I Normanni e la Chiesa di Roma. Una questione aperta di Glauco Maria Cantarella
1) Se fosse lecito incominciare con un bon mot si potrebbe dire che i Normanni non hanno avuto fortuna con la Chiesa di Roma. Perché si sono dovuti confrontare con una Chiesa che stava approfondendo la propria consapevolezza e fortificando la propria posizione.
Non che la Chiesa di Roma abbia avuto una maggior fortuna con i Normanni, naturalmente, visto che a sua volta ha avuto a che fare con una potenza via via più forte… Insomma, è stato un rapporto tra forze emergenti e, ciascuna a suo modo, nuove. Emergenti e ansiose, perché assolutamente bisognose, di affermazione.
È una tematica non nuova, ovviamente, e anzi già declinata in molti modi. Quello del rapporto generale e ambiguo: i Normanni nel loro complesso «braccio di Roma» (1) e incubo di Roma, ma non sempre; nemici di Roma e tiranni, ma organicamente collegati con Roma; agenti armati della latinizzazione ecclesiastica, ma autonomi nella gestione delle loro chiese. In linea generale, naturalmente, c’è da dire che la storia di questi rapporti è dialettica, piuttosto che invariabile, e soprattutto non si esaurisce nella luce di troppo facili schematizzazioni modellate sulle «invenzioni» storiografiche dei secoli XVIII, XIX e XX («Croisade», «Reconquista») come invece non di rado si è visto: perché in certi casi la creazione di modelli, lungi dal produrre strumenti euristicamente efficaci, soffoca la percezione dei problemi.
Ed è stata affrontata (anche di recente: Loud, 2007) sotto il profilo delle molteplici e variabili realtà delle città del dominio normanno e dei loro rapporti particolari con Roma, Messina e Palermo, le vicende interne delle chiese, i collegamenti con le oligarchie locali e regionali, le loro interferenze con la Sede Apostolica; giacché non bisogna dimenticare una ovvietà che a volte si tende a rimuovere, e che lo Houben ha reso in termini cristallini: «Der… Titel des Königs war […] territorial strukturiert: rex Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue» (2). La qual cosa non è in sé una novità o una peculiarità dei Normanni nel Mediterraneo, ma semplicemente rappresenta la storia della costituzione della grande area di dominazione normanna. Il Loud ha sottolineato la molteplicità di sedi episcopali (nel 1198 «145 vescovadi e 21 provincie ecclesiastiche», e quanto a sedi esenti «6 nell’Abruzzo, 4 nella Campania, 3 in Calabria, nessuna in Sicilia») (3) ma sotto la luce della difficoltà regia di controllare lo stato delle chiese; attenzione, controllare più che, per esempio, coordinare; e controllare le chiese piuttosto che, come forse sarebbe più appropriato, coordinare le oligarchie locali e negoziare con esse.. (4) Affrontare il rapporto fra signori e successivamente re e le varie e molteplici realtà locali significa (significherebbe) entrare in profondità nella storia (nelle storie) di ciascuna sede in particolare: insomma, un po’ quanto si sta facendo per Salerno, che non a caso costituisce un esempio ricorrente nella recente storiografia (5). Implicherebbe un lavoro capillare e sistematico come quello che si è intrapreso per le aree dell’altro Regnum, nel centro-nord della penisola: declinando cioè l’indagine secondo metodologie appropriate che hanno curato di ancorare la scarsità di documentazione alle più recenti acquisizioni metodologiche; e non ci si può nascondere che, se si assume il problema sotto questo profilo, anche il poderoso lavoro del Loud, proprio per l’apparentemente inconsapevole arretratezza della strumentazione generale, potrebbe rischiare di apparire come un lunghissimo, anche se preziosissimo, repertorio di casi (6).
