Gocce d’olio nella cucina medievale di Vito Bianchi
Per buona parte dei Pugliesi, gente abituata a vivere a stretto contatto con un paesaggio che per lunghi tratti è ricoperto da autentiche foreste di ulivi, l’impiego dell’olio d’oliva in cucina è così naturale e scontato che, quasi, non ci si fa più caso. Che i condimenti, le basi dei sughi, le minestre, i passati, i dolci, le focacce, le frittelle o le pettole, e le conserve, i boccaccini di verdure o di pesce, e i tanti gustosi tipi di frittura di ortaggi o pescato prevedano l’adozione del pregiato succo di olive, a simili latitudini, con la storia accumulata alle spalle, con la cultura gastronomica maturata nel corso dei millenni, è qualcosa che appare più che normale. E’ un po’ come il Colosseo per chi vive a Roma: è entrato così a fondo nel “dna” degli abitanti della capitale che essi, ormai, quasi non lo notano più passandovi accanto. L’olio d’oliva è tanto marcatamente proprio della gastronomia pugliese (e in molti casi italiana) che, appunto, è divenuto imprescindibile dalla concezione culinaria regionale. In effetti, l’olio d’oliva costituisce una componente fondamentale del modo di concepire il cibo e dei gusti alimentari dei Pugliesi: i quali, nonostante gli attacchi più volte portati dalle multinazionali del fast-food globalizzante, sul modello dei McDonald’s, possono andare fieri di essersi difesi bene e, anzi, di essere passati in qualche misura al contrattacco in una sorta di “crociata culinaria”, giacché quelle stesse catene degli hamburger “mordi-e-fuggi” si stanno – seppur lentamente – adattando e piegando alle sane regole della molteplicità dei cibi e, insieme, ai principi della territorialità, della specificità dei prodotti da imbandire al pubblico. E l’olio d’oliva, nelle infinite sfumature delle sue produzioni, rappresenta certamente un caposaldo della resistenza al tentativo delle multinazionali di omologare i sapori per trarne un più comodo profitto.
Focaccia blues
Qualcuno, probabilmente, ricorderà il film-documentario “Focaccia blues”, girato nel 2008 dal regista barese Nico Cirasola e diffuso nelle sale nel 2009: vi si raccontava – seppur estremizzandola – la storia, accaduta ad Altamura nel 2001, dell’inaugurazione di una focacceria locale vicino a una rivendita aperta dalla solita catena americana di panini industriali, insaporiti dal ketchup e da inaffidabili maionesi o mostarde d’incerta origine: alla lunga, il forno “indigeno” prevarrà e costringerà alla chiusura, per scarso giro di clienti, il negozio “alieno”. Quella vicenda – divulgata da testate come The New York Times negli Stati Uniti, Liberation in Francia o lo stesso settimanale Panorama in Italia – emblematicamente ha avuto per palcoscenico le Puglie, terra d’elezione della Dieta mediterranea e, quindi, culla dell’assortimento dei piaceri papillari, olfattivi e visivi offerto alla cucina dalle molteplici e abbondanti utilizzazioni dell’olio d’oliva, il vero e proprio re di questo regime alimentare che, paradossi delle umane avventure, proprio un biologo e fisiologo americano, Ancel Benjamin Keys, dovette, come è noto, distinguere e magnificare per primo, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Quel nutrizionista di Minneapolis riuscì a provare la relazione fra il consumo di olio d’oliva e la scarsa incidenza nel Meridione delle malattie cardio-vascolari, dopo essersi innamorato del Cilento e aver preso casa presso Pioppi. Identificata in Italia da uno studioso statunitense, la Dieta mediterranea sarà proposta all’Unesco quale “Patrimonio immateriale dell’Umanità” dallo spagnolo Zapatero, e nel novembre del 2010, a Nairobi (in Kenya), verrà annessa al prestigioso elenco, quale esempio di modello nutrizionale rimasto costante nel tempo e nello spazio: un modello costituito innanzitutto dall’olio di oliva e, insieme, da cereali, frutta fresca o secca, verdure, una moderata quantità di pesce, latticini e carne, molti condimenti e spezie: il tutto accompagnato da vino o infusi, sempre nel rispetto delle tradizioni di ciascuna comunità, e comunque con il presupposto di conferire al momento conviviale un’ineludibile funzione relazionale, facendone uno dei cardini dell’interazione sociale.
