeale, del giugno del 1288, e delle pressioni esercitate dai Sovrani di Francia ed Inghilterra e più in particolare dal Papa, Carlo era stato poi liberato ma Alfonso d’Aragona aveva trattenuto gli ostaggi Ludovico, Roberto e Raimondo d’Angiò, detenuti dal 18 novembre dello stesso 1288 prima nel catalano castello di Moncada; poi nelle fortezze di Ciurana e di Castile ed infine a Barcellona, prima di essere rési alla famiglia, il 31 ottobre del 1295.

Dalle nozze di Carlo e Maria d’Ungheria nacque ricca prole: Carlo Martello, Principe di Salerno e Sovrano titolare d’Ungheria; Margherita, Contessa d’Anjou e del Maine; san Ludovico Vescovo di Tolosa; Roberto il Saggio, Re di Napoli, Duca di Calabria, Principe di Salerno e Capua, Conte di Provenza e Forcalquier, titolare del Regno di Sicilia e Gerusalemme; Filippo Principe di Taranto, Acaia, Morea, Despota d’Epiro, Signore di Durazzo e del Regno d’Albania, Imperatore di Romania, Imperatore di Costantinopoli, pretendente al trono di Tessalonica; Raimondo Berengario, Conte di Provenza e di Andria e Signore del Piemonte; Eleonora, sposata il 13 maggio del 1302 a Federico d’Aragona, Re di Trinacria; Bianca, coniugata il 20 ottobre del 1295 a Giacomo d’Aragona; Galeazzo, sacerdote; Tristano, precocemente deceduto; Maria maritata al Re di Maiorca Sancho I d’Aragona e poi al Barone di Xérica Giacomo II d’Aragona; Pietro, Conte di Gravina, caduto nella battaglia di Montecatini del 29 agosto del 1315; Giovanni Duca di Durazzo, Principe d’Acaia e Morea, Conte di Gravina, Signore d’Albania; Beatrice, ceduta giovanissima al vecchio Signore di Ferrara Azzo VIII d’Este e risposata al Conte di Andria, Montescaglioso e Squillace Bertrando III del Balzo.

Dotato di acuto ingegno diplomatico, il Sovrano aveva compreso che solo la pacificazione del Regno poteva consentirgli di ralizzare quel mai sopito progetto espansionista rafforzato dai tatticismi e dai matrimoni di Stato di molti dei suoi quattordici figli. Egli stesso, nel giugno del 1270, sposando Maria d’Ungheria, aveva posto un’ipoteca sul trono magiaro e, quando senza prole era deceduto suo cognato Ladislao IV, con il determinante appoggio di Bonifacio VIII aveva fatto incoronare erede il primogenito Carlo Martello alla cui morte, a fronte della rinuncia del secondogenito già vestito del saio francescano, elevò alla dignità del soglio partenopeo il terzo dei suoi figli, Roberto, conferendo al quarto, Filippo, il dominio angioino sul Regno di Acaia. Consolidato il potere, dalle stanze della imponente fortezza del Maschio Angioino, Carlo II amministrò quegli intensi legami connotati da frequenti alleanze e rotture con la Chiesa: il 13 dicembre del 1294, la sala maggiore dell’edificio fu teatro del celebre gran rifiuto di Celestino V ed il Conclave, in quella stessa cornice, il 24 successivo, elevò al soglio pietrino Bonifacio VIII che, come primo atto politico, provò invano a sganciarsi dalle ingerenze della casata francese.

Nell’ultima fase della sua esistenza Carlo II conferì a Roberto il Saggio il Vicariato del Regno, spegnendosi il 5 maggio del 1309 dopo aver disposto che le sue spoglie fossero ricomposte ad Aix- en –Provence: era stato comunque un riformista, in particolare nell’ambito della giustizia e dell’agricoltura che potenziò istituendo il catasto fondiario e fissando i confini delle foreste demaniali. In quello stesso scorcio d’anno s’era spento anche il primogenito Carlo Martello: nel successivo agosto, ad Avignone Clemente V investì della tiara napoletana e dell’incarico di Vicario Imperiale Roberto d’Angiò che tornò nel Regno, mentre Arrigo VII preparava la sua prima discesa in Italia.

Nel gennaio del 1309, l’Imperatore era stato incoronato in Aquisgrana. Animato dall’intento di restaurare gli antichi diritti imperiali, aveva affidato il governo al figlio Giovanni cui aveva conferito il titolo di Re di Boemia e di Moravia. Giunto in Italia nel 1310, vi nominò cinque Vicari; riabilitò i Ghibellini; contrasse alleanze con Pisani e Genovesi progettando di ridurre all’ obbedienza il Re di Napoli. Inizialmente, Clemente V perorò la sua causa scrivendo a Genovesi e Fiorentini ed incaricando il Cardinale Arnaldo Pelagrua di sostenerne l’impresa, poiché egli sembrava mirare alla pacificazione della penisola. Poi, quando comprese che le nostalgie dei Ghibellini, agevolate dal trasferimento del Papato in terra francese, s’erano vestite della speranza di rivivere i fasti svevi, nella diffusa convinzione della nascita di un’Impero mondiale che li riscattasse dalle soverchierie dei Guelfi angioini e toscani, cambiò atteggiamento.

Arrigo VII, in definitiva, aveva la colpa di incarnare le attese degli esuli, a partire da Dante.

Il 6 gennaio del 1311 a Milano fu incoronato Re d’Italia; ma nel perdurare delle sue attività, il Papa gli aveva voltato le spalle diventando sostenitore di Filippo il Bello. Pertanto, quando nella primavera del 1312 l’Imperatore scese a Roma e vi trovò le truppe fiorentine ed angioine in assetto di guerra, ricevuta la corona, lanciò il bando imperiale sulla città e sul Re di Napoli, così definitivamente inimicandosi la Chiesa.

