I Farfensi nel nord delle Marche, una realtà dimenticata

La chiesa di San Barnaba e ciò che resta della torre campanaria del monastero farfense della Monacesca a Matelica

I Farfensi nel nord delle Marche, una realtà dimenticata di Matteo Parrini

Una delle importanti realtà storiche marchigiane, tra le meno note al grande pubblico e relativa all’alto medioevo, è la presenza dei monaci Farfensi, protagonisti di una pioneristica attività di ricostruzione sociale e cristiana, in particolare nell’ascolano e nel fermano, da dove poi si diffusero in maniera capillare alle aree limitrofe contigue. La rilevanza di ciò è notevolmente determinata dal fatto che gli abati farfensi seppero nel tempo annettere territori e costruire una dialettica sociale alla pari di altre signorie locali, superando altre grandi abbazie come Montecassino o Sant’Eutizio, tra Preci e Norcia, o gli ultimi influssi culturali provenienti da Ravenna1.
L’epoca del monachesimo farfense si incunea in un periodo storico particolare, successivo allo stanziamento longobardo in Italia (568-570) ed alla costituzione del Ducato di Spoleto, che giunse al suo apice ad estendersi fino ad inglobare i grandi centri marchigiani di Fano, Osimo, Camerino e Fermo. Con la dominazione franca del Ducato di Spoleto (774) e la conseguente protezione politica concessa all’abbazia di Farfa, i monaci farfensi divennero coloro che diedero risalto e rilanciarono l’opera spirituale e di rinascita del monachesimo nel territorio marchigiano nell’alto Medioevo. Ad essi, non a caso, è stato accreditato l’aver permesso, attraverso i grandi fondi gestiti, il passaggio «dal colonus qui in casa residet alla creazione di una rete di castra lungo gli assi della comunicazione», attraverso una rete di rectores, duces, comites, missi dominici2.
Fatto non da poco se si considera che questa ramificazione nel territorio, fu completata da chiese, oratori, cappelle e pievi che andarono a cristianizzare quei luoghi spopolati o abitati da longobardi e minoranze italiche, dove per varie ragioni l’evangelizzazione era stata scarsa o disattesa nel corso dei secoli, diffondendo al contempo i culti di santi come le martiri Vittoria e Anatolia, il vescovo umbro Savino o ancora i martiri dei primi secoli Giorgio, Ippolito, Vito, Silvestro, Paterniano3.
Ancora oggi alcuni toponimi ci riportano a questa origine “farfense”, di un’epoca in cui l’area appenninica era pagana, ariana o comunque in mano al dominio culturale longobardo. I regesti anche più antichi ci mostrano fondazioni e donazioni in territori difficili, abbandonati da tempo, da dissodare, sistemare e rendere produttivi, attraverso centri fiorenti e trasformati rapidamente in veri e propri feudi che finirono con il costituire una fitta maglia territoriale di un potere integrativo, se non a volte sostitutivo di quello politico ufficiale. Dal centro propulsore che era l’abbazia di Farfa si irradiò quindi in quel periodo un sistema che cercò di integrare le varie aree acquisite ed arrivò ad estendersi fino a zone di frontiera a nord del Ducato di Spoleto, come le «curtes» di Sant’Anzia «in Castello Petroso» (oggi Pierosara di Genga) e Cavalalbo (forse Civitalba di Sassoferrato). Talvolta comunque non mancavano neppure case con vigneti e appezzamenti di terra: «Murro cum vineis et terris, olivetis, silvis, pomis, pratis, ripis salictis culti set incultis»4.
Per di più la diffusione dei monaci farfensi corrispose al periodo forse più duro e meno conosciuto delle invasioni saracene in Italia. Il IX ed il X secolo vide la penisola in balia delle orde saracene: la stessa Ancona fu devastata nell’839 e nell’850 e una delle ragioni della diffusione del monachesimo benedettino farfense nelle Marche (con la nascita del caposaldo a Santa Vittoria in Matenano) fu dovuto pare anche alla distruzione subita ai tempi dell’abate Pietro I, riuscito a resistere eroicamente ad un lunghissimo assedio5.