Nell’antica Roma
L’olio d’oliva è dunque dominante nella Dieta mediterranea. Ma andando a ritroso nel tempo, possiamo forse affermare che è stato sempre così? La spremuta di olive era, per esempio, altrettanto essenziale nella gastronomia medievale delle Puglie? In verità, uno studio organico ed esaustivo sull’argomento appare inficiato dalla diversificazione dei contesti etno-geografici, socio-economici e religiosi. La geografia delle migrazioni e dei climi, la conformazione delle società, le norme stesse delle principali religioni dell’Età di Mezzo conferiscono alla ricerca una pluralità di approcci che molto difficilmente sono riconducibili ad un unico alveo. Ma probabilmente non è di scarso interesse comprendere se e come l’uso dell’olio d’oliva nelle pietanze medievali abbia potuto influenzare gli itinerari gastronomici, per riverberarsi fino alla Dieta mediterranea e, quindi, fino alle nostre odierne predilezioni alimentari.
Certamente, un uso pervasivo e generoso dell’olio d’oliva è ben documentato nelle ricette d’età antica, specialmente in ambito romano. Le qualità del prodotto erano ben conosciute dagli antichi Romani, che annettevano al prezioso liquido una grande importanza e ne distinguevano il pregio sulla base dei procedimenti produttivi. Gli autori latini che trattano di agricoltura sono prodighi di consigli su come produrre l’olio. Nulla è lascito al caso: dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura. Catone (nel De agri cultura 3, 2-4), Gaio Plinio il Giovane (nella Naturalis historia 12, 130) e Columella (nel De re rustica 11, 2, 83 e 12, 52, 1) censiscono dieci varietà diverse di olivi, e l’olio viene classificato in cinque categorie: “Oleum ex albis ulivis“, il più pregiato, dall’intenso sapore, ottenuto con olive di colore compreso fra il verde e il verde chiaro; “Oleum viride strictivum“, utilizzato per la cura del corpo e ottenuto in dicembre-gennaio da frutti invaiati; “Oleum maturum“, generato da olive a piena maturazione; “Oleum caducum“, prodotto da frutti raccolti per terra; “Oleum cibarium“, spremuto da olive bacate o sporche o tenute ammucchiate per molti giorni (insomma di seconda e terza qualità), destinato agli schiavi; e l’olio di recupero con l’amurca (morchia), da usare per lubrificare. Stando poi alle plurime testimonianze riscontrabili in altri scritti di Varrone, Plinio, Orazio, Strabone e Marziale, in alcuni periodi, specialmente fra la tarda Repubblica e il primo impero, particolarmente rinomati dovettero risultare, oltre all’oleum pugliese, l’olio verde di Venafro e quello dell’Istria. Fino a un determinato momento della storia romana imperiale, abbastanza scadente fu considerato l’olio nord-africano, che veniva usato per l’illuminazione. Non mancavano, allora come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere a un’informazione del famoso Apicio (un cuoco dell’antichità – benché gli Apicii conosciuti in età romana siano non meno di tre – le cui pietanze saranno raccolte col titolo di De re coquinaria), il quale spiegava come contraffare l’eccelso olio istriano utilizzando un mediocre oleum spagnolo e aromatizzandolo con un composto di elenio, grano odorato, alloro e sale (De re coquinaria, 1, 4).
Olive da pasto
Che l’olio d’oliva avesse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell’epoca romana è inoltre indicato dal fatto che molte delle province imperiali erano tenute a consegnare a Roma parecchi quintali di oleum quale tributo annuale. E comunque l’Urbe, per il suo largo e variegato consumo interno, doveva necessariamente attingere non solo alle regioni italiche più produttive, prima fra tutte la Regio II Apulia et Calabria, ma anche ai dipartimenti spagnoli e africani. Del resto, in un impero mediterraneo per antonomasia come quello romano, il succo d’olive, frutto di un albero dotato di altrettanta e ancor più remota mediterraneità, costituiva l’anima della cucina. Invero, il buon olio di prima qualità non era un articolo per tutte le tasche: Plinio ricorda che un piatto a base di cavolfiore risultava poco economico in quanto doveva essere condito con oleum. Virgilio, dal canto suo, suggerendo la composizione dell’agliata, consigliava l’uso di parecchio aglio, molto aceto, ma solo poche gocce d’olio. Ed è noto come nel mondo romano fosse invalsa la pratica