Era il 29 giugno del 1312: in quella stagione di riacutizzazione delle antiche lotte fra Guelfi e Ghibellini, Roberto d’Angiò si fece carico della guida delle legioni guelfe del Centro/Nord mai più presagendo che la sua disfatta militare, col favore degli eventi, si sarebbe trasformata in un vantaggio politico: come Re di Napoli, egli era vassallo del Papa ma, quale titolare delle Contee di Folcalquer e della Provence era vassallo di Arrigo e, in tale veste, gli era fatto obbligo di rendergli quell’omaggio al quale si negò istigandogli contro Firenze. Quel gravissimo reato di lesa maestà gli valse un processo della Procura imperiale; una condanna in contumacia e la deposizione dalle Contee francesi e dal Regno: circostanze delle quali profittò Federico di Sicilia per riaprire le ostilità con Napoli; per sbarcare in Calabria; per occuparne diverse città e per accorrere, con la sua flotta, in soccorso dei Tedeschi. Tuttavia, l’atteso rincalzo delle truppe baronali dovutegli per onere feudale giunse con due settimane di ritardo: l’Imperatore aveva già rinunciato all’attacco; era già rientrato in Germania; era già improvvisamente anche deceduto.

Era il 1313.

Per Roberto, un imprevedibile colpo di fortuna; per Federico, il tracollo: da Avignone a Napoli, con una violenta campagna di linciaggio egli fu isolato; scomunicato e costretto a dividere con i sudditi il peso di un anatema durato quattordici anni per avere attaccato un Re cristiano, senza la previa dichiarazione di guerra!

La ritorsione fu immediata, ma il tentativo del Re di Napoli di assicurarsi il possesso dell’isola nel 1314, si risolse in un bruciante fallimento.

Sedeva intanto al soglio del Sacro Romano Impero Ludovico il Bavaro, protagonista di anni che si mantennero turbolenti: nel 1317, gli Angioini napoletani organizzarono una nuova spedizione contro gli Aragonesi di Sicilia inviando un potente contingente guidato dal Conte Tommaso di Marzano. Sbarcato a Castellammare, egli saccheggiò Palermo, Trapani e Messina mentre Federico arretrava nell’interno. Solo l’intervento papale sancì una nuova tregua tra le parti: gli invasori accettarono di lasciare l’isola e gli Aragonesi rinunciarono ai loro possedimenti di Calabria a favore della Chiesa che li affidò in custodia a Roberto d’Angiò riconosciuto, l’anno dopo, Signore di Genova per aver difeso la città dall’attacco di Marco Visconti, partigiano dei Siciliani. Non a caso, nel 1319 il Cardinale Bertrando del Poggetto, Legato pontificio in Italia, scomunicò la famiglia milanese ed i suoi alleati obbligandoli a riconoscere la sovranità angioina.

La campagna dell’Imperatore nel frattempo continuava e, nel 1323, minacciandolo di anatema, il Papa gli intimò di desistere dalla pretesa di affermare il proprio potere in Italia e di accettare di riconoscere le legittime prerogative del Re di Napoli. Le tensioni si esasperarono nel 1324, quando Ludovico accusò di eresia il Pontefice che, rivoltosi ai Grandi Elettori tedeschi, ne chiese la sostituzione al soglio imperiale con Carlo V. Indifferente ai proclami ecclesiali e proclive alle ragioni dello scisma francescano, nel 1327 a Milano con la moglie Margherita d’Olanda e contro il volere della Chiesa, Ludovico indossò la corona ferrea dei Longobardi, mentre una flotta di novanta navi angioine sbarcava a Patti ed invadeva parte della Sicilia.

Entrato a Roma il 17 gennaio del 1328, seppur scomunicato, l’Imperatore depose il Papa; lo processò per lesa maestà; lo rinviò quale eretico al giudizio della giustizia secolare; fece eleggere l’antiPapa Niccolò V e ricevette gli incarichi di Capitano del Popolo, Senatore ed Imperatore da Sciarra Colonna, con grande esecrazione di tutta la Cristianità. Epperò, la progettata invasione del Regno partenopeo fu condizionata da una tale esiguità di risorse economiche da produrre un ampio fronte di defezione fra gli alleati e da indurlo, nel 1239, al rientro a marce forzate in Germania. Roberto d’Angiò, invece, per quanto non gli riuscisse di perforare le difese della Sicilia né di condizionare Giacomo II d’Aragona nella conquista della Sardegna, riuscì ad imporre la sua autorità su Genova; su Firenze; su Roma e su Ferrara in virtù dell’incondizionato appoggio di Giovanni XXII. Ancorché privo di mezzi finanziari e militari, infine, ingaggiò una dura azione di contrasto contro le Baronie oberando di tasse i sudditi; non riuscendo a far fronte al disagio economico del Regno; fallendo rovinosamente nel disegno di unificazione italiana sotto il suo solo scettro. Tuttavia, da tanti errori politici lo riscattò il suo mecenatismo, poiché Napoli godette di influenza e splendore per l’avvicendarsi a Corte di intellettuali di grande prestigio, da Boccaccio al Petrarca; da Simone Martini a Giotto.

