
Gli Ottoni sono veramente una dinastia imperiale?
Applicazione delle teorie contemporanee e transtoriche di imperialità alla politica ottoniana di Niccolò Caramel
Herfried Münkler: che cos’è un impero?
Il successo commerciale e di critica riscosso da Imperien1 (2005) di Herfried Münkler2 (1951) si deve attribuire alla lettura comparativa – scevra di considerazione etiche e che infranse molti tabù – che egli fece della logica transtorica dell’impero. L’emblematico lavoro di Münkler, nonostante le risposte particolareggiate che egli ne trae, è figlio del suo tempo: sono infatti ormai non pochi anni da quando si è ritornati a parlare, nel dibattito internazionale, di imperi e di imperialismo3. Al centro del dibattito sta la figura degli Stati Uniti quale nuovo attore “imperiale”, figura che ormai manifestamente, per mano delle armi e per voce delle stesse élite politiche americane, sta sempre più consolidandosi a livello mondiale4.
Lo scopo principale che Münkler si propone nel suo significativo lavoro storico e sociologico è quello di individuare le dinamiche e le proprietà principali che permettono di dare una definizione convincente e quanto più esaustiva di impero5. Per determinare questo “idealtipo” di impero egli prende in considerazione un ampio ventaglio di realtà imperiali che hanno caratterizzato – e determinato – la storia umana. Mediante la lettura del passato, come suggerisce Teschke, è evidente che lo scopo principale di Münkler non è quello di trarre lezioni o quello di dare ammonimenti, bensì egli cerca di scoprire in essi «delle costanti che per lo più operano indipendentemente dalla volontà dei protagonisti. Al centro dell’attenzione c’è la “concretezza politica”, non l’ “accortezza politica”. Più che la politica dell’impero, contano i suoi imperativi»6. Egli cerca perciò di far emergere le caratteristiche basilari dell’esibizione e del mantenimento della potenza, dell’espansione e del consolidamento della sovranità imperiale e dei mezzi mediante i quali gli imperi hanno avuto origine: caratteristiche che permangono in ogni formazione imperiale e che differiscono secondo alcuni aspetti in base alle condizioni storiche che hanno caratterizzato ogni periodo.
Ma quali sono per Münkler le componenti principali e inderogabili di un impero? Come prima cosa egli sentenzia che l’unico modo per capire «la logica che sostiene l’agire degli imperi» è comprendere «che cosa distingue un impero»7. Innanzitutto, l’impero va distinto da ciò che esso non è, ovverosia da uno Stato, più precisamente da uno stato territoriale istituzionalizzato8. Lo storico tedesco chiarisce fin da subito che:
gli imperi sono molto di più che grandi Stati: si muovono in un mondo tutto loro. Gli Stati sono inseriti in un ordine che hanno creato assieme ad altri Stati e del quale, pertanto, non possono disporre da soli. Invece gli imperi si considerano creatori e garanti di un ordine che in ultima analisi dipende da loro e che devono difendere contro l’irruzione del caos, che per gli imperi costituisce una minaccia costante.9
Gli imperi, quindi, non sono solamente un’accentuazione dell’interpretazione classica degli Stati10, interpretazione che li definiva tali in base al territorio, all’omogeneità della popolazione e alla sovranità – elementi che rendono ogni stato giuridicamente paritario rispetto agli altri – ma rispondono a logiche e imperativi completamente differenti. Gli imperi di differenziano dagli Stati principalmente per l’“assenza di concorrenza”: nello spazio controllato egemonicamente dall’impero non esistono suoi pari, ogni comunità politica che si trova nel campo d’azione imperiale (satelliti o clienti) ne sottostà al controllo politico e al continuo e insindacabile intervento11.
Un elemento fondamentale di distinzione tra Stato e impero è la concezione dei confini. «Questi ultimi», per quanto riguarda gli Stati, «sono costituiti da una linea di demarcazione chiara e netta, attraverso cui si passa da uno stato all’altro. Nel caso degli imperi, linee di separazione così precise sono un’eccezione»12. A differenza della rigidità e inflessibilità dei confini statali, quelli imperiali «possono essere descritti come un intreccio nel quale i confini politici ed economici sono distinti fra loro, le differenze culturali sono diffuse e variegate, e quelle linguistiche sono pressoché irrilevanti13. Ciò toglie formalità ai confini degli imperi, accrescendone la flessibilità»14. Come ultimo aspetto, Münkler sostiene che «i confini imperiali non dividono unità politiche dotate di uguali diritti, bensì rappresentano diversi livelli di potere e di influenza. Inoltre – a differenza dei confini statali – essi non sono permeabili in entrambe le direzioni: chi vuole entrare nello spazio imperiale deve soddisfare condizioni diverse da chi lo abbandona»15. Tale asimmetria è ciò che differenzia i confini statali da quelli imperiali. Infine, al contrario degli stati, in cui i paesi limitrofi si riconoscono vicendevolmente gli stessi diritti, l’impero non riconosce i propri vicini come suoi pari: gli stati, infatti, possono essere considerati al plurale, l’impero è sempre singolare16.

Altra caratteristica fondamentale di questo particolare sistema di governo, data dalla complessità e dalla vastità del territorio, è la dialettica giuridica e amministrativa – molto disomogenea e in ogni caso decrescente – tra centro e periferia. Questo rapporto non si esaurisce in un dominio schiacciante del primo sul secondo, ma dall’interazione tra i due17.
Durante la fase aurorale dell’impero non si manifesta una strategia ben definita, né nella gestione, né nella conquista. Ad ogni modo, ogni impero nasce e si accresce mediante l’uso della forza e attraverso il suo superiore potere economico. Nonostante ciò, per mantenere il proprio predominio nel tempo, soprattutto quando l’estensione territoriale si fa notevole, l’impero richiede la legittimazione della sua sovranità, legittimazione che viene ottenuta mediante la promessa di prosperità, pace, liberalizzazione dei mercati, democrazia, civiltà e rispetto dei diritti umani18 – seppur non debba in alcun modo rimanere neutrale nel caso di conflitti al proprio interno19. Tale legittimazione deriva dall’auto-calarsi dell’impero nella parte del bene e dell’ordine – a questo proposito necessaria è la presenza (o l’invenzione) di un nemico20 –, così da poter giustificare l’intervento armato contro i portatori del caos in nome della «missione imperiale, che costituisce a sua volta una fondamentale giustificazione nella formazione di un impero mondiale»21. Secondo Ben-Ghiat le autolegittimazioni «sono anche decisive nello sviluppo di quei discorsi sulla differenza etnica e razziale che sono alla base delle strategie imperiali di incorporazione e differenziazione»22.
