
Gli ebrei a Bevagna: la storia, o documenti di Alfredo Properzi
Nel suo libro “Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo” lo storico Ariel Toaff opera una ricognizione esaustiva intorno alla realtà sociale dell’insediamento ebraico all’interno della comunità medievale umbra. Lo spoglio di documenti presenti nell’Archivio Comunale di Bevagna gli consente di ricostruire la storia di ebrei nella città e di far emergere tradizioni, rituali, usi connessi con il matrimonio, l’idea della morte, le interrelazioni sociali, i rapporti quotidiani con la realtà cristiana.
È nell’ultimo scorcio del Duecento che da tempo è stato individuato uno dei periodi chiave nello sviluppo delle vicende degli ebrei italiani. Il fenomeno trae la sua origine dalla migrazione di mercanti ebrei romani, dediti al commercio del denaro nel Lazio, in Umbria, nelle Marche, in Toscana.
1) Sesso, amore e matrimonio.
Nella vita di ogni giorno sono le giovani cristiane, che si incontrano al mercato, nella piazza e nelle strade del paese, nelle case dei vicini, vestite alla moda e agghindate nei giorni di festa, che richiamano l’attenzione, che suscitano desideri e fantasie dei giovani ebrei. La donna che si sposava non era a forza la donna che si amava. I matrimoni erano infatti pattuiti e mercanteggiati dalle famiglie con grande prudenza, perché i giovani, più che amarsi, avevano necessità di sistemarsi nel migliore dei modi. Paradigmatico è il caso del giovane figlio di Mosè da Bevagna, un mercante di Spoleto, che nel 1480 la voce popolare diceva <<che andava vagheggiando Caterina>>, una fresca e prosperosa bellezza locale e con cui si incontrava senza nascondere il suo amore ardente e contrastato. Ciò non toglie che qualche anno più tardi Venturello convolasse a giuste nozze nella natia Bevagna con Stella, la figlia di un banchiere ebreo di Bologna.
A.C. Bevagna, Notarile, Crescimbene di Pietro di Percivalle,1539.
Nei matrimoni importante era la dote. Daniele di Abramo da Bevagna riceveva nel 1479 dalla moglie Fiore una dote di 100 fiorini d’oro, 78 in contanti e 22 in beni di corredo. Ad essa venivano aggiunti altri 7 fiorini e mezzo, equivalenti al costo del ricevimento di nozze.
A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gasparre, 1521 (confessio dotis del 3 novembre 1479).
Il banchiere Abramo di Isacco da Bevagna nel suo testamento del 1484 raccomandava ai suoi eredi di restituire, dopo la sua morte, alla moglie Ricca la dote di 100 ducati larghi d’oro, che gli aveva portato a suo tempo. Abramo aveva investito tale somma negli affari delle tre banche di cui era proprietario, a Bevagna, Assisi ed Amelia, ricavandone un utile netto l’anno del 16 per cento. Oltre ai denari liquidi della dote, la vedova doveva ottenere il possesso <<di tutti i panni di lino e di lana, gli anelli, i monili e le cinture di ogni tipo, conservate nel baule di detta donna Ricca>>. Nello stesso testamento Abramo registrava la dote che aveva consegnato a sua figlia Graziosa, quando si era sposata con un ebreo di Assisi. Il suo valore veniva stimato in 200 ducati larghi d’oro, di cui ben la metà in gioielli e indumenti di corredo: <<panni di lino e di lana, anelli e bracciali, busti e cinture, conservati in un baule di proprietà di donna Graziosa>>.
A.C. Bevagna, Notarile, Gasparre di Angelo, 1523 (testamento del 7 marzo 1484).
Il battesimo costituiva l’unica possibilità che una donna ebrea aveva di coronare il suo sogno d’amore con uno spasimante cristiano. Anche vedove con figli non rifuggivano da questo espediente per rinverdire la propria vita sentimentale, cercando un compagno che non avevano trovato in ambiente ebraico. Stella, rimasta vedova di Venturello, un ebreo di Bevagna dal quale aveva avuto due figli, ormai sposati, ed una figlia, prossima a maritarsi con un ebreo di Foligno, si battezzava nel 1486 per unirsi in matrimonio con un cristiano del luogo. La donna, che aveva assunto il nuovo nome di Mariangela, pretendeva ed otteneva dai figli la restituzione della dote di 50 fiorini, che a suo tempo aveva portato al marito Venturello.