di raccogliere e conservare il più a lungo possibile delle olive verdi e integre, mettendole sott’olio appena colte, in maniera da poter ricavare, sul momento, e in qualsiasi momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati, in ogni periodo dell’anno (Apicio, 1, 14): per cui si rendeva necessario cogliere le olive dall’albero quando erano ancora poco mature. Peraltro, va sottolineato come, in epoca romana imperiale, le olive si servissero in tutte le cene, anche in quelle più importanti: esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, essendo offerte sia come antipasti sia quando, finito di desinare, i commensali si intrattenevano a bere. Solitamente le olive erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, finché, giunto il momento mangiarne, si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive chiare venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un companatico abbastanza nutriente ed economico. In Columella (De re rustica, 12) si accenna non a caso alla composizione di colymbadae (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, tenendole poi immerse per tre giorni in aceto; successivamente venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta in vasi da conserve, che erano riempiti con salamoia e aceto, facendo in modo che restassero ben coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola. Un altro tipo di conserva era l’epityrum (menzionato pure nel De agri cultura da Catone), che si faceva sempre con le olive migliori: era una salsa molto saporita ottenuta da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie, le si sminuzzava e le si condiva con sale e aromi e, adagiato l’impasto in un vaso, lo si ricopriva d’olio. Le olive nere potevano anche essere tenute per trenta-quaranta giorni in salagione: dopodiché, una volta eliminato il sale, esse venivano immerse in una sorta di mosto di vino concentrato, detto defrutum. Altrimenti, le olive potevano essere messe sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
Archeologia dell’olio
In particolare le Puglie, con la romanizzazione, videro esaltata la propria vocazione olivicola. A Posta Crusta, nel comprensorio di Ordona (l’antica Herdonia, in provincia di Foggia), gli archeologi hanno potuto rinvenire una sorta di prototipo masseriale composto da un corpo architettonico prettamente residenziale e da una zona riservata specificamente alle incombenze lavorative. La masseria erdoniate doveva essere abitata da un dominus e dalla relativa famiglia, affiancati da un certo numero di schiavi che venivano impiegati specialmente nella lavorazione olearia, in modo da rendere disponibile un prodotto destinato in parte al consumo dei residenti e, in parte, alla vendita. A San Vito di Salpi (sempre nel Foggiano), gli scavi hanno poi evidenziato una villa schiavile che annoverava un settore abitativo contraddistinto da lussuosi ambienti residenziali, di esclusiva pertinenza padronale, e un’ala caratterizzata da un ampio reparto produttivo, dove erano collocati torchi, vasche, magazzini, alloggi per il personale, stalle e depositi vari. Specialmente il torchio con la doppia vasca di decantazione per l’olio lascia immaginare un’economia a specializzazione olivicola, appannaggio di un dominus di probabile origine locale, che abitava con ogni comfort gli ambienti residenziali della villa. Per lavorare nei campi e per le fasi di lavorazione del prodotto agricolo era invece impiegato un numero considerevole di schiavi, che secondo consuetudine venivano ricompensati con il semplice vitto e che erano alloggiati in una serie di stanzette collocate nel corpo centrale del complesso. Gli schiavi erano utilizzati prevalentemente per i lavori dei campi: e il “materiale umano” non doveva certo fare difetto, all’indomani delle guerre di conquista che i Romani conducevano non soltanto in Europa, ma soprattutto nel Medio Oriente e, in genere, lungo tutto l’arco mediterraneo meridionale e sud-orientale. Lo sfruttamento di tanta manodopera servile, acquisibile a bassissimo costo in uno qualsiasi dei tanti empori schiavistici del Mare Nostrum, aumentava notevolmente i proventi derivanti dalla coltura specializzata dell’olio, e sostanziava un tessuto economico che, proprio nelle ville rustiche romane, aveva i propri perni: di modo che, attraverso