Münkler pone l’«estensione spaziale» 23 come criterio fondante di un impero, sancendo categoricamente che «una potenza che non domini su un’area di considerevole vastità non può essere seriamente chiamata “impero”»24. Dal punto di vista territoriale, l’impero tende ad espandersi fino a coincidere con il proprio “mondo”, poiché la coesistenza di più imperi non è contemplata nell’ottica imperiale e ciò porterebbe inevitabilmente allo scontro25. Ma cosa intende Münkler con “mondo”? in questo contesto con “mondo” non ci si vuole riferire alla «Terra nella sua dimensione globale»26 e non si può fissare la sua definizione «mediante il contorno geografico dei continenti o le dimensioni fisiche del globo»27, ma ci si riferisce bensì al sistema determinato dal «campo visuale e dall’orizzonte delle civiltà, cioè da fattori più culturali e ideologici che puramente geografici»28. Questo fattore determina la possibilità della coesistenza di «imperi paralleli»29, che vivevano uno accanto all’altro, ognuno nel proprio “mondo”.
Se le mire imperiali non si limitano all’espansione territoriale, ma sono rivolte anche verso l’arricchimento, l’estensione e il controllo dallo spazio30 non sono sufficienti all’ottenimento di tutto ciò, ma è necessario che l’impero rimanga in vita per una significativa «durata temporale: un impero deve aver compiuto perlomeno un intero ciclo di nascita e declino e averne iniziato un altro»31. Inoltre, al termine dell’iniziale ed entusiastica fase di ascensione, c’è bisogno di una «rigenerazione transgenerazionale»32, correlata da una «rigenerazione istituzionale»33, così da rendere l’impero «indipendente dalle qualità carismatiche del suo fondatore»34.
Münkler chiarisce che le strutture del dominio imperiale devono essere delineate in contrasto con quelle dell’egemonia, anche se i punti di contatto tra sovranità imperiale e predominio egemonico sono fluidi. Mentre l’egemonia consiste nella «supremazia all’interno di un gruppo di attori politici formalmente dotati di pari diritti; per contro, l’imperialità dissolve questa uguaglianza e rende gli altri attori stati clienti o satelliti. Essi dipendono in maniera più o meno evidente dal centro»35.
Inoltre, il concetto di impero deve essere delineata in contrasto da ciò che a partire dal XIX secolo viene definito “imperialismo”36, e si deve necessariamente distinguere tra le teorie che concernono l’uno e quelle relative all’altro37.
Nel suo The source of social power, Michael Mann distingue Quattro fonti di potere: la superiorità economica e quella militare, decisive nella fase aurorale degli imperi, e il potere ideologico e quello politico, che acquistano importanza nella fase di consolidamento dell’impero38.
Un concetto fondamentale che Münkler analizza nella sua elaborazione è quello di «soglia augustea»39. Con questo concetto, sviluppato per la prima volta da Michael Doyle40, egli intende il «passaggio dalla fase di sfruttamento della periferia ad opera del centro alla fase di investimento e di stabilizzazione della periferia, della sua integrazione in uno spazio sociale ed economico»41. La capacità di superare tale soglia determina la durata e la stabilità di un impero42, poiché il ripartimento differenziato e settorializzato di costi e benefici43 creerà nella periferia un interesse a rimanere sotto le ali dell’impero e a lavorare per il suo mantenimento: le relazioni del centro con la periferia non saranno «più volte allo sfruttamento di quest’ultima, ma ve[rranno] animate da finalità civilizzatrici»44. Per giungere a questo risultato è importante controllare l’immaginario delle persone e per fare ciò devono essere forniti dei modelli dominanti45.
Esistono differenti modelli per approcciarsi ad una lettura transtorica degli imperi. Secondo il modello «dell’ascesa e del declino, la storia di quasi tutti gli imperi è caratterizzata da una breve e dinamica fase di ascesa e da un lungo periodo di declino»46. Il primo periodo corrisponde all’espansione militare, mentre ogni scelta compiuta nella fase successiva al raggiungimento dell’apice dell’espansione imperiale viene considerato, secondo il modello, una piccola parte che compone il lento declino imperiale. Tale modello viene criticato da Münkler perché tiene conto solamente dell’aspetto militare degli imperi e non la loro capacità di rinnovamento politco. Inoltre, esso viene considerato dallo storico poco realistico – in quanto non tiene conto degli alti e bassi che caratterizzano la lunga fase del declino e dà poca importanza agli attori politici – e gli viene preferito il modello ciclico della storia politica47.
Possiamo affermare, in conclusione, che l’intento di Münkler è di esporre un modello transtorico di “impero”. Ma il modello che egli tenta di delineare in modo sistematico non riesce a colmare in modo soddisfacente gli esempi storici al quale viene rapportato48. Non tutti gli imperi, infatti, hanno superato la soglia di augusto. Non tutti hanno portato pace e prosperità nella periferia. Non tutti si sono scontrati tra loro per divenire potenza egemone. Ogni potere imperiale, infatti, è caratterizzato da una serie di situazioni interne ed esterne, storicamente uniche ed irripetibili, che condizionano la politica imperiale (raison d’empire) e non permettono di stabilire un modello che riesca a comprendere tutte le particolarità storiche49. Ad ogni modo, nonostante le necessarie sfasature esistenti tra un modello ideale di impero e una realtà che si protrae nel corso di secoli e che rende impossibile racchiuderla unitariamente, Münkler rende fruibili alcune caratteristiche fondamentali di impero, caratteristiche che vedremo se possono essere applicate nel caso dell’impero ottoniano.