A.C. Bevagna, Notarile, Crescimbene di Pietro di Percivalle, 1539 (26 maggio 1486).
Tuttavia qualche mese più tardi la donna lascia gran parte della somma, che nel frattempo ha ricevuto, per contribuire alla costituzione della dote della figlia Gentile che, non essendosi convertita al cristianesimo, va in isposa ad un ebreo di Foligno.
A.C. Bevagna, Notarile, Crescimbene di Pietro di Percivalle,1539, 26 maggio 1486.
2) Senso della morte e amore per la vita.
I fedeli ebrei ritenevano opportuno bilanciare i lasciti pii in favore di istituzioni benefiche del mondo ebraico con altri lasciti in favore di istituzioni benefiche, espressioni della società cristiana. Ce lo dice esplicitamente il mercante Abramo di Isacco, ricordando nel suo testamento del 1484 il comune di Bevagna. <<Lascio al comune di Bevagna la somma di 10 fiorini, in ragione di 40 bolognini per fiorino, da spendere per l’acquisto di due vasi d’argento da donare a detto comune in suo onore e per sua utilità. Questo lascito faccio memore dei molti benefici, che io testatore ho ricevuto dal comune di Bevagna, e nella speranza che tali benefici possano essere rinnovati in futuro e trasferiti dopo la mia morte ai miei figli>>. Abramo da Bevagna aveva giocato a carte scoperte, ma era poco fortunato. Qualche mese dopo la sua morte, nel 1485, i suoi figli erano arrestati sotto l’accusa di avere crocifisso un bambino cristiano del luogo e, dopo un pericoloso processo, subivano una pesante multa ed erano banditi da Bevagna.
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1523 (testamento di Abramo da Bevagna, 7 marzo 1484).
3) Stregonerie, malefici e omicidi rituali
L’accusa più grave che venne mossa nei confronti degli ebrei nell’ultimo scorcio del Quattrocento è quella di omicidio rituale. Di un caso di omicidio rituale, o meglio di un tentato omicidio rituale, avvenuto a Bevagna nel 1485, ci rimane una sorprendente ed esemplare testimonianza. Nella seconda metà del Quattrocento vivevano a Bevagna due o tre famiglie ebraiche in tutto. Di queste la più importante e numerosa era senza dubbio quella di Abramo da Perugia. Abramo, figlio di Isacco di maestro Musetto, era nato a Perugia nel 1424 da famiglia di mediocre estrazione, e nella sua città natale sposava nell’estate del 1449 Rosa di Giacobbe, una ragazza di Bevagna, che gli portava una modesta dote di 100 fiorini. Da questa unione gli sarebbero nati cinque figli maschi, Bonaventura, Daniele, Gabriele, Michele e Giacobbe, e due femmine Graziosa e Stella. Negli anni immediatamente successivi al suo matrimonio, Abramo si trasferiva a Bevagna, la città della moglie, e qui costruiva passo dopo passo la sua fortuna. Vi apriva un banco, specializzato nel prestito su pegno o su garanzia immobiliare, in genere per piccole somme, che raramente superavano i 50 fiorini, destinato essenzialmente al fabbisogno della popolazione cittadina e rurale della zona. Il comune faceva ricorso al banchiere per ottenere dei mutui a tasso agevolato e spesso per riuscire a pagare il modesto salario del podestà. Rapporti stretti e cordiali erano pure quelli con il clero locale, ed in particolare con i canonici della chiesa di S. Maria Laurentia, che non esitavano a servirsi del banco dell’ebreo per le loro necessità. Il banco di Bevagna, il primo e l’unico ad essere regolarmente convenzionato con il comune, aveva notevolmente sviluppato il suo giro d’affari e attirava i depositi e gli investimenti dei maggiori finanzieri ebrei di Perugia e Foligno. Finalmente Abramo di Isacco da Bevagna, come era adesso chiamato avendo perso il toponimo perugino, diveniva nel 1465 socio di Giacobbe di Elia di Francia nell’importante banco di Assisi. Contemporaneamente il banchiere bevignate consolidava la sua posizione nella città di residenza, costruendosi una casa di prestigio e adeguata al suo rango. Nell’inverno del 1473 Abramo comprava dal banchiere Ventura di Abramo da Perugia una villa signorile, circondata