Il rapporto fra Normanni e Chiesa di Roma e viceversa può anche essere visto come un rapporto tra signori, anzi tra capi (7) e affrontato come tale. Si parte, com’è intuitivo e ovvio, dalla metà del secolo XI. Insomma, da Leone IX. Cioè dal Guiscardo. Vale a dire, da quando l’organizzazione delle bande normanne è un dato ormai acquisito ed è in via di costituzione un nuovo tipo di Chiesa romana, intenzionata a far sentire il proprio peso e orientata sul modello del (chiamiamolo così, ma, sia chiaro, a rischio del semplicismo) Reichskirchensystem (8) Insomma tutto prende le mosse da quando le cose hanno già incominciato a cambiare sostanziosamente. In ogni caso fortunatamente restano da parte i grandi miti, quello della «tolleranza», della Palermo felix, populo dotata trilingui ̧ della sua «eterogeneità linguistica e culturale» del regno (9) insomma quei temi che come in una specie di specchio magico e fantastico, una sorta di Melisenda storiografica, hanno sempre preso di fascinazione collettiva gli storici inducendoli per lo più a immaginare che si trattasse di un unicum nel storia del medioevo e del Mediterraneo. Non c’è mito e non c’è favola nei rapporti fra Normanni e papato; c’è solo storia schietta e cruda, fatta di tentativi, ripensamenti, mezzucci, tranelli, ricatti abbastanza reciproci e con alterne fortune: insomma, c’è solo la banalità e il dolore della storia (10) e la prosaicità della politica. È una politica sulla quale e a partire dalla quale si possono anche costruire miti e modelli, come in effetti si fece enfaticamente nel 1156, ma di cui nessuno ignorava la cruda evidenza né faceva nulla per ignorarla.
Seguirò questa terza via. Anche se tutto, o quasi tutto, è già stato detto e tutto, o quasi tutto, è già stato chiarito.
Ovviamente vedrò solo qualche episodio. Una selezione, ovviamente, arbitraria.
2) Cominciamo con un problema tutto e soltanto romano. Di grandissimo protagonismo. Nel 1050 Leone IX nomina Umberto di Silvacandida Siciliensis archiepiscopus (11).
La notizia è accettata da tutti gli studiosi (tranne, salvo errore, dal Loud, che apparentemente non ne parla), ma non la si sottolineerà mai abbastanza perché si colloca dieci anni prima della prima incursione di Ruggero d’Altavilla in Sicilia: se di Rekatholisierung si vuole (continuare a) parlare, sulla scia della storiografia a vario titolo imperiale tedesca (12) (nozione del tutto antistorica, perché al più si dovrebbe parlare di Katholisierung, visto che si trattava di aree piuttosto «miste» e semmai più «costantinopolitane» che «romane» – insomma siamo alle solite, recuperatio, reconquista, eccetera: le magnifiche sorti e progressive del cristianesimo sub specie catholica!) si deve ammettere comunque una straordinaria preveggenza… anche perché il Guiscardo arriverà a Reggio, porta dello stretto di Messina, solo nel 1059 – la Calabria, come sapevano tutti i militari, era (è) orograficamente molto impegnativa, difficile da prendere perché può impegnare in mille imprese isolate, e altrettanto difficile da difendere perché le vie di disimpegno sono limitate e obbligate come le vie d’accesso; non è solo un caso che la famosa sconfitta di Ottone II sia avvenuta sulla costa e che, moltissimi secoli dopo, né i Borboni né la Wehrmacht abbiano tentato di sbarrare la strada proprio in Calabria agli invasori provenienti dalla Sicilia. Per dire che l’espansione del Guiscardo fino a Reggio e allo Stretto era probabilmente imprevedibile nella tempistica, nonostante l’intraprendenza (diciamo così) del Normanno.
Sia chiaro: non sarebbe troppo strano in sé che Leone IX avesse nominato un uomo del suo seguito in un’area del dar al-Islam: sappiamo che nell’Africa settentrionale c’erano vescovi a Cartagine, a Bougie (e anche in altri luoghi, ma non meglio definibili), che guardavano a Roma (lo stesso Leone IX si rivolse a loro nel 1053 e così fece Gregorio VII nel 1076) (13) anche se è arduo riconoscere il tipo di rapporto che li legava alla Sede Apostolica; e comunque questa designazione avrebbe potuto essere una sorta di espediente per dare una collocazione istituzionale o semi-istituzionale ad un uomo così importante come Umberto, destinato ad essere (forse in quello stesso anno?) il successore di Crescenzio nel titolo di Silvacandida. Salvo che a ben guardare, non è una notizia quanto un dossier. Gli studiosi attingono a fonti diverse. E tuttavia è un dossier che si avvolge tutto intorno ad un unico pezzo, anzi ad un pezzo unico. In più versioni, anche se la versione è sempre la medesima.