l’efficiente rete portuale dell’antica Puglia (incardinata sul fondamentale scalo di Brindisi/Brundisium), le copiose produzioni olivicole potevano essere associate a canali di commercializzazione estremamente remunerativi, nell’ambito del costituendo imperium romano (e dei territori limitrofi). Di certo, fra il II e il I sec. a.C., l’olivicoltura pugliese poté conoscere momenti di grande fortuna. Si accrescevano i flussi mercantili dell’olio. Per cui, intorno al 37 a.C., nel trattato De re rustica, Marco Terenzio Varrone poteva scrivere: “Di solito, carovane di asini vengono formate dai mercanti, come quelli che dal Brindisino e dalla Puglia settentrionale trasportano verso il mare, a dorso d’animale, olio e vino”. Le fonti letterarie sembrano trovare conferma nei dati archeologici: le indagini hanno infatti mostrato come, a partire dalla seconda metà del II e per tutto il I sec. a.C., nel territorio brindisino le produzioni agrarie fossero strettamente correlate con le industrie adibite alla fabbricazione di anfore per il trasporto d’olio. Ad Apani, in una zona collocata a nord di Brindisi, gli archeologi hanno individuato un vero e proprio villaggio, che ospitava diversi impianti produttivi e grandi fornaci destinate a confezionare i tipici contenitori per il commercio oleario. Parimenti, nel vicino sito di Giancola, è attestata la presenza di non meno di venticinque schiavi, obbligati a lavorare al servizio di Visellio. Costui, proprietario di una vasta tenuta agricola (nonché membro di un’eminente famiglia di Arpino, imparentata col celebre oratore Cicerone), badava ai propri interessi economici impegnandosi direttamente nel controllo dell’azienda. Ancora, nelle vicinanze di Canosa, le ricerche archeologiche in località La Minoia hanno condotto al rinvenimento dei resti di antiche attrezzature (lacus olearius, canalette, vasche, dolia defossa) che lasciano supporre una produzione olearia dai discreti volumi. Il complesso, fiorente almeno fra l’epoca tardo-repubblicana e la prima età romana imperiale, sembrerebbe aver conosciuto un successivo, temporaneo ridimensionamento (o addirittura un abbandono) e, ancora, una nuova, intensa fase di ristrutturazione fra la fine del III e il IV secolo. In età tardo-antica funzionava altresì la villa di Agnuli, a Mattinata, collocata presso il litorale, che dovette essere risistemata con un robusto ampliamento del vecchio oletum, cui furono aggiunte fabbriche e macchinari deputati a produrre una quantità di olio doppia rispetto alle epoche precedenti.
L’olio pugliese, dunque, anche sul declinare dell’età antica doveva essere sempre uno prodotto molto consumato. E consumato sicuramente anche per la cucina. Poi, però, le fonti si assottigliano, divengono più esili, mentre le tracce dell’olio d’oliva negli alimenti alto-medievali risultano progressivamente sempre più difficili da riscontrare. Questione di carenza di fonti o questione di mutamenti politici e socio-economici? Ovvero: l’arrivo nella Penisola italica di genti provenienti da contesti naturali e culturali non proprio mediterranei, ha potuto in qualche misura contribuire al mutamento – seppur parziale – dei gusti culinari? Il sopraggiungere al di qua delle Alpi di compagini etniche provenienti dal centro, dall’est o dal nord dell’Europa ha potuto ridimensionare l’uso in cucina dell’olio d’oliva, a vantaggio, magari, di grassi d’origine animale, più consoni alle tradizioni nordiche o comunque centro-europee? Bisogna in effetti ricordare come nell’alto Medioevo le Puglie non siano state sempre e soltanto bizantine – perseverando così nella scia dell’impero romano –, ma abbiano registrato anche presenze ostrogote, longobarde e, per un significativo periodo, saracene. Dall’XI secolo, inoltre, le incursioni d’Oltralpe di nuove dinastie dovettero introdurre nel Mezzogiorno elementi certamente molto più continentali che non mediterranei, dapprima con la componente normanna, successivamente con quella sveva e, ancora, con quella angioina: tutte presenze foriere di bagagli gastronomici abbastanza differenti dalla tradizione meridionale e, soprattutto, da quella specificamente pugliese. Che impatto possono avere avuto le dominazioni di stirpi straniere sull’alimentazione nelle Puglie e, quindi, sulla predilezione pugliese per l’olio d’oliva?