Negli anni successivi, si susseguirono molti eventi nodali per la penisola: nel 1336, in Spagna morì Alfonso IV d’Aragona e gli succedette il figlio Pedro IV; nel 1337 si spense il Re di Sicilia Federico III d’Aragona cui subentrò il figlio Pedro II, contro ogni tentativo di Benedetto XII di assegnare l’isola agli Angioini napoletani; nel 1338 Ludovico il Bavaro emanò la costituzione Licet Juris, con la quale era fatto divieto al Papa di sfiduciare l’Imperatore la cui autorità proveniva direttamente da Dio; nel 1342 morì Pedro II d’Aragona e al trono siciliano ascese il figlio Ludovico, sotto la reggenza dello zio paterno Giovanni da Randazzo; il 16 gennaio del 1343 Roberto il Saggio, in una Napoli ormai strozzata dai banchieri guelfi di Lucca e Firenze, prima di morire designò alla successione la nipote Giovanna I, figlia di Carlo Duca di Calabria e moglie di Andrea d’ungheria; nel 1346 Ludovico il Bavaro simulò una volontà di pace respinta dal Papa che lo depose ed elesse al suo posto Carlo del Lussemburgo, malgrado i Principi Elettori restassero fedeli al Sovrano esautorato; nel 1347 l’Europa fu sconvolta dalla Peste nera: una catastrofe demografica a carattere epocale, con conseguenze terrificanti in politica, economia ed agricoltura; nello stesso anno Ludovico si spense e parallelamente Giovanna I d’Angiò, già vedova di Andrea d’Ungheria, sposò Luigi di Taranto; ancora nel medesimo anno, per effetto delle contrapposizioni baronali, la Sicilia ricadde nell’anarchia.

In Sicilia

Il 1347 fu un anno infausto per l’incrociarsi di negativi eventi di politica internazionale con la falcidie della Peste nera: un incubo terrificante che, in Sicilia, si saldò ai conflitti dei Baroni impadronitise delle terre demaniali. Sullo sfondo delle agitazioni locali, intensificandosi anche la guerra con Napoli, furono aperte trattative negoziali: alla morte di Pedro II, gli era succeduto il figlio minorenne Ludovico sotto la reggenza di Giovanni di Randazzo che, in una pragmatica visione della politica estera, aveva adottato una linea di prudenza nei contrasti fra Giovanna di Napoli ed il Re d’Ungheria. Con la mediazione di Clemente VI le parti si erano risolte ad un accordo nel quale la Corona partenopea rinunciava ai diritti sull’isola che accettava, pur come Stato autonomo, di rientrare nel vecchio Regno impegnandosi a sostenere militarmente Napoli in caso di necessità e prestandosi al versamento di un censo annuo di tremila onze alla Chiesa. Per converso, il Papa approvò la pace e revocò la scomunica lanciata sul Re e su tutti i Siciliani. Ma Giovanni di Randazzo fu stroncato dalla peste prima che il trattato fosse ratificato dal Parlamento e, morendo, elesse Vicario e tutore di Ludovico il catalano Blasco d’Alagona, inviso alle Baronie isolane. Pertanto, l’intesa non fu convalidata e fu necessario attendere l’insediamento di Federico IV il Semplice e il conforto di Gregorio XI, perché le trattative con Giovanna fossero riaperte, a condizioni pressoché immutate: Federico avrebbe dovuto versare quel contributo di tremila onze fino alla morte, prestando omaggio e fedeltà a Giovanna, Regina di Sicilia e dispensatrice del grazioso omaggio del Regno di Trinacria. Il Papa, per parte sua, impose altre clausole per sé: l’omaggio delle parti, poiché entrambi i Regni erano considerati feudi della chiesa; in mancanza di eredi maschi, l’ascesa al trono di Maria, figlia unica di Federico; infine, le nozze dello stesso Federico già vedovo, con Antonia del Balzo, cugina di Giovanna. Nel 1372, pertanto, il riconoscimento internazionale del Regno pose fine al lunghissimo conflitto. Tuttavia, da quel trattato, la Sicilia non trasse alcun beneficio: le lotte baronali ripresero; il Sovrano fu esautorato e la tensione si fece intollerabile.

In quel torbido clima di asperità politiche, il 25 giugno del 1377 Federico si spense passando alla Storia per le riforme civili raccolte nei Capitoli e per la suddivisione amministrativa isolana in quattro compartimenti: Val di Noto, Val di Demone, Val di Mazara e Val di Girgenti. Non lasciò eredi di sesso maschile e Artale Alagona governò in nome di Maria.

Ella aveva soli quattordici anni quando, incapace di sedare le Baronie dopo anni di vani tentativi di dirimerne le contese, il tutore costituì un Vicariato regio collegiale tra le quattro più importanti: Alagona, Chiaramonte, Peralta e Ventimiglia, così fondando il Governo dei Quattro Vicari Generali nel quale egli stesso agì quale Delegato della Corona.

Inizialmente la collegialità funzionò, ma gli scontri riemersero al momento di scegliere il marito della giovane Sovrana: mirando a mantenere il Regno nell’orbita degli interessi italiani ed a sottrarlo alla influenza spagnola, Artale d’Alagona si accordò segretamente con Giangaleazzo Visconti. Gli Aragonesi, invece, non avendo mai accantonato il progetto di unificazione dei troni, osteggiarono la scelta: Pedro IV negò il riconoscimento di quella successione; dispose il rapimento ed il trasferimento di Maria in Aragona; nel 1390 la maritò a Martino il Giovane, figlio del suo secondogenito Martino il Vecchio, stante il rifiuto del primogenito Giovanni. Dopo le nozze, nel rispetto della legge salica e in sprezzo di quanto fissato nella pace di Napoli, nella quale Maria pur veniva riconosciuta titolare del trono siculo, in nome della successione sveva egli stesso si autoproclamò Sovrano dell’isola e cedette il titolo allo sposo, con l’avallo dell’ antiPapa Clemente VII.

Tornato in Sicilia, Martino il Giovane vi sconfisse l’opposizione baronale e governò da solo. Vedovo nel 1402, sposò in seconde nozze Bianca di Navarra con la quale fissò Corte a Catania ma nel 1409, trentatreenne, si spense a Cagliari durante la conquista della Sardegna.