da un giardino con pozzo, posta nella <<Vaita>> S. Angelo, in via Vecchia, pagandola il prezzo di 225 fiorini. Immediatamente il nuovo proprietario investiva altri 45 fiorini, commissionando, alcuni lavori di miglioria e di ampliamento dell’immobile. Qualche anno più tardi i suoi figli avrebbero allargato ulteriormente la già grande casa di famiglia, aggiungendole due edifici contigui, acquistati al prezzo di altri 110 fiorini. La grande villa di Bevagna doveva essere sempre in grado di ospitare figli e parenti con le rispettive famiglie ed il banchiere, nel suo testamento, proibiva severamente ai suoi eredi di venderla o comunque di alienarne, anche in parte, la proprietà. Agli inizi degli anni ottanta del secolo, Abramo da Bevagna poteva ben dirsi un uomo benestante. Era proprietario dei tre banchi, che operavano con convenzioni esclusive a Bevagna, Assisi ed Amelia, ed aveva interessi finanziari (depositi, investimenti) a Spoleto, Foligno e Perugia. A Bevagna Abramo si occupava saltuariamente del commercio del grano, dell’orzo e del vino ed aveva numerosi capi di bestiame, dati a soccida a contadini del luogo. Oltre alla casa nel quartiere S. Angel, il banchiere ebreo possedeva numerosi terreni arativi e da pascolo, vigne e oliveti nel contado all’Arquata, a Torre del Colle, a Pretalata, a Cerqueto e ai Pantani. Abramo era quindi un uomo ricco, che aveva saputo farsi quasi dal nulla. Ma non sempre era stato fortunato e i casi della vita non lo avevano certo risparmiato. Suo figlio Giacobbe periva tragicamente, insieme alla sua giovane moglie, nel 1477, lasciando un figlio, Angelo, in tenera età. Al nonno toccava prendere cura e provvedere alle necessità dello sfortunato nipote nella casa di Bevagna. Nel 1482 veniva a morte improvvisamente suo genero, Mosè da Assisi, che gestiva gli affari del banco di Amelia, ed Abramo non esitava a riprendere a casa la figlia Graziosa, rimasta vedova, che portava con sé due figlie da culla. Intorno al 1468 veniva a morte sua moglie, Rosa di Giacobbe, che gli aveva dato sette figli, e due anni dopo, all’età di 44 anni, Abramo si risposava con una vedova di Perugia, Ricca, figlia di Mele di maestro Bonaventura. Insieme ad una dote di 200 ducati larghi d’oro, la seconda moglie gli portava due figli, Israel, chiamato in italiano Signorello, e Zingara, che la donna aveva partorito dalla sua esperienza matrimoniale con Elia di maestro Bonaventura da Ferrara, un ebreo di Perugia. Ricca, da parte sua, gli partoriva altri tre figli, Perna, Raffaele e Abramuccio. Quando il 7 marzo 1484, Abramo, avendo compiuto i sessanta anni, chiamava il notaio Gaspare di Angelo, per stendere le ultime volontà, la casa di via Vecchia doveva risuonare piena di vita. A parte la servitù e, naturalmente, il vecchio banchiere e sua moglie Ricca, vi si trovavano altre quattordici persone: il figlio di Abramo, Daniele, ormai adulto, con la moglie Fiore, sposata nel 1479, altri due figli di Abramo dal primo matrimonio, Gabriele e Michele, ragazzi che non avevano raggiunto il venticinquesimo anno di età, come del resto Signorello e Zingara, i due figli di primo letto di Ricca; inoltre Graziosa, figlia di Abramo, rientrata nella casa di Bevagna con due figlie in tenera età, dopo essere rimasta vedova a Amelia, e Stella la figlia più piccola del banchiere bevignate con la prima moglie; infine in giardino giocavano probabilmente quattro bambini, Perna, Raffaele e Abramuccuio, i tre figli del banchiere con la seconda mogli, tutti nati dopo il 1470, ed Angelo, nipote di Abramo, il bambino di Giacobbe, scomparso prematuramente sette anni prima. Nel suo testamento il vecchio banchiere lasciava eredi in parti uguali tutti i suoi figli, di primo e secondo letto, e suo nipote Angelo, mentre ad ognuna delle tre figlie destinava una dote di 200 fiorini. La moglie Ricca era nominata usufruttuaria ed amministratrice delle sue sostanze, finché avesse mantenuto lo stato