Tracce di questa diffusione di “frontiera” e della stessa espansione saracena ne abbiamo quindi sul confine nord dei possedimenti di Santa Vittoria in Matenano, nella Diocesi di Camerino, ossia in quello che appare essere amministrativamente suddiviso tra il ducato di Camerino ed il gastaldato di Castel Petroso (identificato come accennato poc’anzi con il nucleo urbano di Pierosara, oggi frazione del Comune di Genga nell’anconetano)6.
Si tratta di un’area nell’insieme relativamente poco studiata finora, dove però preziose e recenti ricerche hanno messo in luce le stesse origini del fenomeno socio-culturale che portò alla nascita prima di un’abbazia di grande interesse come San Vittore delle Chiuse e poi della vicina e florida città commerciale di Fabriano7.
Prenderò degli esempi di quest’area di confine settentrionale proprio per far comprendere meglio al lettore quanto di quest’opera spirituale e feudale sia ancora visibile nella contemporaneità ed accessibile dalle fonti di archivio.
Va innanzi tutto detto che la documentazione più antica deve essere andata persa o distrutta e che, per la prima volta, tra l’811 e l’834 vengono citate contese da dirimere con il monastero di Farfa da parte dei vari comites che reggono Camerino. I fondi farfensi sono distribuiti nelle vallate del Potenza, dell’Esino e del Musone, lungo direttrici ben segnate dalle antiche vie di transito di epoca romana e da castra altomedievali, molti dei quali ancora in fase di studio8.
Al centro di questo sistema vi sono la curtis di Sant’Abbondio, nonché le proprietà monastiche di Salabone o Salambona (oggi Salomone, nome riconducibile forse anche al ricco proprietario ebreo che lo possedette in epoca rinascimentale), in Valle Cupa (nel territorio oggi di Esanatoglia) e in Valle Mateliciana , tutte caratterizzate da agionimi che ne evidenziano la struttura sociale raccolta attorno ad una chiesa o ad una cappella dove pregare e riunirsi9.
Purtroppo di questo esteso patrimonio abbiamo notizie soprattutto relative alla sua decadenza e non tanto alle origini. Insomma, si inizia a parlare spesso di esso al tempo di quell’abate decadente che fu Ildebrando, monaco del IX secolo autore di avventure boccaccesche e crudeli: dall’avvelenamento dell’abate di Farfa, Ratfredo (+ 936 ca.), alla raccomandazione ricevuta dal re d’Italia Ugo per fare nuovo abate il suo amico monaco Campone, fino ad impossessarsi illegittimamente dell’abbazia e del castello di Santa Vittoria in Matenano (940) e dare così inizio ad una brutta serie di gestioni perverse e criminose, non sottraendosi neppure alle lotte militari che si consumarono tra Matelica e Camerino sempre nel 940 tra gli eserciti di Ascario, duca di Spoleto, e del conte Sarilone di Borgogna. Lo stesso monastero di Santa Vittoria in Matenano subì gravi danni, non solo per le depredazioni a scopo privato dell’abate, ma anche a seguito di un festino che nel 945 vi organizzò lo stesso Ildebrando, portandovi la sua donna, i figli ed altre comitive, tra libagioni e abbondanza di alcolici10.
Non fa quindi scalpore il fatto che importanti curtes della zona più settentrionale dell’espansione farfense nella Marca, subissero intricate vicende in questo periodo. La curtis di Sant’Abbondio, ad esempio, prima fu venduta dall’abate Ildebrando ai figli di Grimaldo, per passare poi alle dirette dipendenze della canonica di San Severino (comprese le decime) e restare nominalmente, ancora nel 1116, una dipendenza ecclesiastica dell’abbazia di Farfa11.
La decadenza proseguì comunque anche sotto i successori abati di Farfa dell’epoca degli imperatori Ottoni di Sassonia: ricatti, violenze, accuse di simonia e perfino qualche estesa rivolta, come quella del 1007, caratterizzarono il clima in tutte le Marche ed in particolare nella Marca di Camerino12.