Ricettari medievali
In generale, le informazioni sulla cucina medievale d’ambito italico sono deducibili da ricettari che, secondo diversi studi, dipenderebbero fondamentalmente da due famiglie: la prima fa capo al Liber de coquina, scritto in latino, presumibilmente agli inizi del Trecento, alla corte angioina di Napoli, esito di elaborazioni anteriori che Anna Martellotti fa risalire alla corte palermitana di Federico II di Svevia (con successive ricopiature, anche in volgare, aggiunte e varianti, in varie zone del Centro e del Nord dell’Italia, laddove vedrà la luce il cosiddetto Libro della cucina dell’Anonimo Toscano, risalente alla fine del XIV secolo); la seconda famiglia di ricette discenderebbe invece da una consolidata tradizione di origine probabilmente senese, risalente, stando ad alcuni studiosi, al 1338-1339: anch’essa si diffonderà con variegati adattamenti in più regioni, giacché manoscritti ispirati al manuale toscano, con vari adattamenti di contenuto e di lingua, sarebbero stati prodotti tra XIV e XV secolo a Bologna, in Liguria, nel Veneto e nel Mezzogiorno. I ricettari del gruppo meridionale potranno propagarsi con “varianti” che giungono cronologicamente fino alla fine del XV secolo e, geograficamente, si collocano fuori della Penisola italiana, approdando fino in Francia e in Germania. Questa fortuna europea si spiega forse pure tenendo conto della lingua “internazionale” – il latino – in cui fu scritto il testo delle ricette meridionali. Viceversa, i ricettari del ramo toscano non uscirono mai dall’Italia, sebbene rimanessero in circolazione assai più a lungo, fino al XVI secolo, coprendo la Penisola in tutte le direzioni. Altra fonte particolarmente interessante è inoltre il ricettario quattrocentesco di Maestro Martino, preludio ai prontuari rinascimentali di Cristoforo Messisbugo e di Bartolomeo Scappi (considerato, quest’ultimo, un monumento dell’arte italica della cucina, avendo frequentato gastronomie e culture molteplici a Milano, Venezia, Bologna e Napoli, fino a Roma). Tutti questi ricettari compilati fra Basso Medioevo e Rinascimento erano destinati – specialmente nel caso della raccolta meridionale – a un pubblico d’élite. Nondimeno, i prontuari esprimono a livello di ingredienti e preparazioni quella trasversalità sociale della cultura gastronomica che, evidenziata da Massimo Montanari, accomuna non di rado la cucina dei ricchi e la cucina dei poveri. Le contaminazioni appaiono piuttosto chiare, e un simile mix non può essere inficiato, almeno dal punto di vista nobiliare, dall’utilizzazione, nelle pietanze “trasversali” (ovvero tratte dal repertorio povero), delle spezie pregiate, il condimento-chic per antonomasia: perché, aromatizzazioni a parte, la sostanza dei piatti spesso non cambia. Prendiamo per esempio la ricetta delle “fave infrante”, proposta agli inizi del Trecento proprio dal napoletano Liber de coquina: esse altro non sono se non una purea che veniva ampiamente approntata sulle tavole contadine e che, pure, trovava spazio nel testo riservato alla cucina di corte (o comunque aristocratica): “Prendi fave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l’acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall’acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare un po’ e quando scodellerai aggiungi del miele o dell’olio soffritto con cipolle, e mangia”. Come si può notare, in questa ricetta il ruolo dell’olio d’oliva appare alternativo a quello del miele, quasi un succedaneo di riserva rispetto alla soluzione primaria: benché, attualmente, la passata di fave preveda non mielose intrusioni, bensì robuste aspersioni di succo d’oliva. L’olio, nella purea trecentesca, sembrerebbe aver smarrito la sua centralità, perdendo un po’ di quella sovranità che invece, ai giorni nostri, afferma prepotentemente in ogni piatto della Dieta mediterranea. Nella “fave infrante” medievali l’olio d’oliva parrebbe quindi aver subito un declassamento.
Consumi in calo
Di sicuro, nel Nord dell’Italia medievale la funzione di insaporire i cibi era affidata a grassi come strutto, lardo o sugna, emblemi di quei “fondi di cottura” d’origine animale descritti da Montanari, e contrappuntati nel Mezzogiorno dai “fondi” vegetali”. Ma ancorché se ne sia quasi sempre presupposto – talora abbastanza acriticamente – un uso ordinario nell’alimentazione del Meridione, lo specifico olio d’oliva non compare più con la sistematicità dell’epoca romana nei manoscritti culinari, nemmeno in quelli originatisi nel profondo Sud. Nei Ricettari di Federico II analizzati da Martellotti è effettivamente frequentissima la dizione “grasso”, che dà l’impressione di surrogare, in più circostanze, la classica e pluri-millenaria adozione dell’olio d’oliva. In tal senso, va ricordato come già nel 1985 Giovanni Cherubini, nel corso delle Settime Giornate Normanno-sveve, organizzate presso l’Università di Bari dall’omonimo centro di studi sul tema Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, pur in una globale povertà di dati aveva rimarcato “[…] un generalizzato e forte consumo di vino a fronte di un complessivo assai più modesto e meno generalizzato consumo di olio, sia sul piano geografico che dal punto di vista sociale […]”. E prodotti come il lardo, piuttosto che l’olio d’oliva, componevano frequentemente la dieta delle classi rurali. Lardo era conservato nei cellaria dei monasteri. Nella stessa Sicilia era attestato un forte consumo di grassi animali. Oltretutto, considerato il regime gravoso della bannalità cui poteva essere sottoposto da enti o signori l’utilizzo dei frantoi, si potrebbe dedurre un’ulteriore difficoltà nella produzione olearia, che si sarebbe riverberata sulle abitudini gastronomiche. E’ ancora Cherubini a supporre che “[…] Ponendo da parte, per mancanza di documentazione, il problema della popolazione musulmana, che non poteva ovviamente condire con grasso di maiale, è probabile che fra i cristiani si facesse un uso assai parco dell’olio come condimento, che sostituiva tuttavia i grassi animali nei giorni di quaresima e negli altri numerosi giorni di magro […]”. Non che si fosse perso il senso della bontà o della qualità dell’olio d’oliva, se è vero che le fonti ricordano sia quantitativi “de bono oleo musto extracto de fructibus olivarum”, sia dosi “de bono oleo claro”. Ma di sicuro grosse partite d’olio non restavano nelle Puglie, in quanto venivano piuttosto – e sovente – commercializzate su lunghe distanze.