Gli successe il padre che mancò nell’anno successivo: estintasi la casa d’Aragona, la Sicilia visse un periodo di confuso interregno finché, nei Patti di Caspe, il diritto al trono fu riconosciuto a Ferdinando I, figlio cadetto di Giovanni I di Castiglia e di Eleonora d’Aragona, sorella di Martino il Vecchio.

Detto il Giusto, dopo aver sposato Eleonora d’Albuquerque, dalla quale ebbe otto figli, egli dichiarò l’isola Provincia del Regno aragonese e ne affidò il Vicariato alla Regina Bianca. Ma la più significativa delle iniziative politiche del suo breve governo fu l’aver deposto, nel 1416, l’ antiPapa Benedetto XIII così contribuendo alla conclusione del Grande Scisma che per circa quarant’anni aveva tenuto divisa la Chiesa.

A Ferdinando I successe Alfonso il Magnanimo che nel 1442, conquistato il Regno di Napoli, assunse il titolo di Rex Utriusque Siciliae ed unificò le due lacerate realtà dell’antico Regno.

A Napoli

Nel 1338 Roberto d’Angiò tentò la riconquista dell’isola aiutato dal Conte d’Artois e dall’ ammiraglio Gaubert ma, dopo una strenua resistenza, Palermo si arrese e Pedro IV che aveva tentato un riavvicinamento col Papa. Nel frattempo una nuova spedizione angioina aveva sconfitto la flotta siciliana guidata da Giovanni Chiaramonte e preso l’arcipelago delle Eolie. Parallelamente, Giovanni da Randazzo veniva nominato Vicario del Regno e, alla morte del Re, tutore del minore Ludovico, erede al trono.

Nel 1343 Giovanna I tentò di occupare la Sicilia ma una potente flotta posta a presidio dello stretto, l’offensiva di Luigi d’Ungheria e l’armata navale comandata da Raimondo Peralta piegarono le sue velleità. Ella fu costretta alla pace e ad al riconoscimento di Ludovico a Re di Sicilia. La scena, però cambiò di nuovo nel 1348 per effetto della morte di Giovanni di Randazzo. Il vicariato del Regno fu affidato a Blasco d’Aragona mentre l’isola si affacciava ad una nuova stagione di inquietudini; di anarchia feudale e di contrapposizioni fra Baronie complicate, nel 1353, dalla morte anche di Ludovico.

L’eredità chiamò in causa Federico IV. Benchè minorenne e sotto tutela prima della sorella Eufemia e poi del Conte di Geraci, contro la volontà del Consiglio di Corte egli sposò Costanza, figlia del Re d’Aragona Pedro IV. L’unione durò soli tre anni, poiché ella morì nel mettere al mondo la figlia Maria. Circa due lustri più tardi, nel 1372 Federico IV firmò un accordo col quale si accettò vassallo del Regno di Napoli: la centenaria guerra fra Napoli e Sicilia si concluse ed artefice della pace fu Gregorio XIX, che l’aveva suggellata con le nozze di Federico medesimo ed Antonia di Balzo.

Designata alla successione appena diciassettenne dal nonno Roberto il Saggio che ne subordinò l’incoronazione al compimento del venticinquesimo anno di età; figlia di Carlo Duca di Calabria e di Maria di Valois, Giovanna fu prima Regina per diritto ereditario di Napoli, di Gerusalemme e Sicilia, nonché Principessa di Acaia e Contessa di Provenza e Forcalquier.

Naturalmente, tutti i rami della dinastia generati da Roberto, dagli Angioini ungheresi e dagli Angioni Taranto/Durazzo protestarono: fra gli aspiranti al trono il favorito era Andrea, sostenuto da ampi settori aristocratici. Già nel 1333, solo settenne, egli aveva preso sposa la seienne cugina Giovanna ma la loro unione era stata resa infelice dalla diversità di carattere e cultura; dalla rozzezza di lui e dalla finezza di lei e, soprattutto, dalla relazione sentimentale che, fin dalla fase adolescenziale, ella aveva avviato con l’altro cugino Luigi di Taranto. Costui era figlio di Caterina di Valois, tesa a trasmettergli il titolo di Imperatore di Bisanzio ma ignara che il medesimo progetto era perseguito da Carlo di Durazzo, marito di Margherita, a sua volta nipote di Giovanna.

Le indicazioni testamentarie di Roberto il Saggio, in un rigurgito di rimorsi, prescrivevano che con Giovanna fosse incoronato il marito Andrea per diritto ed a ristoro dei danni che egli stesso aveva procurato a suo padre Carlo Roberto d’Ungheria spodestandolo. Ancorché giovanissima, appoggiata dall’Aristocrazia partenopea e da Clemente VI, che inviò il Cardinale Amerigo di san Martino ad annullare le indicazioni successorie e a prendere il temporaneo controllo del Regno, Giovanna si oppose energicamente a quelle disposizioni e verso l’inizio del 1343 assunse la corona riconoscendo al coniuge il solo titolo di Duca di Calabria. Andrea godeva della protezione del fratello Luigi I il Grande d’Ungheria: onde prevenirne eventuali ed ulteriori pretese, il 18 settembre successivo i partigiani della Regina lo assassinarono in un monastero di Aversa. L’omicidio, di cui ella fu ritenuta mandante, gettò pesanti ombre sui Durazzo e sui Taranto suscitando legittima e diffusa indignazione. La Corte papale fu costretta ad aprire un’inchiesta mentre poco più tardi Giovanna metteva al mondo il figlio Carlo.

I presunti responsabili del fatto di sangue furono regolarmente giustiziati, ma l’irrogata pena non placò la violenza della reazione di Luigi d’Ungheria che, irritato dalla impunità della cognata, nel maggio del 1346 protestò contro la sentenza del Tribunale avignonese esigendo la deposizione della Sovrana ed allestì una campagna militare di aggressione.