Agli storici (e potenzialmente agli stessi archeologi in alcuni casi) resta comunque ancora da identificare con certezza alcune delle proprietà citate nella documentazione rimasta. Grande  discordanza si evidenzia sula stessa ubicazione dell’importante curtis di San Vito. Da chi la vorrebbe in territorio settempedano, nei pressi dell’attuale Castel San Pietro12, a chi nei pressi di Granali di San Severino, ossia ad Ugliano13 (vi si trovava la chiesa di Sant’Abbondio de Granalibus), a chi nei pressi dell’attuale pieve di San Zenone nei pressi della frazione di Selvalagli di Gagliole14, per lo più da deduzioni toponomastiche o da somiglianze terminologiche derivanti dal diffusissimo etimo di agellus, diminutivo del latino ager, ovvero piccolo campo. Sinceramente mi sembra che talvolta si rischi in questo modo perfino di cadere in una metonimia e tanto più sono state rimaneggiate le carte ed i luoghi, tanto più diventa indispensabile per chi fa ricerca appurare de visu quanto le carte sembrano apparentemente trasmetterci.
Una analisi più attenta delle carte e dei luoghi infatti ci consente di conoscere nello specifico l’ubicazione di questa curtis, posta a confine tra la Valle Cupa e la Valle Mateliciana. Infatti i toponimi riportati si conservarono a lungo in quell’area ed in una carta dell’Archivio segreto comunale, datata 19 agosto 1311, citata dallo stesso storico Camillo Acquacotta, si può leggere chiaramente l’ubicazione di questo possedimento divenuto fin dal 1233 parrocchia rurale nell’agro occidentale di Matelica, lungo la strada che portava verso l’antico diverticolum romano della Flaminia e confinante con l’altra antica parrocchia di Sant’Angelo di Camuriano o Camoiano: «[i confini] della prima cominciavano dal fossato che dalle rote di Morici scende al gorgo di Terrigoli, e si estendevano fino al trivio della villa nuova, di là per la strada di Coina andavano al trivio di Pastojano, e poi discendendo lungo la strada fino al molino di Corrado Bernardi: finalmente seguitando il rigo di Acojano terminavano al Sasso Pezzuto verso la Chiesa di S. Angelo. Gli altri di S. Vito si partivano dalla strada coina e procedevano al trivio di Pastojano, e da questo fino al rigo di Acujano verso la detta Chiesa di S. Vito»15.
Si tratterebbe quindi di un possedimento, posto sulla sommità del colle detto Monte San Vito, spopolato a seguito delle tremende conseguenze della peste nera e ridotto quindi ad una parrocchia rurale, trasformata poi in cappella della famiglia De Sanctis verso fine XVIII secolo16.
La «curtem sancti viti» è più volte citata «in comitatu camerini», situata «in valle maina» e, nei diplomi degli imperatori Corrado II, Enrico III ed Enrico IV, risulta affidata ormai  a dei feudatari locali: «filii alberici gozo et albizo per scriptum ab episcopo hugone»17.
Si tratta di Gozo (un toponimo con questo nome si è conservato fino a poco più di un secolo fa nella zona di Terricoli), figlio di Alberico, e Albizo, che l’avevano ottenuta per scriptum dal vescovo Ugone. Gli stessi Gozo, Alberico, Lupone (altro nome che ricorda il toponimo di Colle di Lupone, presso l’attuale Monte Pulischio) ed Ofredo, figli del conte Alberico, e Alberico e Monaldo, figli di Monaldo, nel 999 avevano versato all’abbazia di Farfa cento soldi per l’acquisto di alcuni beni presso Pasturiano sul Monte San Vito (la località citata nella succitata pergamena del 1311, a confine tra Monte San Vito e la località Subbiano) e per la stessa curtis con 500 moggi di terra che confinavano con la strada pubblica per il fondo di Agellum (la località attigua, oggi denominata Geglia)18.
In questo periodo l’abbazia di Farfa deve essere stata quindi defraudata di questo possesso e non deve essere una coincidenza se per la prima volta, nel diploma imperiale di Enrico V non viene neppure menzionata. La curtis di San Vito rimase comunque nel tempo una relativamente importante comunità ecclesiastica: ciò risulta non solo dal titolo parrocchiale, ma anche dalla documentazione del 1233, dove si evidenziano le decime che vi si pagavano già a quel tempo19.