- L’ “impero” degli Ottoni
Dal matrimonio tra Ottone I e Adelaide di Borgogna avvenuto nel 951 – con il quale il regno italico divenne parte integrante della sfera politica ottoniana – ma soprattutto con l’incoronazione imperiale di Ottone I e Adelaide (Roma, 962), l’impero in Occidente venne rifondato50. Ricevendo la corona imperiale Ottone I diveniva imperatore del “regno tedesco” e del “regno italico”51, ottenendo così una dignità superiore a quella regia52 – «ovvero il potere del re volto alla guida del popolo e al benessere della sua patria»53. Il rituale dell’incoronazione ha acquisito un valore costitutivo per l’impero: significava divenire re d’Italia e quindi “imperatore”. Veniva sancito così il legame fra regno italico e regno teutonico e, di conseguenza, veniva decretata «la supremazia politica di Ottone sull’intera Europa postcarolingia»54.
Delle due modalità per la formazione degli imperi esposte da Münkler, ovverosia «l’estensione degli spazi di sovranità politica o l’intensificazione delle strutture commerciali»55 – che stanno alla base di «due distinte forme di prelievo di plusprodotto ai margini della potenza imperiale: la forma essenzialmente militare e quella prevalentemente commerciale»56 – nel caso degli Ottoni assistiamo alla prima modalità57.
Uno dei problemi maggiori dell’impero ottoniano era la sua vastità e l’intrinseca difficoltà a governare popoli e genti disparate, sia nel centro sia nella periferia58. Gli imperi che storicamente si affermarono in modo migliore nel lungo periodo non furono quelli che avevano una potenza militare superiore ai pretendenti, ma quelli che riuscirono ad organizzare un’amministrazione vigilante ed equilibrata. Sotto questo aspetto, l’impero ottoniano aveva molti problemi. Esso aveva un’estensione territoriale ampia quasi quanto quella dell’impero carolingio e comprendeva popoli e civiltà altrettanto disparate. Cercare di far collaborare armoniosamente ogni territorio e ogni civiltà al suo interno era un compito difficoltoso; era necessario che gli imperatori si precipitassero continuamente da un luogo all’altro per far sentire ovunque la propria influenza personale59.
Come spiegarono Theodor Mayer e Heinrich Mitteis nell’ambito dell’ampio dibattito sullo “stato tedesco del medioevo” avvenuto negli anni trenta e quaranta del secolo scorso, il rapporto centro-periferie era caratterizzato da una fitta rete di rapporti familiari e interpersonali. I due studiosi elaborarono il concetto di Personenverbandstaat, ovverosia «un organismo statale costituito dai rapporti, più o meno istituzionali, fra gruppi di individui detentori dei poteri: l’impero degli ottoni in tal senso sarebbe consistito nei legami personali instaurati fra i sovrani sassoni e i grandi del regno»60.

Del resto, l’elemento decisivo per il funzionamento del potere del regno ottoniano posto in evidenza da Keller, ovverosia la “capacità di creare consenso”, è uno dei cardini dell’impero espressi da Münkler. I rapporti di parentela all’interno della famiglia regia e i legami di fedeltà fra questa e gli esponenti delle famiglie ducali sono, per Keller, la reale essenza delle istituzioni ottoniane e la novità portata dagli Ottoni61. Le stesse cerimonie e accordi legati al conferimento della dignità imperiale «mostrano con ancora più chiarezza che ad assumere il potere non era il solo Ottone I […] ma l’intera famiglia»62. L’agire in chiave dinastica venne adottato dagli Ottoni fin dal settembre 961 (mese in cui Ottone e Adelaide entrarono a Pavia e presero possesso del regno), quando fecero consacrare il figlio ad Aquisgrana nominandolo «erede e sovrano di tutto il regno di Ottone e Adelaide»63. Quest’avvenimento mette in luce come non solamente Ottone, «ma l’intera sua “casa” fu elevata alla dignità imperiale»: prese vita in questo modo una «dinastia imperiale»64.
Grazie a questi legami personali con i detentori dei poteri (esponenti dell’aristocrazia del regno, in particolare delle famiglie ducali, e i sovrani sassoni), Ottone riusciva a controllare l’impero fino alle sue estremità. All’interno dell’aristocrazia c’era inoltre una stratificazione, scaturita dai nuovi legami fra la famiglia regia e il regno, tra figure di rango più o meno elevato, che «divenne parte di quelle strutture ottoniane che esercitarono un’influenza duratura nel regno»65.
In conclusione, l’entità politica è tenuta assieme non da istituzioni66, ma da rapporti personali all’interno dell’aristocrazia67, mantenuti saldi da un re che deve saper utilizzare in modo adeguato carisma e perdono68, che non utilizzi fino in fondo l’arma dell’umiliazione per non recidere totalmente i rapporti e far implodere l’impero su se stesso e che sia in grado di creare consenso mediante una continua negoziazione di poteri e privilegi69. Nei casi estremi gli imperatori erano chiamati ad intervenire con la forza per far rispettare la propria posizione direttamente contro i sudditi che rinnegavano il proprio signore70: «la capacità di riuscire ad imporsi in conflitti di questo tipo costituiva una parte fondamentale dell’attività di governo. La forza e la capacità del sovrano erano dimostrate dal modo in cui riusciva a ristabilire il consenso all’interno del regno»71. La caratteristica munkleriana di non avvalersi della neutralità viene pienamente rispettata dagli Ottoni, come si evince ad esempio da Ottone I, il quale non esita a recarsi in Italia ogni qualvolta si presenti una crisi oppure una conflittualità tra le famiglie aristocratiche che aspiravano al trono72.
Per quanto riguarda la «rigenerazione transgenerazionale», questa fu definita e riempita di significati simbolici il giorno del funerale di Ottone III, funerale che era diventato:
un atto in cui veniva manifestato il potere della famiglia regia e il consenso dei regni riuniti intorno all’imperatore: questi rituali e cerimonie della comunità politica sono alla base del processo di istituzionalizzazione che permise ai regni postcarolingi e alle dinastie di sviluppare la continuità del potere regio slegato dall’incarnazione nel singolo sovrano.73
Questo però era solamente un esempio dei molteplici rituali di potere realizzati dalla famiglia imperiale. I rituali di potere erano, infatti, una prerogativa fondamentale all’interno dell’impero ottoniano, nonché cardine della sua fondazione e del suo perdurare, e vengono per questi motivi considerati da Keller come un elemento imprescindibile per comprendere la comunicazione politica e ideologica dell’epoca ottoniana74: «in quel periodo […] l’affermazione di diritti e l’esercizio del potere avevano bisogno entrambi di una manifestazione rituale, necessitavano cioè di una materializzazione, visivamente comprensibile, per mezzo di un’azione cerimoniale»75.