Indifferente al clamore suscitato dalla vicenda che pur continuava a chiamarla in causa come uxoricida, il 20 agosto del 1347 la Sovrana passò a nozze con Luigi di Taranto.

Il 3 novembre successivo, ritenendo l’atto un’ulteriore provocazione, il Re d’Ungheria mosse verso l’Italia entrando in Benevento ai primi del 1348, con l’appoggio della Nobiltà locale.

In previsione della presa di Napoli, dal canto suo, Luigi di Taranto radunò contingenti a Capua ma le Baronie assecondarono la causa dell’invasore.

Consapevole del pericolo, il 15 gennaio la Regina fuggì in Provenza e, raggiunta dal marito, si pose sotto la protezione della Chiesa mentre Luigi d’Ungheria prendeva Napoli dalla quale, affidandola a due fiduciari, si allontanava a causa dell’epidemia pestilenziale.

Nel contesto di uno spaventoso genocidio a carattere europeo in danno degli Ebrei, ritenuti responsabili del castigo divino della peste, ben presto la reazione napoletana al governo straniero si fece sentire e le coscienze nazionaliste di Popolo e Aristocratici si fusero consentendo alla Sovrana di riguadagnare il trono perduto e di liberare Napoli nell’agosto del 1348, mentre la Puglia resisteva ad oltranza alle sue milizie.

Gli scontri furono tanto violenti da indurre il Re d’Ungheria al riarmo e ad un secondo ritorno: ai primi del 1350, da Manfredonia egli marciò sulla Campania ma le sue truppe, estenuate dalla lunga guerriglia, gli chiesero di rinunciare. Così, in virtù della mediazione dei Legati papali, egli accettò di sottoscrivere una tregua ottenendo comunque l’apertura di un processo a carico della cognata.

L’inchiesta fu condotta ad Avignone ove, grazie alla influenza francese consolidata dalla cessione alla Chiesa della stessa città per ottantamila fiorini e grazie all’impegno del banchiere fiorentino Niccolò Acciaiuoli, Siniscalco del Regno, Giovanna fu dichiarata estranea all’accusa di uxoricidio e fu solennemente incoronata col nuovo coniuge nel maggio del 1352.

Dieci anni dopo ella restò di nuovo vedova ma, nel giro di un anno, contrasse terze nozze col Re di Maiorca Giacomo IV e, quando nel 1375 anch’egli si spense, passò al quarto matrimonio con Ottone di Brunswick.

Nel marzo del 1354, intanto, agguerrite legioni partenopee sbarcarono a Milazzo causando rovine e lutti e, nel successivo aprile, quattro galee raggiunsero Palermo ove Niccolò Acciaiuoli fu accolto come un trionfatore.

Le contrapposizioni fra fazioni scatenarono una terribile guerra civile, aggravata da carestia ed epidemie mentre le Baronie partigiane degli Angioini attaccavano invano Catania: in ottobre, una grande strage di civili insanguinò Milazzo, fatta segno di un nuovo attacco congiunto terra e mare guidato da Enrico Rosso ed Artale d’Aragona. Poi, nel 1361 una seconda epidemia di peste scosse l’Occidente: fame e morte indussero alla tregua conclusa nel 1372, quando Federico III d’Aragona accettò di riconoscersi vassallo del Papa e degli Angioini.

Negli anni successivi, Giovanna attese al consolidamento della monarchia; alla lotta ai Visconti, a sostegno del Papa; alla riorganizzazione dello Stato e al contrasto al diffuso brigantaggio, sullo sfondo di complotti, rivolte ed intrighi.

Era la fase del Grande Scisma quella in cui ella, priva di eredi dopo la morte dell’unico figlio, decise di designare alla successione il nipote Carlo III di Durazzo. Ma proprio la sete di potere di costui e l’inasprirsi della lacerazione interna alla Chiesa incrinarono i rapporti di parentela. Nel 1378, infatti, per aver aderito alla causa dell’avignonese Clemente VIII contro il Pontefice romano Urbano VI, i cui referenti aveva fatto arrestare a Napoli, Giovanna fu processata per eresia; scomunicata quale scismatica e, nell’aprile del 1380, deposta: tempestivamente Carlo si armò contro di lei che replicò revocando l’adozione ed indicando suo erede Luigi I d’Angiò, fratello di Carlo V. Tuttavia, la morte del Sovrano francese e l’obbligo della sua reggenza per il nipote minorenne Carlo VI, avvantaggiarono Carlo di Durazzo che, con le agguerrite e solidali truppe del Re d’Ungheria, si abbattè sul Regno: il 16 luglio del 1381 vi sconfisse Ottone di Brunswick; lo prese prigioniero ed assediò Castel dell’Ovo ove arrestò Giovanna, deportandola nella fortezza di Muro Lucano.

Mentre Carlo III di Durazzo spadroneggiava nella penisola, ad Avignone l’antiPapa Clemente VII infeudava del Regno di Napoli Luigi I d’Angiò, pronto a muovere verso l’Italia. Fu in questo regime di odio e di rivalità che, Sovrano assoluto, Carlo III decise di rimuovere drasticamente ogni ulteriore elemento di condizionamento ai suoi propositi, ordinando l’assassinio della Regina: Giovanna fu strangolata il 12 maggio del 1382 a Muro Lucano.

Luigi d’Angiò era solo.

Clemente VII anatemizzò l’usurpatore, mandante del delitto. Ma non fu l’unica scomunica: anche il legittimo Papa, alle cui incalzanti pretese Carlo ritenne di dover porre argine, da Nocera lo anatemizzò rivendicando i diritti della Chiesa sul Regno. Per contro, il viaggio di Luigi d’Angiò, privato di ogni legittima prospettiva, si concluse alla fine del 1384 in Puglia con la morte improvvisa.