Purtroppo della curtis di San Vito, oggi situata in un appezzamento privato recintato, si è salvato ben poco: più volte restaurata, fu prima spogliata e poi demolita dal conte Filippo De Sanctis a fine ’700, facendone rimanere le tracce delle mura esterne e la pavimentazione di mattoni, che sprofondò nel tempo, riportando alla luce le sepolture già ai primi del XX secolo. Oggi è ben visibile il luogo in cui si trovava l’antica chiesa sul punto più alto della collina. Attorno si notano dei gradoni, moltissimo pietrame e tracce fittili, sia di epoca medievale che romana.
Tra le altre proprietà site in quest’area invece e che emergono dagli scritti farfensi ve ne sono altre dove l’ubicazione è da sempre pacifica. Un caso è la chiesa di Sant’Angelo di Lanciano, nei pressi dell’attuale Borgo Lanciano, area già frequentata in età romana ed attestata ai farfensi fino al 1118, per poi passare di lì a poco all’ordine ospedaliero dei Crociferi e dipendere successivamente dall’hospitalis di San Cristoforo (in seguito di San Sollecito) di Matelica20.
Capitolo a parte merita poi la già citata «curtem de salabona», che doveva trovarsi nei pressi della località di Salomone e la Monacesca lungo la strada per Cerreto d’Esi: «Ab uno latere usque terram taciperti et cameronis, et desuper usque viam publicam, de suptus usque terram Sancte Marie». La Monacesca, non solo nel toponimo ricorda l’origine monastica, ma la sua stessa struttura, poi riadattata ad uso residenziale ed agricolo nel corso dei secoli, presenta la forma di un chiostro e probabilmente di una torre campanaria, e la tradizione popolare indica ancora senza ombra di dubbio il «pozzo dei monaci». Salabona è citata per la prima volta in un atto del 3 maggio 834, redatto a Camerino, per uno scambio di terre tra Ratelmo, figlio di Rattone, e l’abbazia di Farfa, per essere di nuovo citata anche nei diplomi imperiali degli Ottoni, di Corrado II, Enrico III, e quindi in un privilegio pontificio di papa Leone IX del 1051, traccia forse delle lotte per le investiture feudali21.

La corte dell’antico monastero farfense della Monacesca a Matelica, risalente al IX-X secolo

I farfensi nello stesso periodo si impossessarono oltre che di Salabona anche di Valle Cupa o Valle del Cupo. Anche questa proprietà sembra di facile identificazione, grazie alle indicazioni riportate ed ai toponimi conservatisi nel tempo, tant’è che ancora oggi la vallata che scende dalla frazione di Palazzo di Esanatoglia è nota tra i più anziani come la Valle Cupa o del Cupo. Là si trovava già nel 1054 la cappella di San Salvatore (titolo conservato dalle chiese che vi furono edificate o restaurate successivamente e che ancora oggi porta la chiesa di Palazzo, da pochi anni restaurata), dipendente dalla pieve di S. Cipriano del Tronto, come stabilito dal vescovo di Fermo Ermanno che la concesse in perpetuo a quei canonici insieme ad altri beni22.
Il luogo concesso era particolarmente importante, nei pressi di un incrocio montano che portava alla Flaminia, verso Matelica e Camerino o, a nord, verso le vallate montane circostanti le sorgenti del fiume Esino e gli antichi insediamenti di Attidium, Sentinum e Tuficum (una zona di intensi traffici che attorno all’anno 1000 si arricchì di numerosi monasteri ed abbazie benedettini). Non stupisce quindi se l’area in questione passò presto sotto il dominio della famiglia Malcavalca e quindi zona contesa dell’espansionismo di Camerino con i centri vicini. Nel 1198 comunque  il nome della chiesa di San Salvatore di Vallecuiana risulta essere una dipendenza della vicina abbazia benedettina di San Michele Arcangelo infra hostia, quindi nel 1263 sotto il giuspatronato dei nobili di Castel Santa Maria, imparentati con la famiglia Ottoni e che in quell’anno decisero di cedere le loro proprietà al Comune di Matelica23.
Lo spazio del villaggio di Palazzo oggi si presenta con svariati punti di interesse per una ricerca più approfondita: non solo il nucleo originario medievale, più volte rimaneggiato e in gran parte legato al palatium che sorgeva al suo centro, ma anche le tracce di un’antica cava di pietra nei pressi ed altre pertinenze da non sottovalutare.