Un aspetto fondamentale dal punto di vista ideologico e simbolico è la Renovatio imperii Romanorum promossa da Ottone III. La Renovatio viene indicata da Keller come la visione ideologica peculiare di Ottone III, che intreccia aspetti politici e religiosi e innova profondamente la tradizione del connubio fra cristianesimo e ideologia imperiale, così come si era delineata nei secoli passati. L’espressione, infatti, si riferiva alla necessità di imporre un concreto dominio imperiale su Roma e di ottemperare agli obblighi nei confronti della chiesa romana da parte dell’imperatore76.
La sacralità regia ha un carattere preminente all’interno della funzione imperiale ottoniana – con un’accentuazione rispetto al periodo carolingio – in cui «la cristomimesi dell’imperatore diventa un elemento cardine della messa in scena del potere»77. Sotto gli Ottoni, infatti, si consolidò con sempre maggior forza l’idea che «il re era il “rappresentante” di Dio in terra, ovvero il vicarius Christi»78. Tale analogia tra imperatore e Cristo stava alla base della legittimazione del potere e doveva seguire dei rituali pubblici per dimostrare manifestatamente la chiamata da parte di Dio a governare il popolo cristiano79. Secondo le convinzioni del X secolo era Dio colui che garantiva o negava il successo, la vittoria, la pace e la salute. Compito principale del sovrano perciò era di costruire la propria relazione con Dio, la quale era fondamentale per la costruzione di un regnum80 o di un imperium81 solido. A tale scopo «gli atti in cui veniva messo in scena il potere […] si svolgevano intenzionalmente nei giorni in cui cadevano le feste religiose, proprio perché tali festività permettevano di mostrare che cos’era la regalità e da dove il potere del re riceveva la sua legittimazione e la sua forza»82.
Si può in conclusione affermare che dal rapido confronto tra la storia della dinastia ottoniana con le teorie sull’imperialità contemporanee emerge l’assenza di molti aspetti teorici fondamentali per sancire con risolutezza il connubio, attribuito forse con troppa semplicità dalla storiografia, tra Ottoni e “Impero”.
Note
- Münkler, Imperien: Die Logik der Weltherrschaft – wom Alten Rom bis zu den Vereinigten Staaten, Rowohlt, Berlin 2005. (tr. it. Imperi: il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2008, p. 8).
- Lo scienziato politico tedesco Herfried Münkler (1951), già autore di numerosi libri sulla storia delle idee politiche e direttore per molti anni della Politische Viertljahresschrift, la più importante rivista tedesca di scienze politiche, iniziò la sua carriera nella Goethe University Frankfurt di Francoforte, luogo prevalentemente influenzato, negli anni Settanta e Ottanta, da ideologie di sinistra: idee che lo seguiranno e lo influenzeranno nei suoi lavori maturi. Benno Teschke (ricercatore presso il dipartimento di relazioni internazionali all’Università del Sussex), nel suo articolo Imperial doxa from the Berlin Republic fornisce una breve biografia intellettuale di Münkler. Egli afferma che lo storico politico tedesco, «specializzato in storia delle idee, è stato allievo, assistente e collaboratore di Iring Fetscher, autore di vari studi sul socialismo e curatore delle opere di Marx. In seguito, anche Münkler è diventato membro permanente del comitato redazionale di MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe) che prevede la pubblicazione in 114 volumi dell’opera omnia di Marx ed Engels. Sviluppando la tesi di laurea su Machiavelli, Münkler ha scritto per la libera docenza un saggio sulla nascita del concetto di ragion di Stato nell’Europa moderna, e in seguito ha curato con altri una storia delle idee politiche in cinque volumi. L’interesse per Clausewitz e Schmitt è all’origine dei suoi studi sulla sociologia militare della guerra, sul terrorismo e sulla guerriglia partigiana. Direttore per molti anni della «Politische Viertljahresschrift», la più importante rivista tedesca di scienze politiche, Münkler fa ora parte dell’Accademia delle Scienze di Berlino-Brandeburgo e occupa la cattedra di Teoria politica alla Humboldt di Berlino, ottenuta nel 1992 dopo le purghe politiche che avevano colpito i rappresentanti del vecchio regime nella più presti giosa università dell’ex Germania Est. In passato opinionista della «Tageszeitung» – quotidiano berlinese radicale di sinistra, benché poco graffiante –, Münkler è oggi lodato da «Die Zeit» e apprezzato dal ministro degli Esteri tedesco, che nel 2004 ha presentato Imperien alla Conferenza degli Ambasciatori definendolo un prezioso «promemoria», Benno Teschke, Imperial doxa from the Berlin Republic, NLR 40, July-August 2006, pp. 285-308.
- Secondo Terence N. D’altroy l’attuale disaccordo su ciò che costituisce il fulcro dell’impero scaturisce da diversi punti di vista su cosa potrebbe costituire l’«essenza» dell’imperialismo: si tratta di dominio militare, di controllo economico, di sovranità politica? Ma questa, secondo Ruth Ben-Ghiat, «è soltanto una parte del quadro; si deve aggiungere che progetti politici antagonisti continuano a produrre opinioni contrastanti sull’impero e sul posto che esso occupa nella storia, e ancora che le varie discipline accademiche coinvolte nell’analisi dell’impero giungono alle loro conclusioni sulla base di metodologie, fonti e prove molto eterogenee tra loro», Ruth Ben-Ghiat, Gli imperi. Dall’antichità all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2009, p. 8. Si veda inoltre Terence N. D’Altoy, Empires in a Wider World, in Empires: Perspectives from Archeology and History, a cura di S.E. Alcock, T.N. D’Altroy, K.D. Morrison e C.M. Sinopoli, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 125; Morrison, Sources, Approaches, Definitions, in Empires: Perspectives from Archeology and History, pp. 1-9.
- Gabriele de Angelis, commentando il lavoro münkleriano, afferma che la caduta dell’Unione Sovietica aveva spinto gli esperti «a decretare l’epoca degli imperi un relitto della storia, [però] l’unilateralismo dell’amministrazione Bush e l’aumento degli interventi militari occidentali in diverse regioni del globo hanno provocato un repentino mutamento di opinione. […] Mentre gli Stati Uniti si sono così ritagliati la figura di nuovo attore «imperiale», l’Europa ha cercato di definire la propria identità insistendo sul “soft power”, ovvero sulla garanzia di pace, democrazia e crescita economica offerta dal mercato europeo. È la scelta giusta? La risposta di Munkler è un chiaro “no”» Gabriele de Angelis, Il ritorno degli imperi, in «Teoria Politica», XXV, 1, 2009, p. 191.