vedovile, mentre la tutela dei minori, figli e nipoti, fino alla maggiore età, Abramo affidava al suo primogenito Bonaventura. Questi era l’unico che non si trovava a Bevagna, perché per incarico di suo padre gestiva il banco di Assisi, il più importante della famiglia, che esigeva la continua presenza in loco del suo responsabile. Comunque le visite di Bonaventura alla casa di Bevagna, per vedere il padre e i fratelli, erano frequenti e non si limitavano alle feste religiose e agli incontri d’affari. In quelle occasioni egli non mancava di portare con sé la moglie, Amata di Dattilo da Fano, e i tre figli, Elia, Deodato e Caracosa, felici dell’occasione che ogni viaggio a Bevagna presentava di riabbracciare il nonno e di giocare con zii e cuginetti. Qualche mese dopo, tra il maggio e il settembre del 1484, Abramo veniva a morte, presumibilmente soddisfatto di quanto era riuscito a costruire nel corso della sua vita e della larga famiglia che lo circondava nella bella casa di Bevagna. Nel testamento Abramo disponeva una certa somma a favore della sua città, spiegando così i motivi della sua generosità: <<Questo lascito faccio memore dei molti benefici, che io testatore ho ricevuto dal comune di Bevagna e nella speranza che tali benefici posano essere rinnovati in futuro e trasferiti, dopo la mia morte ai miei figli>>. Era un modo previdente, benché ingenuo, di ipotecare il futuro, cercando di assicurare alla sua famiglia quella sicurezza che i recenti avvenimenti sembravano minacciare. Ma le cose si sarebbero svolte diversamente e Abramo, avendo chiuso gli occhi qualche mese prima, si sarebbe risparmiato i dolori, le preoccupazioni e le tragedie che i suoi figli avrebbero invece affrontato. In questo contesto è da collocarsi l’accusa, mossa contro i figli di Abramo da Bevagna, di aver tentato di compiere un omicidio rituale nei giorni de
lla Pasqua di quell’anno. A denunciarli era la stessa presunta vittima del crimine, Pietro Antoniuccio, un bambino di Bevagna, appartenente ad una famiglia di poveri contadini. Questi riferiva di essere stato attirato nel giorno di venerdì santo a casa degli ebrei, nel quartiere S. Angelo, da Zingara, la figlia di Ricca. Qui Daniele e i suoi fratelli lo avrebbero spogliato e, dopo averlo frustato e ferito alle mani e ai piedi con una verga appuntita, lo avrebbero crocifisso ad una croce di legno, raccogliendone il sangue in appositi recipienti. Nei giorni successivi giungeva a Bevagna fra Battista da Terni, inquisitore della provincia di S. Francesco, con l’incarico di indagare sui fatti e di punire severamente i responsabili. L’inchiesta del frate inquisitore s svolgeva dal10 aprile al 10 giugno e portava all’interrogatorio di una quindicina di testimoni, tra cui i parenti di Pietro Antoniuccio. Il padre del bambino, Liberatore Allevoli, riferiva di essersi trovato quel giorno fuori città per le indulgenze e di essere venuto a conoscenza dei fatti dal racconto del figlio, dopo essere rientrato a Bevagna. La madre del bambino, Allegrezza, riferiva che il giorno in cui suo figlio sosteneva di essere stato crocifisso dagli ebrei, non si trovava in città per essersi recata a Montefalco ad assistere alla predica di un frate. Maestro Lorenzo, il medico condotto di Bevagna, ad esempio, riferiva di essere stato chiamato a casa di Daniele nel giorno di venerdì santo per sistemare la frattura di una persona della sua famiglia e di avervi trovato venticinque ebrei, tra locali e forestieri, che facevano baldoria. La spiegazione vera e più semplice, che la famiglia di Abramo da Bevagna stesse celebrando quella sera la cena tradizionale della Pasqua ebraica, cui erano stati invitati, come d’uso, numerosi commensali di fuori, non era presa minimamente in considerazione dagli zelanti testimoni né dai padri inquisitori. Un vicino di casa degli ebrei riferiva di essere solito alzarsi presto la mattina per coltivare il suo orto. << All’alba di lunedì 16 maggio (1485) – proseguiva il teste- ho viso un ebreo forestiero uscire furtivamente dalla casa di Daniele con un pesante fardello sulle spalle e, inforcato il cavallo, percorrere al galoppo una via segreta lungo le mura, per uscire da Bevagna dalla Porta S. Giovanni. Il 10 giugno 1485 fra Battista da Terni ordinava ad Andrea di Filippo Leri da Assisi, podestà di Bevagna, di consegnare nelle sue mani i fratelli Daniele, Gabriele e Signorello, perché fossero detenuti nel convento di S. Francesco fino all’emissione della sentenza. Alla fine Daniele, Gabriele e Signorello erano banditi da Bevagna e la loro famiglia era condannata al pagamento di una multa di 200 ducati d’oro.
Nella casa di Abramo a Bevagna era intanto rientrato con la sua famiglia, il figlio primogenito Bonaventura che era stato costretto ad interrompere la sua attività ad Assisi, chiudendo i battenti del banco locale. Dall’ottobre del 1485 Bonaventura diveniva la guida responsabile degli affari di tutta la famiglia. Nel 1496 Bonaventura moriva improvvisamente, quando ancora non aveva compiuto i 45 anni di età, lasciando la moglie e tre figli ancora minorenni. Quel che era più grave, la famiglia perdeva il suo capo ed il peso delle responsabilità veniva a cadere tutto sulle spalle del giovane Gabriele, ancora inesperto e incapace di sostituirsi al fratello alla guida dell’azienda familiare. Uno degli ultimi avvenimenti, che rallegravano la vita della grande casa degli ebrei, sulla via Vecchia, nel quartiere S. Angelo a Bevagna, divenuta ormai in gran parte vuota, era il matrimonio del giovane Angelo, orfano di Giacobbe, l’unico figlio di Abramo morto quando il padre era ancora vivo. Il 29 ottobre 1500 la villa si addobbava a festa per celebrare le nozze di Angelo con Perna di Abramo da Sarnano, una ragazza marchigiana che gli portava una modesta dote di 110 fiorini. Qualche anno dopo nuove nubi si addensavano sui pochi ebrei, che continuavano ad abitare insieme a Gabriele nella casa di famiglia a Bevagna. Alla fine del mese di febbraio 1504, Cerbone, un <<balordo>> ricoverato all’ospedale di S. Maria dei Laici, dava pubblicità ad una tremenda esperienza, di cui sarebbe rimasto vittima nella notte del Venerdì di Carnevale, quando una schiera di spiriti maligni lo aveva assalito nel suo letto, sottoponendolo ad atroci torture. Il giorno dopo Cerbone era andato, come al solito, a mendicare per le strade di Bevagna e si era premurato di riferire ai passanti la sua tremenda avventura, aggiungendo il particolare che, negli spiriti diabolici che lo avevano assalito, aveva riconosciuto senza ombra di dubbio alcuni degli ebrei viventi in città. In un baleno si era diffusa a Bevagna la fama che ancora una volta Gabriele e i suoi fratelli si erano resi responsabili di un orrendo crimine contro la religione cristiana, mentre lo sdegno della popolazione contro gli ebrei montava sempre di più. Nello spazio di pochi anni, era la seconda volta che la famiglia di Abramo da Bevagna si trovava a dover affrontare un’accusa di tale gravità. La residenza di Gabriele e dei suoi fratelli a Bevagna si era fatta sempre più difficile, mentre la condizione economica della loro famiglia era divenuta tutt’altro che stabile. Chiuso il banco di Assisi nel 1485, chiuso quello di Amelia nel 1507, Gabriele continuava a reggere le sorti del banco di Bevagna, l’ultimo rimasto nelle mani della famiglia, fino all’estate del 1512; poi non ce la faceva più a proseguire la sua attività e desisteva. Di lì a qualche mese anche la grande casa degli ebrei di Bevagna, con il giardino e il pozzo, sulla via Vecchia, la casa che co orgoglio il vecchio Abramo considerava il simbolo del suo successo economico e il segno della sua faticosa e riuscita integrazione nella vita sociale cittadina, era abbandonata agli sterpi e alle ortiche, in attesa di nuovi proprietari disposti a non lasciarsi impressionare da quanto la gente mormorava fosse successo in quelle stanze.