A chiusura di questo breve excursus nelle proprietà che ebbero i farfensi nell’area appenninica oggi situata tra le province di Macerata ed Ancona, non vanno infine dimenticate due proprietà di un certo rilievo. Uno è il possedimento in località Selvapiana, che porrei nell’omonima località di confine tra i Comuni di Matelica e Gagliole, su un’altura che fu di proprietà delle Benedettine e poi delle Clarisse del monastero di S. Maria Maddalena di Matelica, dove una consolidata tradizione popolare ricorda la sede di un antico monastero (sia pure senza alcuna minima menzione tra le tante carte degli archivi, comunque successive al XIII secolo). Fatto sta che l’area con questo nome fu a acquisita dai monaci farfensi tra l’889 e l’893, a seguito di nuove concessioni imperiali all’abbazia di Farfa, al tempo dell’abate Spento24.
Selvapiana appartenne in seguito ai discendenti diretti di Attone, figlio di Sigizone, il quale probabilmente era lo stesso che nel nell’agosto 999 ricevette 300 moggi di terra in «vocabulo Cornute» o «vocabulo Cornitte», dove si trovava la cappella di «S. Pietro in Cornitte» o Cornute (oggi Corneto, località rurale di Castelraimondo sul confine con Matelica dove resta la traccia evidente di questo edificio, forse progettato molto più grande di quanto resta o ne fu costruito). Limiti di questa proprietà erano il monte da un lato (da identificare con il monte Gemmo), il «rigus qui pergit ab Unbrice» da un altro (il fosso Cupo), «il flumen Matelcanum» (il fiume Esino) ed il «rigus qui pergit ad Albacinum» (il rio Secco probabilmente); il tutto per il canone annuo di 3 denari da pagare nel castello di S. Vittoria in Matenano25.
Anche della Villa di Corneto, posta sulla collinetta dove si trova la chiesetta, sappiamo ben poco se non che fu distrutta dai sanseverinati nel 1272 e che fu censita in un catasto camerinese del XIII secolo. La chiesetta romanica che oggi ne mantiene il nome di San Pietro in Corneto risulta costruita con il tetto a capanna e con conci squadrati di pietra arenaria, conservando al suo interno solo resti di affreschi di molto posteriori, successivi al 1585.
Sono queste le tracce, ancora di una certa consistenza, di un passato notevole e delle origini della cultura cristiana medievale nell’entroterra marchigiano, che meritano una maggiore considerazione ed approfondimento, in un’epoca caratterizzata da un senso generale di convulso smarrimento. Il nostro passato può essere d’aiuto a capire il presente e a volgere la barra verso un futuro più coerente.

Note

  1. GATTOLA, Historia abbatiae Cassinensis per seculorum serie distribuita, Venezia 1738; P. PIRRI, L’abbazia di Sant’Eutizio in Val Castoriana presso Norcia e le chiese dipendenti, Roma 1960.
  2. TOUBERT, Feudalesimo mediterraneo. Il caso del Lazio medievale, Milano 1980, p.10.
  3. E. GRELLI, I monaci benedettini di Farfa nel Piceno: signoria territoriale e rapporti di potere tra VIII e XI secolo, in Farfa abbazia imperiale. Atti del convegno internazionale, Farfa – Santa Vittoria in Matenano, 25-29 agosto 2003, a cura di Rolando Dondarini, Il Segno dei Gabrielli editori, 2006, p.72-78.
  4. GREGORIUS CATINENSIS, Il Regesto di Farfa, presso la R. Società, 1892, vol. II, 152 pp.126-128
  5. NATALUCCI, Ancona nel Medioevo, Città di Castello, 1960, pp.62, 65.
  6. VIRGILI, Insediamenti civili e religiosi nella media e alta valle del Potenza, All’Insegna del Giglio, Firenze, 2014, p.47.
  7. PAOLI – M. MOROSIN, L’abbazia di San Vittore delle Chiuse. Antiche pergamene, Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, 2014, pp. XXXV-XXXVII.
  8. VIRGILI, op. cit, p.47.
  9. GREGORIUS CATINENSIS, cit., vol. II, n.254.
  10. PACINI, Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio. Diocesi Ducato Contea Marca (secoli VI – XIII), Andrea Livi Editore, Fermo 2000, pp.285-288.