Vedrò di spiegarmi, partendo dall’elemento più semplice e più tardo: la Storia della Chiesa di Sens scritta da Richerio, e alla quale si è rifatto lo Hüls nel 1977. Siamo nel pieno XIII secolo, Richerio è morto più o meno nel 1267. La fonte è molto interessante sotto molti punti di vista: all’incrocio di molte altre fonti, secondo il Waitz citate a memoria perché altrimenti non si spiegherebbero certi errori clamorosi dell’autore (ne vedremo subito uno); piena di notizie curiose e di grande interesse come quella dei giochi armati che i monaci di Moyenmoûtier facevano nelle principali festività: armati di tutto punto, gli uni difendevano un rilievo e gli altri lo attaccavano, con balestre e sassi e tutto il necessario, e nella pausa pranzo (che rispettavano fedelmente) i religiosi si gloriavano delle loro gesta e delle loro ferite, per poi riprendere il gioco di guerra fino al calar del giorno; in più si presentavano in due o tre, armati, alle case dei rustici, «et quicquid reperire poterant, ipsos captivantes rusticos, usque quo se redimerent, auferebant et tali questu se suosque complices sustentabant» (una pratica che ricorda singolarmente, e molto da vicino, quelle denunciate intorno al primo ventennio del sec. XII dalla cronaca di Sahagún e da Guiberto di Nogent, e che comunque corrisponde interamente agli usi della società nobiliare, come ci ha insegnato Dominique Barthélemy) (14). Oppure l’incontro Umberto di Silvacandida nelle Alpi, mentre stava andando a Moyenmoûtier, con un esercito di diavoli (anzi «angeli Satanae») montati su cavalli neri e ardenti che scortavano Gebuino, vescovo di Châlons-sur-Marne, colpevole di lascivia con le monache, che era montato in mezzo ad altri due «in equo ingnito, cappam habens ignitam quasi ferream. Et ita transeuntes dixerunt, se ad ignitum montem Ethne properare» (non ci sarebbe stato atto di carità possibile per alleviare le sue pene: «quousque Deus veniat iudicare vivos et mortuos et seculum per ignem, hic nobiscum sine remedio erit»): insomma, una fonte molto interessante per la storia del Purgatorio alla fin dei conti, vista anche l’altezza cronologica alla quale si colloca (15) e di una vivezza coloristica e iconografica impressionante che non può non far venire in mente miniature, affreschi, mosaici… Ma non da prendere troppo alla lettera visto che, ad esempio, fa morire gloriosamente («radio solis in faciem eius se iactante») Umberto al suo ritorno a Roma dopo aver celebrato l’Epifania del 1052 a Moyenmoûtier (16). Dunque, quale credito attribuire alla notizia secondo la quale Bruno di Toul, eletto papa per volontà comune in un’assemblea a Magonza «cum imperatore Friderico», dopo aver portato con sé a Roma Umberto, abate di Moyemoûtier, «archiepiscopum Sicilie ordinavit, deinde Rome cardinalem ad vices suas supplendas secum morari precepit. Millesimo quinquagesimo anno domnus Leo papa ad partes istas rediens, sancti Arnulfi Metti ecclesiam dedicavit. Secundo anno item Galliam repetens, ossa beati Gerardi Tullensis episcopi de tumba levavit»? È evidente che il centro del racconto è Moyenmoûtier, e l’eroe della pagina è Umberto di Silvacandida: in quanto proveniente da Moyemoûtier (17).