- Risultano interessanti a questo proposito le cinque condizioni proposte da Ruth Ben-Ghiat per definire che cosa sia da considerare come impero, pur precisando che, come sottolinea lo stesso autore, è piuttosto arduo rinvenire, nella concreta fenomenologia storica, dei casi che si attanaglino sul serio a questi modelli, e che lo facciano a lungo:
1. L’autocoscienza diffusa e legittimata, da parte di chi ne costituisce il centro e il vertice, d’una missione universalistica (tu regere imperio populos Romane memento) obiettivo della quale è il mantenimento d’una pace garantita dalla giustizia: ciò costituisce la base etica di qualunque cultura imperiale, e di solito si collega a valori di tipo religioso-sacrale; 2. L’autoconsiderazione, da parte di quel centro, di se stesso quale detentore di plenitudo potestatis: quindi conditor legis, fons legum e legibus solutus, cioè superiorem non reconoscens; 3. Una forza militare adeguata a sostenere quell’autocoscienza e quell’autoconsiderazione; 4. La capacità di concepire un sistema di relazioni diversificate, pensate sulla base di criteri che variano secondo le aree storiche, la pluralità delle istituzioni con le quali l’autorità definita o autodefinitasi “imperiale” si confronta, le regioni geografiche e le concrete circostanze che volta per volta si presentano; 5. La capacità di selezionare élites in grado di governare l’impero scelte tra i cittadini originari del centro dominante o dai paesi sottomessi, ma in entrambi i casi giuridicamente equiparati nonché fedelmente e consapevolmente compartecipi della Weltanschauung imperiale. Cfr. Ben-Ghiat, Gli imperi, pp. 33-34. - Teschke, Imperial doxa, p. 287.
- Münkler, Imperi, p. 15.
- Nonostante Münkler «ammetta che in teoria possa esistere un terzo tipo di comunità politica, nella quale chi conquista l’egemonia sugli altri attori si propone come primus inter pares, di fatto la sua classificazione delle comunità politiche si esaurisce nel fondamentale dualismo Stato-impero», Teschke, Imperial doxa, p. 288.
- Münkler, Imperi, p. 8.
- pur essendone, come suggerisce Teschke, «similmente delimitata nel pluriuniverso geopolitico», Teschke, Imperial doxa, p. 288.
- Münkler, Imperi, pp. 17-18
- Ivi, p. 15.
- Le frontiere imperiali, come ha scritto Mary Louise Pratt, sono «zone di contatto […], spazi sociali in cui culture disparate si incontrano, si scontrano e lottano le une con le altre», M.L. Pratt, Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation, London-NewYork, Routledge, 1992, p. 4.
- Münkler, Imperi, p. 17.
- Ivi, p. 15.
- Tale peculiarità dell’impero influisce non solamente nella politica estera, ma anche nell’integrazione interna: gli Stati, anche per la diretta concorrenza con i loro vicini, cercano di integrare ugualmente la propria popolazione, garantendo uguali diritti in tutto il territorio statale. Gli imperi, invece, sono caratterizzati da una scala di integrazione che discende dal centro alla periferia, determinando minori diritti e possibilità di intervento nelle zone periferiche. Cfr. Ivi., p. 16.
- Münkler sentenzia infatti che l’immagine comune vede gli imperi come un governo incentrato sul dissanguamento e sullo sfruttamento della periferia, con il risultato di determinare un arricchimento del centro direttamente proporzionale rispetto all’impoverimento della periferia. Certamente, prosegue Münkler, imperi di questo tipo sono sempre esistiti, ma la loro durata temporale è stata esigua. Col passare del tempo, l’inevitabile rivolta della periferia contro il centro prendeva il sopravvento e i costi per mantenere la pace erano superiori rispetto ai guadagni tratti dal controllo della periferia. Gli imperi che storicamente hanno avuto una durata maggiore sono quelli che hanno investito nelle periferie che hanno fatto in modo che le regioni marginali si interessassero al successo del centro per il mantenimento dell’impero. Cfr. Ivi., p. 9.
- Ivi, p. 133.
- Münkler scrive che «la potenza centrale all’interno del “mondo” imperiale da essi dominato è chiaramente sottoposta a una coazione all’intervento politico e militare. Essa non può sottrarsi a questa coazione senza danneggiare la propria posizione. In altri termini, un impero non può rimanere neutrale rispetto alle potenze che fanno parte della sua sfera di influenza e, analogamente, ha una forte tendenza a non consentire loro questa possibilità […]. Se un impero rimane neutrale nel caso di conflitti all’interno del suo “mondo” o alla sua periferia perde inevitabilmente il suo status Anche questo distingue gli imperi dagli Stati», Ivi., p. 27. Nella loro sfera d’influenza, «gli imperi sono obbligati a intervenire politicamente e militarmente per mantenere credibilità e prestigio e, in ultima analisi, potere e influenza. In questo caso la neutralità non è un’opzione. […] Dal canto loro, i rapporti fra imperi sono dominati dalla continua competizione geopolitica volta a stabilire le relative posizioni e dalla spinta alla gerarchizzazione determinata dalle esigenze del potere politico», Teschke, Imperial doxa, p. 289.
- Se le promesse imperiali non riescono ad attecchire, l’intervento militare può essere giustificato dal dovere del più forte di fermare il nemico, precedentemente criminalizzato. Cfr. Münkler, Imperi, p. 146.
- Münkler aggiunge di seguito che al contrario degli Stati, il cui potere di intervento si blocca al confine con gli altri Stati, gli imperi interferiscono nelle faccende interne agli altri Stati per compiere la propria missione imperiale. Perciò, al contrario dell’ordine statale, contraddistinto da un conservatorismo strutturale, quello imperiale ha la possibilità di mettere in moto processi di cambiamento interni molto profondi. Cfr. Ivi., p. 8.
- Ben-Ghiat, Gli imperi, 15.
- Münkler, Imperi, p. 21.