  11. PACIARONI, Qualche ipotesi sull’evoluzione della pieve di Settempeda, in «Miscellanea Settempedana», vol. V (1991), San Severino Marche, 1991, p.142.
  12. PACINI, Per la storia medievale di Fermo.. op. cit, pp.298- 300.
  13. PACINI, I monaci di Farfa nelle valli Picene del Chienti e del Potenza (secoli VIII-XII), in I Benedettini nelle valli del Maceratese, «Studi maceratesi», Macerata 1966, p. 144.
  14. CONCETTI, La canonica di S. Severino in San Severino Marche, Sassoferrato, 1966, p.231 n. XXV; R. BERNACCHIA, Santa Vittoria in Matenano e l’incastellamento nella Marca fermana del X secolo, in «Farfa abbazia imperiale. Atti del Convegno», 2002, p.179; S. VIRGILI, op.cit., p.48.
  15. FELICIANGELI – ROMANI, Di alcune chiese rurali della Diocesi di Camerino, in «Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche», Ancona 1907, v. IV, fasc. III, p.275.
  16. ACQUACOTTA, Memorie di Matelica, Tipografia Baluffi, Ancona, 1838, p.150 n.2.
  17. A. VOGEL, Indice cronologico delle pergamene, carte, e libri dell’Archivio Segreto di Matelica, ms. Archivio storico comunale di Matelica, p.217 n.975 (19 gennaio 1348) .
  18. GREGORIUS CATINENSIS, cit., vol. II, pp.96, 288.
  19. Liber Largitorius vel Notarius monasterii Pharphensis, a cura di G. ZUCCHETTI (Regesta chartarum Italiae dell’Istituto Storico Italiano), Roma 1913, vol. II, p.318, n.2066.
  20. TURCHI, Camerinum sacrum, Roma, Tipografia De Rossi, 1762, doc. XXXVII (a.1233), p. LXIX.
  21. CLERI, Homo viator: nella fede, nella cultura, nella storia : atti del Convegno, Tolentino (Macerata), Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, 18-19 ottobre 1996 , Quattroventi 1997, p.168; S. VIRGILI, op. cit, p.49.
  22. Lo storico Acquacotta era convinto che «Val cupa» dovesse corrispondere al «Cupo di carapelle presso la strada che mena a Cerreto nel sito controverso con Fabriano», per poi però sostenere che la «abbiamo la valle Cujana verso S. Natoglia, ed il monte che la sovrasta appellasi S. Vito, e v’ha pure la Chiesa dedicata a questo Santo. Si vegga la Cronaca Farfense presso il Muratori col. 424 e 425», C. ACQUACOTTA, cit., p.45, n.2; D. PACINI, Per la storia medievale di Fermo.. op. cit, pp.240, 305.
  23. MAZZALUPI, La Terra di Santa Anatolia, Mierma Editrice, Camerino 1996, pp.71-72.
  24. ACQUACOTTA, op. cit., p.45, n.2; E. MENESTO’, Ascoli e le Marche tra tardoantico e altomedioevo: atti del Convegno di studio ; Ascoli Piceno, 5-7 dicembre 2002, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2004, p.226.
  25. Liber Largitorius vel Notarius monasterii Pharphensis…, op.cit., vol. II, p.317, n.2065.
Matteo Parini
Matteo Parrini, nato a Jesi nel 1977, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Macerata e vive con la sua famiglia a Matelica, dove lavora presso la Halley Informatica. Giornalista pubblicista, corrispondente locale del Resto del Carlino, curatore dell’Archivio storico diocesano di Matelica, collabora da anni con il Centro Studi Pientini ed altri istituti ed associazioni con i quali ha realizzato una ventina di pubblicazioni a carattere storico. Tra i testi più noti e recenti Matelica segreta e scomparsa (Geronimo, 2007), La schola grammaticae di Matelica (Centro Studi Storici “Don Enrico Pocognoni”, 2016), La famiglia Maccafani di Pereto: i documenti presso Matelica (Edizioni LO, 2017), Fra Bevignate da Cingoli e le origini contese della Maior Ecclesia (Edizioni Spine, 2019).
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