Ed è altrettanto evidente che qui Richerio innesta la celebrazione della figura di Umberto sui Miracula sancti Gerardi attribuiti a Widrico di Saint-Evre. Siamo al secondo elemento del dossier, cui ha giustamente rimandato lo Houben nel 1989 perché in realtà è il pezzo principale (18). Si tratta di una fonte sulla quale l’editore, ancora Georg Waitz, esprimeva le sue perplessità e dichiarava non senza un certo inaspettato candore che la pubblicava solo perché non si pensasse ad una sua mancanza di rispetto nei confronti del santo («ne quis me erga sanctum virum iniustum arguat»): comunque Widrico scrive che Leone IX, in una data imprecisata ma successiva al 12 febbraio 1050 (vale a dire dopo l’anniversario della sua elezione o consacrazione al papato, che a Toul si era deciso di commemorare solennemente), avrebbe deciso, per ispirazione di Dio e «certa visione», di elevare agli altari il vescovo Gerardo; per corroborare la notizia con il segno della autenticità e della ufficialità inserisce il Virtus divine operationis di Leone IX, documento sinodale romano del 2 maggio 1050 (19) nel quale compaiono numerosi vescovi fra i quali «Huncbertus Siciliensis archiepiscopus. Hildebrandus Capuensis archiepiscopus. Petrus Consanus archiepiscopus. Leo Murensis episcopus. Masio Montisviridis episcopus», nonché «Crescentius Silvae candidae episcopus» (20). Widrico dovrebbe essere morto forse nel 1054, l’11 marzo, dopo aver aggiunto un libro alla sua opera su ispirazione (diciamo così) del primicerio di Toul Udone, vescovo a partire dal 1052, che appare come vero protagonista del documento papale. Che è da- tato, in modo abbastanza irrituale anche se non infrequente (il 29,5% dei casi dei documenti raccolti nella Patrologia Latina – ma includendovi i regesti che non permettono questo tipo di indagine – appare privo degli elementi cronici), all’interno del proprio corpo («in synodo in ecclesia Salvatoris cum multis coepiscopis nostris, circa sexto nonas Maias»). L’archetipo sembrerebbe essere proprio quello che si legge in Widrico, visto che da lì l’hanno tratto tutti gli editori; e il Kehr non ha potuto fare altro che dare come deperdito l’originale: insomma, a questo punto il gatto si morde la coda, la notizia di Widrico è corroborata da Widrico con un documento che si trova solo in Widrico…
Naturalmente sarebbe piuttosto intrigante chiedersi quale potrebbe essere la fonte di questa fonte, estremamente ravvicinata a quanto racconta come s’è detto, che apparentemente conosceva Conza, Muro Lucano e Monteverde e sapeva che dal 1049 era arcivescovo di Capua Ildebrando, membro della famiglia principesca longobarda (21). Siamo forse di fronte a un nuovo caso che ci presenta come i testimoni di Leone IX potessero attingere a documenti originali, così come farà l’autore (o il pool di autori) della Vita? (22)
Non finisce qui. Siccome le complicazioni sono il sale della ricerca e della vita, non andrebbe dimenticato che Umberto è titolare di Santa Rufina nel maggio 1050 e che sempre nel maggio 1050 era stato ordinato abate di Subiaco; e che di Crescenzio di Silvacandida, attivo dal 1044, si perdono le tracce proprio dopo il 2 maggio 1050 (23). Sicché il Kehr, nel tentativo di dare un ordine al disordine, si dichiarò convinto, sia pure nella maniera scarna consentita dalle rapide note dell’Italia Pontificia, che Umberto il 2 maggio era già arcivescovo Siciliensis e abate di Subiaco, e che la sinodo del 1050 si limitò a dichiararlo ufficialmente come successore di Crescenzio (24); plausibile, ma c’è giusto un problema cui ancora non abbiamo accennato: la sinodo «in palatio Lateranensi», cui senza dubbio si riferisce il Kehr visto che nel Virtus divinae operationis non si fa cenno della questione, si era tenuta il 29 aprile (25). E già che ci siamo, ricorderemo che l’incipit sembrerebbe essere un assoluto ápax (26). E ancora una volta il gatto si morde la coda, visto che questa tenue traccia documentaria non esente da difficoltà sostiene (ha sostenuto) svariati castelli di ipotesi…
Si può aggiungere un altro elemento. È solo una coincidenza, naturalmente, e una coincidenza parziale: ma a chi ha una qualche conoscenza dei documenti relativi al pontificato di Leone IX il numero di 55 vescovi della sinodo romana (27) evoca (potrebbe farlo) il numero di 50 o 52 vescovi presenti alla sinodo mantovana in cui si trattò del caso delle Reliquie del Preziosissimo Sangue (28); il problema è che quest’ultimo caso è notoriamente inattendibile. Non è compito precipuo della ricerca storiografica decostruire, revisionare, negare: ma segnalare i problemi, si. Specialmente quando appaiono innegabili «Porque al fin y al cabo», per usare le recentissime e sintetiche parole di Flocell Sabatè, questo è inscindibilmente connesso con «la única base posible en el quehacer del historiador: la heurística y la hermenéutica» (29). Non sono il primo a farlo, non sarò l’ultimo. Mi limito a rilevare che il documento del 2 maggio 1050 è tutto imperniato su Toul, sui suoi uomini e sui suoi interessi, e ritorna nelle fonti che più o meno appartengono a quell’area, compresa la Vita di Leone IX che sottolinea la santificazione di Gerardo di Toul e dichiara a sua volta la conoscenza del (se non la propria dipendenza dal) complesso Vita-Miracula del nuovo santo, e che comunque non fa la minima menzione di una sinodo romana benché immediatamente prima avesse ricordato espressamente quella di Siponto: solo perché in quest’ultima si era trattato un caso di scandalosa simonia (uno dei punti di forza, come sappiamo, dell’azione papale) (30)? E mi limito a segnalare che tuttavia meriterebbe un qualche approfondimento l’elenco dei partecipanti alla (presunta?) sinodo.