Carlo III insediò la dinastia Angiò/Durazzo sul trono partenopeo, ignaro che i suoi figli, Ladislao e Giovanna II, sarebbero stati causa del definitivo tracollo angioino e della conquista del Regno da parte di Alfonso V d’Aragona.

Dopo Carlo III

Carlo III, Re di Napoli e detentore del titolo di Re di Gerusalemme dal 1382 al 1386, Re d’ Ungheria col nome di Carlo II il Breve dal 1385 al 1386 e Principe di Acaia dal 1383 al 1386, era figlio di Luigi III Duca di Durazzo e di Margherita di Sanseverino; nel 1369 marito di Margherita, figlia di Maria d’Angiò sorella di Giovanna I; cugino e nipote della Regina dalla quale fu adottato come unico discendente del ramo principale degli Angioini partenopei.

Il suo insediamento coincise con anni travagliati e difficili per la vita del Regno in particolare quando Urbano VI, scontento per non aver riscosso i compensi stabiliti in cambio dell’appoggio alla sua causa, scese in campo per reclamarli: assediato per mesi nel castello di Nocera lo anatemizzò in vana attesa della sottomissione, prima di aprirsi una via di fuga per Genova.

Nel settembre del 1382 morì Luigi I d’Ungheria lasciando il trono alla figlia Maria. Risolta la controversia col Pontefice, Carlo si precipitò a Buda per rivendicarne il trono e nel dicembre del 1385, col favore di Popolo e Nobiltà, spodestata la giovane Sovrana, si cinse della corona d’Ungheria col nome di Carlo II. Tuttavia la vedova Elisabetta lo fece assalire da un gruppo di sicari agli inizi del 1386; rinchiudere nella prigione di Visegrad; avvelenare il 24 febbraio del 1386. Le sue spoglie furono ricomposte a Belgrado. Entrambi i figli, Ladislao I e Giovanna II, si avvicendarono alla guida del Regno, ultimi Sovrani di quella spietata ed invisa dinastia.

Appena dopo il decesso di Carlo III, costituito un Consiglio di Magistrati che reggesse il Regno, i sostenitori degli Angioini salutarono Re Luigi II, erede di quel Luigi I designato alla successione da Giovanna I. Così, il Regno fu attraversato da una pesante guerriglia che, nel 1387, costrinse la reggente Margherita ed il giovane figlio alla fuga a Gaeta.

Nel 1390, fu Bonifacio IX, al secolo il napoletano Pietro Tomacelli, ad esporsi contro Luigi II ed a favore di Ladislao, incoronato Re d’Ungheria e Dalmazia il 5 agosto del 1403 a Zara, in opposizione a Sigismondo di Lussemburgo sposato a quella Maria la cui madre aveva fatto avvelenare Carlo III.

Ventitreenne, nel 1399 Ladislao si era già lanciato nella difesa di Napoli, imponendosi Sovrano assoluto e costringendo Luigi a tornare in Francia malgrado l’ampio sostegno di Tommaso Sanseverino: ambizioso, spregiudicato e sanguinario quanto il padre, dopo aver inflitto senza tregua ai nemici catene di lutti, amministrò con proterva crudeltà il potere; si affermò spietato capo politico e militare; consolidò la monarchia; signoreggiò su Roma, donde mosse contro Firenze; inseguì, infine, il sogno di costruire una realtà statuale peninsulare, coesa sotto la corona di Napoli e le insegne dei Durazzo.

Anche la sua vita privata fu tormentata ed inquieta: il 29 maggio del 1390, quattordicenne, sposò l’infelice Costanza di Clermont, ripudiandola dopo due anni; nel febbraio del 1403, passò a seconde nozze con Maria di Lusignano, Principessa di Cipro e Gerusalemme, figlia del Re Giacomo I, sopravvissuta un solo anno; nel 1406, s’invaghì dell’irriducibile Maria d’Enghien, vedova di Raimondo Orsini del Balzo. Nella campagna di sottomissione del Principato di Taranto e della Contea di Lecce di cui ella era Reggente per il figlio Giovanni Antonio, pur di porre fine alla guerra, la impalmò e, in forza del rito officiato il 23 aprile 1407, assunse il titolo di Principe di Taranto, usurpandolo al legittimo erede.

In sostanza, Ladislao non fissò limiti alla sua aggressiva avidità al punto da soverchiare anche la Chiesa: nella primavera del 1408, per dirimere lo scisma che contrapponeva Gregorio XII all’antipapa Benedetto XIII, dopo aver incassato il dominio di Benevento, li depose entrambi e nel successivo 26 giugno fece eleggere Alessandro V ponendosi come minaccia per la stessa Roma sulla quale aspirava già ad imporre la sua signoria. Malgrado la città gli resistesse con energia, soprattutto sotto il pontificato di Gregorio XII, non recedette dai suoi propositi né si ritenne pago della resa di Perugia e della estensione della propria autorità fino all’Umbria: in una manciata di mesi, organizzò la marcia su Firenze e sugli Stati settentrionali, sprezzante della Lega costituita contro di lui da Firenze stessa, Siena, Bologna ed Alessandro V.

Il Papa, a quel punto, lo scomunicò ed invitò in Italia Luigi II d’Angiò come Re di Napoli, mentre gli eserciti della coalizione tentavano la liberazione di Roma: Ladislao aveva già venduto alla Repubblica di Venezia i suoi diritti sul Regno di Dalmazia per la somma di centomila ducati quando, ai primi del 1410, malgrado l’adesione di Genova alla sua causa, il compatto fronte d’opposizione lo travolse prendendo Roma.