Commerci su larga scala
Il geografo arabo ibn Sa’id, vissuto nel Duecento, attesta per quel secolo l’esportazione dell’olio d’oliva pugliese verso il Medio Oriente e gli empori del delta del Nilo, in primis Alessandria d’Egitto. Dalla lettura della famosa Pratica di mercatura del fiorentino Francesco di Balduccio Pegolotti (un testo per mercanti della prima metà del Trecento), si intuisce inoltre come, nel XIV secolo, l’olio delle Puglie venisse esportato ampiamente a Costantinopoli, ad Acri, ad Alessandria, a Tunisi e in Algeria, a Cipro, a Rodi, a Candia, in Sardegna, a Genova, a Maiorca, a Cattaro, a Ragusa e a Venezia. I carichi partivano dai porti di Brindisi, Bari, Giovinazzo, Barletta, Molfetta o Manfredonia. Riguardo all’olio pugliese si precisava che il più conveniente era quello della Terra di Bari, mentre in subordine veniva considerato quello dell’area intorno a Monopoli, dove la carenza di buoni approdi ne complicava la commercializzazione via-mare. Nel Quattrocento risiedevano a Bari diversi mercanti veneziani impegnati nell’esportazione di olio d’oliva, in buona parte proveniente dal territorio di Bitonto. Proprio da quest’ultima Università, nel 1487, alcuni mercanti fiorentini acquistavano in una sola partita circa centodieci salme d’olio per le quali versarono più di cinquecento ducati. Attivi in questo settore del commercio erano anche i mercanti lombardi la cui presenza in Puglia crebbe d’importanza dopo il conseguimento, da parte degli Sforza, del ducato di Bari. Il commercio oleario arricchì, d’altra parte, anche alcuni mercatores pugliesi, che così giunsero ad accumulare notevoli fortune: è il caso degli Scaraggi di Bitonto, la cui compagnia si affermò alla metà del XV secolo, degli Scoppa di Barletta e dei Rufolo di Molfetta. Il campo d’azione degli Scaraggi si estendeva dalle Puglie all’Adriatico, al Mediterraneo, fino ad Alessandria, prevedendo un’assidua presenza di procuratori sulla piazza di Venezia. Grazie alla redistribuzione operata da quest’ultima città, l’olio pugliese arrivava anche sul mercato nord-europeo e su quello padano-orientale; la sua stessa presenza in area egeo-ionica e pontica passava spesso per l’approdo veneziano.
Almeno fino al termine del XV secolo è pertanto registrabile una sostanziosa esportazione dell’olio d’oliva pugliese e, di contro, un’apparente riduzione dell’uso in cucina: la pervasività gastronomica della spremuta di olive parrebbe dunque essersi persa rispetto al tempo dei Romani. Ora, considerata l’insistita dominazione di casate nordiche nel Mezzogiorno, qualcuno potrebbe pure pensare a un tentativo di intrusione nel Sud di pietanze sguazzanti in quei grassi continentali che hanno ben poco di mediterraneo e che non sono certamente l’olio d’oliva. Si potrebbe essere superficialmente indotti a ipotizzare una fase di più o meno inconsapevole egemonizzazione gastronomica (oltre che politica), che non poche affinità presenterebbe con l’episodio del film Focaccia blues e col tentativo della multinazionale del fast-food di annichilire le prelibatezze pugliesi di Altamura. Tanto più che lo stesso Montanari suppone una koiné del gusto nelle usanze culinarie basso-medievali, delineando una sorta di internazionalizzazione dei cibi. Ma come in molti intendono opporsi fieramente alla reductio ad unum di tutti i gusti del Pianeta Terra, allo stesso modo è possibile individuare luoghi e storie di maggiore resistenza e di preservazione dei caratteri mediterranei della gastronomia, con l’esaltazione della centralità dell’olio d’oliva. Sono luoghi e storie connessi all’islam. All’islam del mare Mediterraneo, soprattutto, laddove la preparazione dei cibi ha più che altrove serbato con tenacia l’uso dell’olio d’oliva. Certamente anche per motivi d’ordine dottrinario, stante il divieto di usare carne di maiale che vige nella religione di Maometto (e in quella ebraica): ancorché determinati grassi potessero eventualmente essere ottenuti dalla coda dei montoni o da altre specie animali legate alla quotidianità e alle consuetudini regionali delle diverse aree del mondo islamico.