- Ibidem
- Münkler fa menzione come caso specifico agli “imperi paralleli”, ovverosia quelli che pur esistendo nello stesso periodo non entrano in contatto fra loro a causa della notevole distanza geografica. Cfr. Ivi., p. 22.
- Ivi, p. 23.
- Ivi, p. 24.
- Ibidem
- Ibidem
- Il criterio dell’estensione spaziale per designare gli imperi mondiali, come sottolinea Münkler, «non si applica solo al controllo fisico degli spazi, ma anche al loro controllo virtuale attraverso la direzione dei flussi di merci e capitali», Ivi., p. 23.
- Ivi, p. 21.
- Teschke, Imperial doxa, p. 289.
- Münkler, Imperi, p. 20.
- Ibidem
- Ivi, p. 17.
- L’imperialismo, infatti, significa in primo luogo «volontà di impero» (unica o decisiva causa della formazione degli imperi) e include anche teorie che delineano «la formazione degli imperi come un processo che si svolge unilateralmente dal centro alla periferia». Münkler sostiene che, a fianco della forza propulsiva che dal centro spinge verso la periferia, si muove anche «una corrente che parte dalla periferia e che porta anch’essa all’estensione della sfera di dominio», Ivi., pp. 19-20.
- Soprattutto perché «il modo di considerare gli imperi continua a essere condizionato dalle pregiudiziali delle teorie dell’imperialismo, secondo cui la nascita degli imperi va attribuita soltanto all’azione delle élite espansionistiche», Ivi., p. 35.
- Ogni impero nasce infatti «o in forza della conquista violenta o grazie alla penetrazione economica. Pertanto, si può distinguere tra ordini imperiali che abbracciano regioni sottoposte alla loro dominazione diretta – i classici “imperi mondiali” – e ordini imperiali basati sulle strutture commerciali e sul controllo della rispettiva “economia mondiale”.Nella storia, raramente questi due tipi di impero sono comparsi nella loro forma pura», Münkler, Imperi, p. 80. La resistenza dell’impero si basa sul mantenimento di tutte e quattro le fonti del potere, infatti «un decifit in uno dei quattro fattori di potere ha conseguenza del tutto negative per l’impero», Ivi., p. 81.
- Doyle, Empires, Ithaca-London, Cornell University Press, 1984, pp. 93 ss.
- Münkler utilizza il concetto di «soglia augustea» di Doyle «per respingere sia i modelli economicisti sia quelli uni-ciclici dell’ascesa e del declino degli imperi, e opta per un’interpretazione dei ritmi variabili di ascesa e declino che prenda in considerazione più fattori e più cicli», cfr. Teschke, Imperial doxa, p. 290.
- de Angelis, Il ritorno degli imperi, p. 191.
- Münkler afferma che «la soglia augustea designa quindi una serie di riforme incisive, grazie alle quali un impero conclude la propria fase espansiva e passa nella fase dell’esistenza stabile e di lunga durata», Münkler, Imperi, p. 111.
- «Costi e benefici non si misurano tuttavia solo in termini economici. Un impero duraturo mette in campo una pluralità di fonti di potere, di cui quello economico è un aspetto importante ma non certo l’unico. Il prestigio politico, l’egemonia culturale, «beni pubblici» che l’impero mette a disposizione delle sue parti, come la sicurezza, formano altrettanti collanti che attenuano, se non annullano, le forze centrifughe. Ogni impero duraturo si procura perciò una solida base ideologica che consiste in una «missione». La missione imperiale si consolida con la creazione di una«immagine del nemico», che Munkler riassume nella figura dei «barbari», simbolo del caos, dell’assenza di ordine, della caduta della civiltà. L’autentico, duraturo potere imperiale non è perciò solo un potere militare o economico, ma anche simbolico e culturale», de Angelis, Il ritorno degli imperi, p. 191.
- Münkler, Imperi, p. 111.
- Ivi, pp. 23-24.
- Ivi, p. 45.
- Secondo questo modello, «le comunità politiche attraversano nella loro storia più cicli di espansione e regressione, e tanto il numero dei cicli quanto la durata del loro segmento superiore dipendono essenzialmente dal talento e dalla lungimiranza dei capi politici», Ivi., p. 106.
- Lo stesso Münkler, del resto, afferma che un impero molto difficilmente è l’esito di una strategia razionale di affermazione: è più probabile che sia determinato dalla mescolanza di una serie di accadimenti casuali. Cfr. Ivi., p. 19.
- In questo modo Münkler, secondo Teschke, «al pari di chiunque cerchi di trarre concetti universali da idealtipi sociologici, è costretto, per ridurre la distanza fra astrazione e realtà concreta, a fare continue concessioni, riconoscere delle eccezioni e ritrattare quanto ha detto, introducendo al contempo una serie di sottotipi (imperi terrestri contro imperi marinari, commerciali contro militari, formali contro informali) che sono a loro volta suscettibili di ulteriori distinzioni. Infatti, mentre il suo saggio intende dimostrare che esiste una “logica” dell’impero onnipresente, in realtà rivela a più riprese la presenza di differenze fondamentali nei modelli di sviluppo e nelle politiche estere dei casi che prende in esame. Sono queste differenze storiche che obbligano Münkler a rinunciare gradualmente e tacitamente all’analisi universale che si è proposto di fare con Imperien e a optare per commenti prudenti su questa o quella esperienza contingente. In linea di principio, una strategia intellettuale che analizzi alcuni imperi storici per individuarne tratti comuni ed elaborare una teoria ragionevolmente coerente e abbastanza precisa che consenta di distinguere gli imperi da altre organizzazioni politiche può avere un certo valore euristico. Ma non è possibile servirsene nel caso di esperienze imperiali diverse. Teoria e storia sono fra loro lontanissime», Teschke, Imperial doxa, p. 295.
- L’impero, pur conservando il suo carattere universale, non comprendeva più la Francia – centro propulsore dell’impero carolingio – ma si limitava a gran parte della Germania, dell’Italia e della Borgogna: era così accentuata la sproporzione tra il sogno universale e la realtà limitata.
- Secondo l’interpretazione di Ottone e Adelaide, interpretazione che mette in luce la loro autocoscienza della plenitudo potestatis, quando entrarono a Pavia non conquistarono «un regno che apparteneva ad altri bensì presero possesso di un regno che spettava loro di diritto», Hagen Keller, Gli Ottoni: una dinastia imperiale fra Europa e Italia, Carocci, Roma 2012, p. 59. In questo modo, i due imperatori non si ritenevano regnanti solamente del regnum franco-orientale e della Lotaringia, bensì il loro regno comprendeva – «di diritto» – anche l’Italia.