Comunque: abbiamo a che fare più con Leone IX e il suo ambiente, o più con i Normanni e i loro rapporti con il papato?
Il quale papato, in ogni caso, apparentemente non si avvalse mai della, chiamiamola così, premonizione di Leone IX.
3) Ancora Roma. Non toccherò il problema della concessione dell’apostolica legazìa (caso paradossale in cui la presenza – l’intervento papale – sancisce l’assenza di Roma dal teatro siciliano). Ma della sua conferma, che invece, ribadendo l’assenza di Roma, ne sancisce altrettanto paradossalmente la presenza (31). Una conferma che risulta chiesta dal giovane conte Ruggero II e concessa il 1° ottobre 1117.
È una contingenza molto difficile per papa Pasquale II (un pontefice, sia detto en passant, evocato troppo spesso con incomprensibile leggerezza e superficialità, ultimamente anche da Miriam Rita Tessera – di sicuro senza essersi accostata alle fonti, perché una semplice verifica l’avrebbe dissuasa – in un recente quanto rapido lavoro sullo scisma del 1130) (32). Ammalato da mesi, da una quarantina di giorni ricoverato in Anagni, troppo debole per alzarsi da solo dal letto, ma fermamente intenzionato a riprendersi Roma e a punire i traditori che un anno e mezzo prima l’avevano costretto a lasciare l’Urbe: primo fra tutti Tolomeo di Tuscolo, vecchio nemico, che nel 1107 era stato ricondotto alla ragione dall’energica reazione del pontefice e dall’intervento dei Normanni di Capua (33). Il 25 marzo di quell’anno Enrico V era stato incoronato a Roma (una replica dell’incoronazione imperiale del 1111 o piuttosto un’incoronazione rituale per il suo ingresso trionfale?) da Maurizio «Burdino», arcivescovo di Braga. Uomo senza fortuna, quest’ultimo, controverso e ambizioso. Ma proprio l’atto, in ogni caso più simbolico che sostanziale, che era stato incaricato di compiere induce a riflettere: Maurizio non soltanto godeva del sostegno del re-imperatore (e difatti nel 1118 divenne Gregorio VIII), ma l’aveva raggiunto in qualità di uomo e legato di Giovanni di Gaeta, cancelliere papale di lungo corso e di grande influenza (e futuro papa con il nome di Gelasio II); un grande mediatore, insomma: non avrebbe potuto essere un successore perfetto di Pasquale II? – Notiamo ancora una volta: l’età di Pasquale II continua ad essere evidentemente terra incognita o fonte di distrazioni, diciamo così; Burdino non è mai stato cardinale, come ha scritto invece Stephan Freund; nella luce di queste relazioni (che il Freund ignora) è più agevole capire perché Enrico V abbia fatto di tutto per mettersi in contatto con Giovanni, l’uomo decisivo nell’entourage del papa esule e debole, prima che gli eventi precipitassero: di fatto, potenzialmente e paradossalmente l’arcivescovo di Braga era un uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, se un accordo si fosse raggiunto e naturalmente se i cardinali presenti a Roma non avessero deciso altrimenti e di gran corsa. La geografia e la tempistica sono prossemiche: Pasquale II muore a Roma il 21 gennaio, Giovanni di Gaeta si trova a Montecassino; il 24 gennaio Giovanni è già a Roma e viene eletto; tutto era avvenuto secondo la politica del fait accompli, eppure Enrico V si rassegnò a fare il suo antipapa (Gregorio VIII) proprio nella persona di Maurizio Burdino solo l’8 marzo (34).