Non valse, in quel caso, quel suo motto Aut Caesar, Aut Nihil poi adottato da Cesare Borgia come grido di battaglia per il medesimo disegno di costruzione di un unico grande Regno. Tuttavia, malgrado le perdite, il pugnace Sovrano continuò a far tremare l’Italia finché Luigi d’Angiò tornò dalla Francia in coincidenza della elezione dell’antiPapa Giovanni XXIII, a seguito della morte di Alessandro V. Da quel momento gli eventi si susseguirono a ritmo febbrile: nel 1411, Ladislao siglò la pace con Firenze e Siena isolando il nemico angioino che, su richiesta delle sue sfinite truppe borgognoni, recedette dall’impresa. Era la seconda ed ultima volta che Luigi rinunciava alla presa del trono napoletano: nel 1417 sarebbe morto, mentre i programmi del rivale incontravano la sola resistenza della Chiesa comunque priva di mezzi militari adeguati a contenerli. Tanto che, per evitare un ulteriore e drammatico scontro armato, nel giugno del 1412, Giovanni XXIII abbandonò la causa francese; designò Ladislao Gonfaloniere della Chiesa; lo investì del Regno di Napoli non percependo che egli accettasse per solo guadagnare tempo rispetto ad una più articolata spedizione. Ed infatti, nel 1413, mentre il legittimo Pontefice Gregorio XII riparava alla corte malatestiana di Rimini, infranta l’alleanza col Primate scismatico e supportato dagli Sforza, Ladislao occupò Roma; la saccheggiò e passò nelle Marche accingendosi, all’inizio del 1414, ad invadere anche Firenze e le regioni del Nord.

Fu solo l’insorgenza di una malattia a fermarne le velleità egemoni: l’irriducibile Sovrano si spense trentottenne, il 6 agosto del 1414 forse avvelenato, dopo avere speso i suoi anni e le sue energie in danno della eterogenea realtà politica italiana ed in particolare del Papato.

In assenza di prole legittima, al trono di Napoli ascese sua sorella Giovanna II detta Giovannetta, dai costumi licenziosi quanto quelli dell’ava che l’aveva preceduta un trentennio avanti. Ella fu formalmente eletta nel 1416, mentre al soglio siciliano ascendeva Alfonso V il Magnanimo che riformò l’amministrazione pubblica isolana e sottrasse gran parte del potere ai feudatari.

All’atto dell’insediamento, vedova del Duca Guglielmo d’Austria, ancorché quarantunenne, fin dall’inizio del suo governo Giovanna II consentì ad una serie di favoriti, e per primo a Pandolfo Alopo, di amministrare la politica napoletana. La Corte, pertanto, le consigliò nuove nozze per per assicurarsi una discendenza che prevenisse il rischio di ulteriori rivendicazioni di Luigi II d’Angiò. Ella optò per il Conte de la Marche Giacomo II di Borbone e lo sposò il 10 agosto del 1415, negandogli il titolo regio e conferendogli solo quello di Principe di Taranto e Duca di Calabria. Ma, poco dopo le nozze, egli ordinò la decapitazione dell’Alopo e, costretta la moglie a riconoscergli il rango di Re, introdusse a Corte una serie di funzionari francesi a lui devoti urtando la suscettibilità della Nobiltà napoletana.

La reazione esplose nel settembre del 1416, quando la città fu infiammata da torbidi che lo indussero a rinunciare alle prerogative ed a riparare in Francia ove vestì il saio francescano fino alla morte, nel 1438. Fu in quella fase che Giovanna accolse nella sua alcova il Primo Ministro Giovanni Caracciolo detto Sergianni, terzo figlio del Ciambellano di Corte Francesco Caracciolo e marito di Caterina Filangieri. Intorno al 1425 costui era tanto potente da disporre del titolo di Gran Siniscalco del Regno, di Conte di Avellino, di Conte di Cerignola e di Duca di Venosa. La sua relazione con la Sovrana cominciò nel 1416, fondando su ambigui sentimenti ed ambizioni che gli consentirono di proporsi padrone del Regno con gravi conseguenze diplomatiche e politiche: nel 1419, consacrata unica e legittima Regina di Napoli ed aizzata da lui Giovanna ruppe i rapporti con Martino V che le aveva chiesto un sostegno economico per ristrutturare il suo esercito. La conseguente ostilità orientò il Papa in favore della discendenza di Carlo di Valois: Luigi III d’Angiò, riconosciuto legittimario del trono, invase il Regno. La situazione era assai critica ma il Papa medesimo, per ritagliarsi vantaggi dalla crisi in cui sembrava versare Giovanna, propose una pace surrettizia da negoziarsi a Firenze. L’ambasceria della Regina vi smascherò la doppiezza di Martino V, contando sul sostegno del potente Alfonso V d’Aragona, pronto a proteggere la Regina in cambio della nomina ad erede al trono. La circostanza indusse Luigi, malgrado l’appoggio fornitogli da Muzio Attendolo Sforza, a recedere dall’assedio di Napoli appena la flotta aragonese entrò nel porto: nel settembre del 1421, Alfonso era nella città ove, adottato successore della Regina, si pose in attesa dell’abdicazione ricevendo l’ omaggio dei Napoletani.

Detto il Magnanimo, l’ultimo discendente maschio del ramo principale angioino portò i titoli di Re di Napoli, Re di Gerusalemme, Re di Sicilia, Principe di Taranto, Conte di Provenza e Forzalquier e Sovrano d’Ungheria dal 1390 al 1414. Sembrava davvero destinato a sedere sullo scranno partenopeo quando, nel 1423, timorosa di essere spodestata ed ancora istigata dal Caracciolo, Giovanna revocò la designazione e ripiegò su Luigi III d’Angiò.