Nel 1466 Abramo aveva pagato per conto del comune di Bevagna il salario del podestà Antonio Pierneri (A.C Bevagna, Consigli e Riformanze, 130.reg 1; Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521; Notarile Gaspare di Angelo,1523 bis.
Avevano depositi nel banco di Abramo da Bevagna i banchieri Ventura di Abramo da Perugia, Angelo di Musetto da Camerino, abitante a Foligno, e Aronne di maestro Zucchero da Foligno (A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521, c2232v; A. C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1520, c 150v.)
A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521; A.C. Bevagna, Notarile, Giacomo Lucangeli, 1529; A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare 1529.
A. C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521; Crescimbene di Pietro di Percivalle,1536; Pernicola Ciccarelli,1559; Giacomo Lucangeli, 1529; Gaspare di Angelo, 1520; Bernardino di Giacomo, 1528; Crescimbene di Pietro di Percivalle, 1543; Giacomo Lucangeli, 1530.
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1523
Nella “confessio dotis” del 3 novembre 1479 Fiore di Daniele portava al marito Daniele di Abramo di Bevagna una dote di 107 fiorini e mezzo (A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521)
La famiglia di Abramo da Bevagna costituisce un esempio tipico di quella che storici e sociologi, riferendosi alla società nobiliare e mercantile italiana del periodo, definiscono <<famiglia patriarcale multipla>>, dove la proprietà è collettiva e indivisa, e tutti i figli sposati coabitano con la coppia dei genitori. La composizione della famiglia di Bonaventura di Abramo si trova in A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo,1523 bis. (28 dicembre 1496).
L’ultimo documento in cui Abramo di Isacco da Bevagna appare ancora operante è dell’8 aprile 1484 (A.C Bevagna, Notarile Crescimbene di Pietro di Percivalle, 1538. I suoi figli Daniele e Gabriele sembrano averlo già sostituito nella gestione del banco di Bevagna agli inizi del successivo mese di novembre (A.C Bevagna, Notarile, Gaspoare di Angelo,1523; Crescimbene di Pietro di Percivalle,1538).
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1523.
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Pietro di Percivalle, 1539. Ho avuto la fortuna di rintracciare gli atti dell’inchiesta del frate inquisitore in un foglio usato come copertina del bastardello n.1539 del notaio Gaspare di Pietro di Percivalle, conservato all’Archivio Comunale di Bevagna. Per poter leggere il contenuto, ho dovuto sciogliere la legatura del protocollo, liberando la copertina pergamenacea dal resto del volume. La ricostruzione del testo, in parte danneggiato, cancellato e lacunoso, è stata possibile grazie all’aiuto della dr.ssa Marta Gaburri di Bevagna e all’esperta consulenza di Giocondo Ricciarelli di Perugia.
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1523 (22 luglio 1485).
Nel 1486 Bonaventura figura nei documenti come <<erede di detto Abramo da Bevagna, tutore e amministratore delle sostanze e fattore della casa degli altri suoi fratelli, cioè Daniele, Gabriele e Michele e dei suoi nipoti Abramuccio e Angelo>>. (A.C. Bevagna, Notarile Crescimbene di Pietro Di Percivalle, 1541).