- Con “dignità regia” si intende il «potere del re volto alla guida del popolo e al benessere della sua patria». La monarchia dev’essere considerata inizialmente «come qualcosa di personale: come una serie di singoli re, scelti da Dio, nati da altri re, succeduti legittimamente e riconosciuti dal popolo. Era questa dignità regia a fornire ai regni la loro durata, i loro confini, la loro forma e struttura». Keller conclude affermando che «con il dominio degli Ottoni ha inizio qualcosa di nuovo», Keller, Gli Ottoni, p. 27.
- Ibidem
- Ivi, p. 9.
- Münkler, Imperi, p. 82.
- Ibidem
- Questa affermazione è attestata anche dal fatto che la vera differenza tra le due modalità di formazione degli imperi non consiste nel grado di sfruttamento, ma nel livello di violenza utilizzata. Inoltre, nel caso dell’espansione militare, che solitamente avviene sulla terraferma, si ha a che fare con una “organizzazione politica” dell’espansione. Mentre l’espansione commerciale può avvenire grazie all’iniziativa di privati, quella militare ha come suo centro «un sovrano o un’élite politico-militare che crea i presupposti per l’espansione e guida e organizza le operazioni militari»: la famiglia degli Ottoni e i loro più stretti alleati. Infine, un punto importante dell’impero militare è lo sfruttamento delle periferie per il finanziamento dell’apparato militare e dei costosi progetti edilizi nella metropoli «che testimoniano dello splendore dell’impero e del suo sovrano e, nello stesso tempo, attestano una potenza culturale o ideologica complementare che integra e allegerisce la potenza militare». Cfr, Ivi., pp. 82-6.
- Seguendo la storia delle conquiste ottoniane, notiamo come Ottone I si fosse arrestato a Roma, evitando ulteriori scontri così a ovest verso la Francia come a sud verso le terre bizantine e musulmane. Il suo successore, Ottone II (973-83), venne sconfitto in Francia e in Calabria poiché voleva implementare un impero già fin troppo vasto per le sue risorse a disposizione. Però, «lungo la frontiera orientale tedesca, Ungari e slavi si erano piegati a riconoscere la supremazia teorica dell’imperatore, ma avevano imparato, attraverso le loro disfatte, a migliorare la loro organizzazione politica e militare», Roberto S. Lopez, Nascita dell’Europa. Storia dell’età medievale, 1962, il Saggiatore, Milano 2004, p. 131. Quando il giovane imperatore Ottone III (983-1002) e il papa aquitano Silvestro II vollero fare di Roma il centro effettivo di un governo che imponesse la propria supremazia più con l’autorità morale che con le forze armate, i nodi vennero al pettine: «Ottone III non mancava di zelo, né il suo papa di abilità. […] Ma il loro sogno non teneva conto delle realtà immediate: i Romani preferivano i loro signorotti locali a un grande sovrano straniero, i Tedeschi non si adattavano al clima e ai costumi dell’Italia, gli Slavi attendevano la prima occasione per prendersi la rivincita. Le rivolte scoppiarono da tutte le parti, e soltanto il ricorso alla brutalità permise a Ottone III di riprendersi, poco prima che una morte precoce lo togliesse di mezzo», Ivi., 132.
- Come dice Ottone di Frisinga, «l’imperatore traversa le Alpi: la sua presenza dà pace ai Tedeschi, la sua assenza la toglie agli Italiani», Ivi., 236. L’Italia non venne mai sottomessa interamente da Ottone I ed egli «non potè collocare uomini di sua fiducia in ciascuna delle cariche italiane importanti, né trapiantare le istituzioni arcaiche del suo ducato sassone nel regno più evoluto da lui conquistato», Ivi., p. 265.
- Keller, Gli Ottoni, p. 13.
- Keller afferma che poiché «non vi erano istituzioni permanenti né strutture di potere che potessero durare più a lungo delle reti personali fra i potenti, questa nuova configurazione della famiglia regia dovette trasformare la struttura stessa del regno» Ivi., p. 56.
- Ivi, p. 59.
- Ibidem
- Ibidem
- Ivi, p. 45.
- Con “istituzioni” si intende «un apparato di organizzazione del potere che sopravviveva [durante l’alto medioevo] a chi regnava», Ivi., p. 27.
- Secondo Keller, «durante i primi anni del suo regno, Ottone I favorì i legami matrimoniali fra gli esponenti della famiglia regia e i membri delle antiche famiglie ducali. Si formò così una forma di “aristocrazia ducale”, cioè un gruppo ristretto di famiglie fra le cui fila, di solito, Ottone scelse a chi assegnare i ducati rimasti vacanti nei casi di morte o di ribellione dei precedenti duchi. In questo modo, nel 953, tutti i ducati erano governati da membri della ristretta famiglia regia […]. Durante gli ultimi due decenni di governo di Ottone I e poi sotto il regno di Ottone II e di suo figlio Ottone III la struttura di governo rimase sempre incentrata sull’intensa relazione fra il re e una ristretta cerchia dei suoi familiari, al cui interno figuravano anche gli esponenti della cosiddetta “aristocrazia ducale”», cfr. Ivi., p. 15.
- Enrico I, Padre di Ottone I, è una figura emblematica che riassume molti degli aspetti principali della conduzione imperiale descritta da Münkler: in primo luogo egli creò «una rete di rapporti personali che diffondeva il suo potere attraverso l’intero regno. […] [Inoltre,] aveva dimostrato la sua forza nei confronti dei popoli slavi e dei Danesi con spedizioni militari in certi casi estremamente violente», Ivi., p. 40. Enrico, pur essendo un re, non un imperatore, con queste ed altre mosse aprì la strada al suo successore e gli diede la possibilità di divenire imperatore.
- Keller aggiunge che tale capacità di creare consenso «valeva sia per il re, poiché egli aveva bisogno del sostegno e della collaborazione dei grandi per esercitare la sua autorità, sia per l’aristocrazia del regno che basava la sua potenza sul consenso regio, rappresentata dalla vicinanza del sovrano», Ivi., p. 13.