Non è così difficile immaginare che di fronte a scenari tanto incerti e gonfi di incognite gli uomini del conte di Sicilia avessero all’improvviso, dopo aver lasciato trascorrere già cinque anni dal raggiungimento della maggiore età di Ruggero, deciso di richiedere a Pasquale II la conferma del privilegio di Urbano II. E non è del tutto inverosimile pensare che non si fossero presentati a mani vuote, cosa che sarebbe stata non solo irrituale ma per nient’affatto gradita al papa, che aveva una certa fama quanto alla sua simpatia per il denaro e per l’oro; e di converso, si capisce che il papa avesse apprezzato l’arrivo dei legati siciliani che potevano contribuire a finanziare la sua campagna per riconquistare Roma, e dunque avesse concesso loro di buon grado quello che si erano presentati a chiedere (35)… Non senza maestà, come sempre.
Anzi, sottolineando ripetutamente e con insistenza la grandezza del privilegio e del ruolo attivo del papa. Non presuma, il giovane conte, di poter fare di tutto, perché specularmente, anche il suo ruolo è ben definito:
«Cognosce fili carissime modum tuum et data tibi a Domino potestatem, noli contra dominicam erigere potestatem. Sic enim a Domino Romane ecclesie potestas concessa est, ut ab hominibus auferri non possit. Disce in comitatu tuo bonorum imperatorum exempla, ut ecclesias non impugnare studeas sed iuvare, non iudicare aut opprimere episcopos, sed tanquam Dei vicarios venerari».
Le coordinate del privilegio erano state espresse poco sopra in un quadro ben preciso:
«ea videlicet ratione, ut si quando illuc ex latere nostro legatus dirigitur, quem profecto vicarium intelligimus, que ab eo gerenda sunt, per tuam industriam effectui mancipentur. Sic enim in ecclesia seculares potestates dispositas legimus, ut quod ecclesiastica humilitas minus valet, secularis potestas sue formidinis rigore perficiat».
Insomma, il conte è piuttosto la mano del vicario del papa. E sappiamo (lo dice Pasquale II, l’aveva già detto Gregorio VII) che il vicario è il papa in persona (36).
Non possiamo e non dobbiamo sottovalutare questo testo, o limitarci a trattarlo come una stanca ripetizione delle decisioni di Urbano II. Perché lo possediamo nella copia confezionata da Albino pauper scholarus e cardinale, diacono di Santa Maria Nova, prete di Santa Croce in Gersulemme, vescovo di Albano: Albino, magister, giurista e colto come i suoi colleghi in quell’ultimo scorcio di secolo XII, sapeva benissimo come selezionare i documenti secondo il loro valore; e la collocazione che attribuisce al documento, che introduce lettere di Pasquale II al basiléus e al re di Danimarca, indica perfettamente il valore fondativo ed esemplare che esso ha o gli si poteva attribuire alla fine del sec. XII (37). In quest’atto si rinveniva, 75 anni dopo la sua stesura, la più completa rivendicazione della liceità dell’interesse della Sede Apostolica nei riguardi del regno di Sicilia.