Alla ricerca delle ricette perdute
Per cercare di ricostruire gli itinerari perduti dell’olio d’oliva nel Medioevo mediterraneo di pertinenza islamica si può fare riferimento ad almeno tre raccolte di pietanze, riferibili al XIII secolo: la “Relazione con l’amato nella descrizione delle migliori pietanze e delle spezie”, attribuita a ibn al-‘Adim di Aleppo, che riecheggia tradizioni siriache; il “Tesoro dei consigli utili per la composizione di una tavola variata”, d’ambito egiziano; e la “Tavola eccellente composta dei migliori alimenti e delle migliori pietanze”, compilata in Andalusia, a Murcia, a cura di ibn Razin al Tujibi. E’ interessante notare come alcune delle ricette contenute in queste compilazioni paiano tratte, pari pari, dal catalogo romano di Apicio: si pensi al “Pollo alla numida”, un manicaretto in agrodolce, comprensivo ovviamente d’olio d’oliva, che dalla cucina della prima età imperiale si ritrova nella cucina musulmana del Medioevo. Esaminando circa centoventi ricette fra le più rappresentative del repertorio gastronomico islamo-mediterraneo, perfettamente inquadrato da una studiosa di vaglia quale Lilia Zaouali, si può constatare che in ben più della metà dei casi si ricorra all’olio d’oliva, quando non proprio alle stesse olive: come abbiamo notato per gli antichi Romani, le olive presso i musulmani sono presenti a tavola a ogni pasto, immancabilmente, al pari della caraffa di acqua fresca e del pane, e tuttora la maggior parte delle famiglie arabe della costa mediterranea prepara le olive in salamoia per uso proprio fin dall’inizio della stagione della raccolta. L’olio d’oliva attraversa e sostanzia le diverse portate preparate per il desco del Mediterraneo musulmano, in una sequela di piatti che contraddistinguono i momenti del desinare: gli antipasti freddi (come la Purea di ceci alla cannella e allo zenzero, la Purea di melanzane al latte fermentato o le Fave in salsa acida alle nocciole); le pietanze legata alla tradizione propriamente araba di Maometto (come la Tharida ai tartufi, la Tharida di Tunisi, di Nawruz e del Sabbat, intendendosi per tharida una specie di piadina sminuzzata e cosparsa di brodo di carne); i cibi a base di carne (come il Pollo alla pasta di mandorle, la Carne ai pistacchi e menta, la Torta di pollo andalusa, fatta con spezie e abbondante olio dolce, e ancora le Polpette di carne fritta, le Polpette all’aceto, le Scaloppine affumicate all’egiziana o l’Agnello arrosto farcito); le ghiottonerie ai formaggi (come le Frittelle al miele, i Ravioli fritti alla maniera di Toledo, la Torta di sfoglia – una sorta di millefoglie al formaggio –, le Frittelle con pistacchi e pinoli, la Torta di formaggio e uova, il condimento del Formaggio secco insieme al Formaggio fresco salato o al Formaggio secco invecchiato nella giara); le minestre, i passati e le zuppe (quali la Crema di farina o il Brodo di pollo col pangrattato); le paste alimentari (Spaghetti, Vermicelli o Pasta corta); lo stesso cuscus (andaluso o marocchino che sia) e il Riso agli spinaci; i ragù di carne e verdura (fra cui le Polpette di carne alle melanzane e le Melanzane in agrodolce); il pesce (si pensi al Pesce al sale e aromi, al Pesce al timo, limone, prezzemolo, aglio, menta e ruta, al Pesce infarinato e fritto con mandorle e uva passa, all’Orata al miele, alla Cernia agli aromi, alle Polpette di pesce allo zenzero e formaggio, agli Spiedini di pesce alla cannella e allo zenzero, alla Grigliata di sardine, alle Polpette di sardine con mandorle e pinoli, ai Filetti al cumino e zafferano, al Pesce al finocchio, alle Polpette di sardine fritte, ai Gamberetti fritti, ai Tortini di pesce alle spezie, oltre al tipico condimento a base di pesce a lunga conservazione, il murri); le salse (come il Grasso di pollo col succo di melagrana, oppure la Salsa alessandrina con olio, limone e spezie piccanti); i dolci e gli sciroppi (quali le Banane fritte, il Babà cotto nella giara e le Kinàfa o crêpes).