Il colpo di scena era verosimilmente scaturito proprio dall’animosità esibita da Alfonso verso il Caracciolo quando, contro il trasferimento della Corte a Castelcapuano, fissò la sua residenza in Castelnuovo. Lo scontro si formalizzò quando il Magnanimo ordinò l’arresto di Sergianni e l’assedio di Castel Capuano energicamente respinto dalla Regina. Dopo negoziati e scambio di prigionieri, tornato libero, gli amanti fuggirono ad Aversa ove Giovanna formalizzò l’impegno in direzione di Luigi d’Angiò, mentre Alfonso rientrava in Castiglia per ripianarvi le tensioni familiari, lasciando il governo di Napoli al germano Don Pedro.

Di fatto Sergianni continuò ad amministrare il Regno finché, il 23 agosto del 1432, cadde sotto i colpi di sicari di Corte: le fazioni aragonese e angioine ripresero a contrastarsi con rinnovato vigore e il Papa reclamò a gran voce il possesso del Regno.

Nel novembre del 1434 a Taranto, amatissimo dai sudditi Luigi III d’Angiò morì senza poter accedere a quel trono pur assegnatogli. Fu allora che, l’ormai anziana Giovanna decise di cedere la corona a Renato I d’Angiò: la sua morte, il 2 febbraio del 1435, concluse l’esperienza di dominio della dinastia Angiò-Durazzo sul Mezzogiorno peninsulare mentre il Regno era squassato da ulteriori contrapposizioni di parte.

Consegnata alla storia come donna corrotta e di liberi costumi, di certo ella ereditò una realtà complessa, difficile e concitata. Non a caso Benedetto Croce scrisse che «… veramente, fu, quella un’epoca battagliera e cavalleresca… Napoli e il Regno avevano allora aspetto guerriero: tutti attendevano alle armi, che erano principale cura di quella società impegnata in varie e continue lotte…».

In seguito alla sua morte, il Papa contestò la successione di Renato d’Angiò e accese la miccia di una nuova e sanguinosa guerra civile appesantita dalla presa di possesso del Regno da parte del Legato pontificio Vitelleschi. I Visconti sostennero la causa angioina assediando ed arrestando a Gaeta Alfonso d’Aragona. Poi, proprio tra costoro ed il prigioniero scattò quella imprevedibile solidarietà che nel 1442, con l’imprimatur papale, a lui valse l’investitura del primo Regno spagnolo di Napoli.

Ben tre pretendenti si erano, allora, contesi la corona: Alfonso d’Aragona, Renato d’Angiò e Papa Eugenio IV e, peraltro, il nuovo conflitto aveva coinvolto altre realtà di rilievo della politica italiana come il Duca milanese Filippo Maria Visconti, prima contrario e poi incline ad Alfonso; i Genovesi e i Veneziani.

La soluzione fu favorita dalla vittoria aragonese: perduta Napoli, nel 1442, Renato si dette alla fuga. Alfonso, Sovrano illuminato e generoso, riunì sotto il suo scettro, dopo due secoli e mezzo circa di lotte fratricide, tutte le martoriate terre del Sud dando vita al Regno delle due Sicilie cui, nel 1446, affiancò il controllo della Sardegna e conferendo al suo Stato il primato in tutto il Mediterraneo.

Egli si spense il 17 giugno del 1458, senza poter conquistare anche Genova. Prima di morire, lasciò Napoli al figlio naturale Ferrante e la Sicilia al fratello Giovanni così, dopo averle riunite, paradossalmente istituzionalizzando l’esistenza di due entità sovrane; dispose, inoltre, la sostituzione dei funzionari spagnoli con funzionari napoletani; ordinò al figlio di alleggerire il Popolo dalla pressione fiscale ed infine gli chiese di concludere paci con tutti gli Stati italiani.

Rilanciando la questione del vassallaggio del Regno al Papato, Callisto III rifiutò di convalidare la successione di Ferrante. Ma qualsiasi funesto evento avesse ancora potuto verificarsi, il peggio era passato anche se la decadenza dell’antico e prestigioso Regno normanno/svevo, ormai smembrato, era inesorabilmente cominciata: seppur desta dall’incubo angioino, sganciata dall’Italia meridionale e ridotta a Provincia aragonese, la Sicilia si isolò e Napoli, pur disponendo di superiorità demografica e territoriale, non ebbe mai la capacità di imporsi rispetto alle altre realtà italiane.

In definitiva, la più evidente e grave causa del regresso sociale, culturale, civile e politico dell’ Italia del Sud stette nella lotta dinastica straniera che oppresse le sue popolazioni per circa due secoli.

Bibliografia
M. Amari: Guerra del Vespro siciliano
B. Croce: Storia del Regno di Napoli
S. Tramontana: Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia

Ornella Mariani

Ornella Mariani, sannita. Negli anni scorsi: Opinionista e controfondista di prima pagina e curatore di Terza Pagina per testate nazionali; autore di saggi, studi e ricerche sulla Questione Meridionale. Ha pubblicato: saggi economici vari e:
Pironti ” Per rabbia e per amore”
Pironti ” E così sia”
Bastogi “Viaggio nell’ entroterra della disperazione”
Controcorrente Editore ” Federico II di Hohenstaufen”
Adda Editore “Morte di un eretico” – dramma in due atti
Siciliano Editore “La storia Negata”
A metà novembre, per Mefite Editore “Matilde” – dramma in due atti
A gennaio, per Mefite Editore “Donne nella storia”
Collaborazione a siti vari di storia medievale.

Ha in corso l’incarico di coordinatore per una Storia di Benevento in due volumi, (720 pagine) commissionata dall’Ente Comune di Benevento e diretta dal Prof. Enrico Cuozzo.

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