Neppure nelle contingenze più difficili Pasquale II rinunciava a dare manifestazione del ruolo proprio e della Chiesa di Roma; e del resto i Normanni non avevano nessuna difficoltà a fargli rivendicare un ruolo del genere, non soltanto perché era necessaria una conferma per il nuovo conte ma anche perché le parole papali potevano suonare solo come enunciazioni altisonanti e prive di sostanza… Qualcosa di analogo accadrà nel 1156 a Benevento. Chi poteva immaginare che il bisnipote di quel conte sarebbe riuscito a morire senza eredi e avrebbe aperto la strada alla fine del regno dei Normanni e agli interventi papali? nell’ottobre 1117 non c’era neppure, un regno… O, meglio, c’era, ma solo nelle più ardenti aspirazioni della contessa Adelaide, madre del giovane Ruggero e da qualche mese ritornata in Sicilia come regina di Gerusalemme (38). Difficile, tra l’altro, pensare che si fosse ritirata in un ruolo subalterno, tanto più che gli uomini di suo figlio erano stati, prima, i suoi uomini; del resto suo figlio, già maggiorenne e «jam miles, jam comes» nel giugno 1112, ancora cinque mesi dopo era apparso in posizione subordinata rispetto a sua madre («[segno della] contessa Adelasia con suo figlio Ruggero conte di Sicilia e Calabria»); poi Adelaide aveva sposato Baldovino di Gerusalemme e per qualche anno aveva lasciato il campo libero, ma se pensiamo ad altre grandi donne potenti (Adelaide di Borgogna, Agnese di Borgogna, Urraca di Castiglia, Bianca di Castiglia) al suo ritorno in Sicilia risulta più agevole immaginarla appartata nell’ombra piuttosto che estranea a tutto e rassegnata all’impotenza… E comunque nel 1117 Ruggero continuava a riconoscere la signoria nominale di Guglielmo di Puglia, per quanto questi fosse «actually almost his protegé». Insomma, il regno era impensabile, anche se l’invito papale ad assumere nientemeno che «bonorum imperatorum exempla» potrebbe far pensare ad un ammiccamento nei riguardi dell’impavida e lungimirante aleramica diventata contessa, normanna e regina… Influente fino a dopo la sua morte, vi- sto che i suoi uomini incominceranno ad essere sostituiti negli anni ’20 (39).
L’impensabile nel 1117 diventa reale a soli tredici anni di distanza. Ruggero II diventa re.
L’atto fondamentale che cambia tutto anche se, nella sostanza, nulla è cambiato, la concessione della corona.
4) Anacleto II, il cosiddetto «Jewish pope» (40) – ma a partire dalla storiografia statunitense della seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso: perché nemmeno Hans-Walter Klewitz, che era convintamente nazista o almeno si comportava da convinto nazista e da nazista morì con l’uniforme delle Waffen SS Adolf Hitler, aveva calcato la mano sulle origini ebraiche di questo papa.
Converrebbe aprire una piccola parentesi, necessaria anche se con i Normanni non avrebbe nulla a che fare; ma non è questo il luogo. Anticipo soltanto che il problema dello scisma del 1130 appare sempre di più, storiograficamente parlando, una tempesta scatenata in un bicchier d’acqua, o per dir meglio uno specchio di sabbie mobili artificiosamente creato e dal quale è difficile trarsi fuori (un «malefico vortice», per prendere a prestito la vivace espressione forgiata da un giovane studioso per la ben più celebre riforma gregoriana) (41). Seppure espresse in un tono a volte fastidiosa- mente polemico, specchio però del trattamento subíto, le considerazioni fatte da Pier Fausto Palumbo nel 1963 non erano affatto fuor di luogo; anzi, andrebbero rivalutate proprio perché ci aiutano a ricordare quale fosse il contesto delle conoscenze del tempo (cinquant’anni fa: molto è cambiato, anche in storiografia – o almeno dovrebbe esserlo) (42) e perché nella loro asprezza polemica segnalano con nettezza quali vere e proprie agudezas interpretative fossero state messe in campo («la tesi – rivoluzionaria o almeno innovatrice – che lo Schmale ha, sulla scia del Klewitz, condotto all’ultima perfezione») (43)
Anacleto, obbligato per il suo isolamento politico fra i regni d’Europa a concedere la corona regale a Ruggero II? «Il duca poteva trattare da una posizione di forza, perché il suo controllo sul Mezzogiorno, nel frattempo, si era consolidato. Prestò il giuramento di fedeltà al papa; in cambio pretese la corona di re […] Sotto la pressione di Ruggero il papa cedette tutto quello per cui da tempo i suoi predecessori avevano lottato contro i normanni» (1999); «per assicurarsi il favore normanno» (1961); «Anacletus was too dependent, not just on Roger, but also on the support of South Italian churchmen» (2007 ) (44).