Sguardo sull’Oriente
In tutti questi esempi e in altri ancora, che ora sembrano sorprendentemente avvicinarsi alla nostra dieta e ora paiono esoticizzati dall’uso di spezie che sanno d’Oriente ma che nel Medioevo erano all’ordine del giorno fra i sapori delle pietanze, l’olio d’oliva è sempre ben presente. La stessa Lilia Zaouali sottolinea nella sua analisi i forti tratti di discendenza della cucina islamica dalla più antica tradizione culinaria romana. Dunque, il mondo islamico ha resistito, ha preservato e, forse, tramandato determinati tratti di culture più remote. Compreso l’uso generoso dell’olio d’oliva in cucina. Cosa possiamo dedurre? Plausibilmente possiamo cominciare a pensare che l’uso convinto del succo d’olive nelle ricette sia stato, almeno in parte, custodito dalla gastronomia islamica, per essere trasmesso ed esaltato nuovamente in quella Dieta mediterranea che proprio dalla sfera culinaria del mondo antico si vorrebbe far discendere per alcune delle sue connotazioni principali. D’altronde, noi sappiamo che grandi opere letterarie, filosofiche o scientifiche di età classica sono state recuperate e serbate dalla civiltà islamica – quando in Occidente si erano perse – per essere trasmesse alla società europea nel Medioevo. E siffatto elemento islamico, che ha saputo custodire e tramandare cultura pregressa nei campi più disparati, era presente – come visto – anche nelle Puglie. Non per nulla, la gastronomia pugliese si compone di preparazioni che risalgono alla tradizione musulmana nelle sue molteplici declinazioni: l’itriya, la pasta alimentare abbondantemente presente nella consuetudine culinaria islamica, ritorna per esempio nella ricetta dei “ciceri e tria”, i ceci con fettucce di sfoglia di pasta, che campeggiano sulle tavole soprattutto – ma non solo – salentine; le zeppole, dolci tipici pugliesi del 19 marzo, giorno di San Giuseppe, hanno una diretta derivazione da analoghi preparati d’ambiente islamico; e le melanzane ripiene, la parmigiana di melanzane fritte e carne tritata (discendente dalla buraniya araba, con esiti nel mussaka greco), gli aperitivi di olive, le lasagne e le altre qualità di paste alimentari, la copeta al torroncino di mandorle, zucchero e/o miele, il prelibato latte di mandorle servito coi semini di farina, lo scapece, i panzerotti e i calzoni al forno o fritti, i ravioli, il pesce cotto al sale nel forno, la frittura di gamberetti, le polpette infarinate e fritte, i confetti di zucchero, la frutta candita, le incartellate di farina al miele e cannella, la focaccia farcita di olive, cipolle e – in aggiunta non sistematica – uva passa, le zucchine all’aceto, le conserve di verdure sott’aceto, le torte al formaggio e all’uovo tipiche dell’Occidente musulmano, la pasticceria a base di mandorle, e una nutrita serie di pietanze più o meno famose dipendono, senz’altro, dall’eccelsa gastronomia araba.
Probabilmente, negli studi di Medioevo e di cucina medievale ci si è rivolti più spesso all’Europa e all’Occidente e meno frequentemente all’Oriente e al Mediterraneo. Ma per chi vive nelle Puglie, la regione più orientale d’Italia, terra di dieta e di storia mediterranea, non può essere dubbia la direzione verso cui volgere ulteriormente lo sguardo, per riscoprire il senso di un’identità complessa e la molteplicità che ha originato le ricchezze culturali: compresa, naturalmente, la ricchezza gastronomica.

Vito Bianchi, archeologo e scrittore, ha insegnato Archeologia all’Università degli Studi di Bari. Dedica buona parte dei suoi studi alle relazioni culturali, politiche e religiose fra l’Europa, il Mediterraneo e l’Oriente. Ha firmato per la collana “Medioevo Dossier” le monografie Il castello. Un’invenzione del Medioevo (2001) e L’Islam in Italia (2002) e ha pubblicato, tra l’altro: Sud e Islam. Una storia reciproca (2003); Viaggio tra i misteri. Culti orientali e riti segreti lungo l’antica via Traiana (2010); Dracula. Una storia vera (2011); Bari, la Puglia e Venezia (2013); Bari, la Puglia e l’islam (2014); Bari, la Puglia e la Francia (2015). Ha pubblicato di recente “Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista” (Laterza, 2016)
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