- Gli esempi sono molteplici e interessano tutti gli imperatori ottoniani, si vedano: i continui interventi in Italia, le leggi severe promulgate da Ottone III contro i “servi anelanti alla libertà” che rinnegavano il loro signore e le rivolte di contadini soffocate nel sangue del duca e dai nobili di Normandia, ma anche le spedizioni militari di Enrico IV. In questa spedizione fu combattuta «contro i duchi Burcardo e Arnolfo per ottenere il riconoscimento della sua carica regia: egli però – e qui si nota il principio del saggio utilizzo di carisma e perdono – non li umiliò sottomettendoli, bensì li fece suoi amici e collaboratori», Ivi., p. 37. Uno degli esempi migliori, che mette in luce l’aspetto simbolico della superiorità imperiale mediante l’utilizzo della violenza, è la campagna militare organizzata da Ottone II nel 978 contro Lotario che portò l’imperatore ad assediare simbolicamente Parigi: «l’esercito imperiale intonò sulla cima diMontmartre un Te Deum che risuonò per tutta la città e poi ritornò a casa. Questa azione non aveva lo scopo di conseguire conquiste territoriali: serviva piuttosto a dimostrare attraverso la devastazione e la temporanea occupazione del paese straniero la superiorità dell’imperatore e la debolezza del rivale», Ivi., pp. 68-9. In linea generale la guerra era un’attività quasi quotidiana e gli imperatori dovevano intervenire sia all’interno che all’esterno del regno. Ottenere vittorie sul campo di battaglia era fondamentale per il comandante militare (dux) poiché esse dimostravano inconfutabilmente il favore divino di cui godeva il re. Cfr. Ivi., pp. 110-11.
- Ivi, p. 69.
- Soprattutto durante il delicato momento di passaggio da un imperatore a quello successivo era importante che gli imperatori si assicurassero il rinnovamento costante della fiducia da parte dei signori che governavano le varie giurisdizioni imperiali per mantenere il potere regio, a questo proposito, «dopo l’elevazione al trono, il re visitava tutte le regioni politicamente rilevanti del regno per ricevere l’omaggio dei grandi nelle località più importanti dei singoli ducati», Ivi., p. 100. In questo modo l’imperatore si assicurava la completa sottomissione e l’impegno ad un buon governo dei signori locali e in cambio concedeva determinati poteri. Dopo ogni crisi Ottone «cercò di ristabilire la sua autorità senza infierire contro i familiari recalcitranti e assicurandosene la fedeltà con le dovute cautele, ma cercando di comporre i dissidi interni», Hrotsvitha Gandeshemensis, a cura di Maria Pasqualina Pillola, Gesta Ottonis Imperatoris, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003, p. LXXI.
- Keller, Gli Ottoni, p. 65.
- L’aspetto simbolico e rituale ha un ruolo fondamentale per il consolidamento del potere imperiale e nella storia della famiglia ottoniana sono molti gli episodi fondamentali che attestano la loro rappresentazione, come ad esempio: il rituale della deditio messo in atto da Liudolfo, il rituale di riappacificazione fra Ottone II e sua madre Adelaide, la nave sfarzosa con la quale Ottone III viaggiò da Pavia a Roma, il rito funerario di Ottone I, senza dimenticare la cerimonia della presa di potere di Ottone I (nella quale il sovrano inscenò una rappresentazione della nuova successione individuale al trono), ma anche le solenni diete in Lotaringia e la costruzione di un palazzo sul Palatino per mano di Ottone III (per simboleggiare la presenza stabile del potere imperiale nel caput mundi e la gestione in comune tra papa e imperatore del potere e della tutela sulla cristianità) e la processione funeraria messa in atto per Ottone III (I riti funerari erano degli strumenti necessari per «esprimere il dominio della famiglia regia e il consenso dell’intero regno verso la dinastia». Esso, inoltre, era un rituale «che contribuì all’affermazione dell’idea della transpersonalità del potere regio, ovvero della concezione che le istituzioni del regno erano slegate dalla persona fisica del re e quindi non si dissolvevano alla sconparsa del sovrano», Ivi., p. 18. Anche la cura della memoria familiare ottoniana detiene molta importanza per il mantenimento del potere imperiale. A tale scopo, Ottone I fondò un nuovo monastero femminile a Quedlinburg, le cui canonichesse si sarebbero prese cura della memoria di suo padre e dell’intera famiglia regia, Cfr. Ivi., pp. 41-2, 85.
- Ivi, pp. 82-3.
- Keller prosegue affermando che «la costruzione di un palazzo imperiale sul Palatino serviva, in tale visione, a rendere evidente la presenza dell’imperatore a Roma e con essa la volontà di governare e tutelare insieme con il papa l’intera cristianità, di cui Roma era considerata il centro spirituale», Ivi., p. 16. La piena presa di possesso dell’“impero romano” avvenne con l’elezione di papa Gregorio V e dell’imperatore Ottone III, ambedue facenti parte della famiglia ottoniana. Infine, venne creato «un nuovo sigillo imperiale che mise in luce con un’immagine quasi monumentale la piena coscienza di questa situazione», Ivi., p. 80. Ma anche altri simboli del potere sovrano vennero adattati da Ottone a quelli utilizzati dai papi, come si evince dalla titolatura dei diplomi e dall’assimilazione dei sigilli in forma plumbea alle bolle papali.
- Ivi, p. 17.
- Ivi, p. 121.
- Cfr. Ivi., pp. 83-4. A tale scopo i collaboratori di Ottone crearono un sigillo (Majestätssiegel) per far apparire Ottone «come colui che è stato investito del potere da parte di Dio, colui che è ispirato dallo spirito divino, come rappresentante di Dio nella forma del Cristo in trono». Anche nell’evangelario appartenente al tesoro del duomo di Aquisgrana, «l’immagine di Ottone III è accostata alla rappresentazione di Cristo» Ivi., p. 81.
- Il regnum era composto da quella che oggi si indica come «dignità regia, potere regio e regno, inglobando quindi la carica suprema, il legittimo esercizio del dominio e il territorio su cui il sovrano esercitava il suo predominio», Ivi., p.
- Con il termine imperium non era indicato solamente «il territorio soggetto all’imperatore da un punto di vista geografico, ma anche il potere imperiale […], cioè la dignità superiore a tutte le altre che si riceveva tramite l’incoronazione a Roma», Ibidem
- Ivi, p. 120.

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