Dall’ottobre del 1485 troviamo Gabriele di Bevagna ad Amelia, dove segue gli affari del banco di famiglia. Il suo nome ricompare nei documenti di Bevagna a partire dal 7 luglio 1490. In quell’occasione, insieme a Bonaventura, riceveva la procura degli altri fratelli Daniele e Michele A.C. Bevagna, Notarile, Crescimbene di Pietro di Percivalle,1541.
A.C. Bevagna, Notarile, Gaspare di Angelo, 1523 bis (28 dicembre 1496)
A.C. Bevagna, Notarile, Pietro Crescimbene di Percivalle, 1544(28 febbraio 1504)
L’ultimo documento che abbiamo reperito, riguardante l’attività del banco di Gabriele a Bevagna è del 9 marzo 1512. Il 24 maggio successivo l’ebreo provvedeva alla vendita del patrimonio immobiliare della sua famiglia nel contado (A.C. Bevagna, Notarile, Crescimbene di Pietro di Percivalle,1545). Negli anni successivi i cittadini di Bevagna si servivano per le loro necessità del banco di Angelo di Vitale da Camerino, a Trevi, che era rimasto uno dei più importanti banchi ebraici in Umbria (A.C. Bevagna, Consigli e Riformanze, cartella 8C.7).
4) Il copione della discriminazione
In generali frati e preti sono tra i clienti più assidui del banchiere ebreo, cui chiedono piccoli prestiti al consumo, depositando come libri d’ore, bibbie e breviari. Ma anche istituti religiosi, chiese, monasteri e ospedali non sono da meno e spesso e volentieri fanno ricorso ai banchi degli ebrei, incuranti del divieto canonico e delle roventi prediche anti usurarie. Nel 1455 è la chiesa di S. Maria in Laurenzia di Bevagna ad impegnare un calice d’argento cesellato e un messale presso il banchiere Abramo da Perugia per ottenere il denaro con il quale pagare l’affitto della casa del canonico, don Melchiorre.
A.C. Bevagna, Notarile, Bartolomeo di Gaspare, 1521(6 luglio 1455)
5) La carne e il vino
Nell’Italia medievale il vino era la bevanda di gran lunga più prodotta e consumata. Come nel caso della carne, la legge ebraica prevedeva che solo l’osservanza di precise norme rendesse il vino idoneo ad essere bevuto dagli ebrei. In pratica si richiedeva che la pigiatura dell’uva fosse effettuata soltanto da ebrei e che essi sorvegliassero direttamente anche il successivo processo di vinificazione, controllandone le diverse fasi, fino a che il prodotto fosse stato pronto per il consumo. Ma ebrei e cristiani, se anche talvolta facevano il vino separatamente, continuavano a berlo insieme. Ad Assisi era risaputo infatti che il Sangiovese e la Vernaccia di maestro Sabbatuccio, medico ebreo, erano una vera squisitezza ed una botticella con cinquanta litri di tale nettare valeva bene il prezzo un po’ caro di mezzo fiorino d’oro. Da parte loro gli ebrei sapevano apprezzare il buon vino prodotto dai frati. Ancora nel 1549 il mercante Gugliemo da Trevi e sua moglie Stella si facevano venire il mosto del rinomato Sagrantino di Montefalco dai frati del monastero della Madonna delle Lacrime. Era lo stesso frate Apollonio, che portava a Trevi la carretta con le botti del prezioso mosto, destinate alla famiglia dell’ebreo.
Nell’ottobre del 1549 Guglielmo e sua moglie erano processati a Trevi per aver importato il mosto senza pagare la gabella. L’ebreo si difendeva sostenendo che i frati si erano impegnati a pagare i dazi cittadini per suo conto. (A.C. Trevi, Tre Chiavi, busta 16, reg.238).
Nota.
Tutto è tratto dal libro di Ariel Toaff “Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo”, il Mulino,1989
Su trecento pagine del libro molte raccontano della presenza di ebrei a Bevagna, una storia durata 200 anni, dal 1300 al 1500. Ciò che è scritto riprende capitoli e note del libro, i documenti presenti nell’Archivio Comunale di Bevagna e consultati dallo storico.