Forse non sarebbe male procedere anche in questo caso come con il caso del Guiscardo in Calabria; giacché, come scriveva Huizinga, uno storico non sa (non deve sapere) mai se vinceranno i persiani o gli ateniesi a Salamina (45)… Allora bisognerà partire da una semplice constatazione preliminare: è Anacleto che in un paio di mesi si ritrova ben installato a Roma; Innocenzo è esule e senza denaro. Anacleto, come hanno segnalato anche le ricerche più recenti, gode del sostegno della maggioranza dei cardinali (46); Montecassino è dalla sua parte. Viste le cose sotto questa luce, la prospettiva può cambiare sostanzialmente.
Perché voler leggere la scelta di Anacleto II come un segno di debolezza (solo la necessità di ancorare a sé un alleato potente)? Specularmente, potrebbe piuttosto trattarsi di una dimostrazione di forza: un tratto di espressione sovrana del papato. Cercherò di spiegarmi. Non mi sembra che si siano riprese le ricerche sulla sua ecclesiologia, a partire dai pochi frammenti che sono sfuggiti alla damnatio memoriae grazie anche alle cure dell’amica Montecassino; ma del resto non mi sembra che siano state riprese o intraprese nuove ricerche sull’ecclesiologia di Innocenzo II (sotto questo profilo si potrebbe forse tracciare una mappa, con una linea approssimativamente coincidente – non sembri presunzione – con la morte di Pasquale II e al di là della quale scrivere hic sunt leones) (47) Comunque, quale sia la sua visione della Chiesa è presto detto: il papa è stato promosso «ad totius Ecclesiae regnum», è saldo nella certezza che le sue deliberazioni sono garantite da Cristo (Luca 22.32) e chi si leva contro di lui si comporta come Dioscoro d’Alessandria, e in forza di questo può sottolineare che impero e Chiesa debbono sorreggersi mutuamente (Gelasio I)… (48).
Ho fatto solo un florilegio (ma forse sarebbe più appropriato anche se più irrituale parlare di frullato) di alcune affermazioni ecclesiologicamente pregnanti e che hanno un passato (un passato, nel 1130, recente) che è superfluo ricordare, ma che dichiarano aperta- mente e ripetutamente quale forza abbia per Anacleto l’autorità papale.
«Concedimus et donamus et auctorizamus tibi, et filio tuo Rogerio, et aliis filiis tuis, secundum tuam ordinationem in regnum substituendis, et haeredibus suis coronam regni Siciliae, et Calabriae, et Apuliae, et universae terrae, quarum tam nos, quam et praedecessores nostri praedecessoribus tuis ducibus Apuliae nominatis, Roberto Guiscardo, Roberto ejus filio, dedimus et concessimus, et ipsum regnum habendum, et universam regiam dignitatem, et jura regalia, jure perpetuo habendum in perpetuum et dominandum. Et Siciliam caput regni constituimus» (49).
Non siamo ancora a Innocenzo III, che come si sa apprezzerà particolarmente Geremia 1.10 («ecce constitui te hodie super gentes et super regna ut evellas et destruas et disperdas et dissipes et aedifices et plantes») (50), si farà l’illusione di essere l’arbitro del negotium regni e si proporrà per esserlo, anche se con esiti deludenti come praticamente in tutti i suoi negotia (ad esempio quello in Linguadoca) (51). Salvo errore Anacleto II non utilizza mai quel passo: ma un’affermazione così forte, concediamo, doniamo e autorizziamo, non è poi troppo lontana da esso. Per quel che vale un solo esempio per differenza, Pasquale II si era limitato a esordire (privilegio per la chiesa di Mazzara, 15 ottobre 1100) con «Omnipotentis Dei nutu mutantur tempora, transferuntur regna» (che sembra, oltretutto, un ápax – da un papa tanto intraprendente ed energico, di cui, sia detto en passant, varrebbe la pena studiare il programma iconografico, ci si sarebbe aspettato di più…) (52): si potrebbe essere tentati di dire che con Anacleto II Dio si incarna nel papa… insomma, se in storia esistessero davvero le anticipazioni, sarebbe un anticipatore di Innocenzo III.
Anacleto II non soltanto regna con pienezza e porta a completa espressione le politiche di Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II, ma crea un regno vassallo. Concede, dona e autorizza: vale a dire, fa una graziosa concessione e un dono di ciò che, evidentemente, possiede e che dunque compete solo a lui, e conferisce autorità al destinatario che riceve il dono. E il dono consiste nella corona, dunque nella stessa istituzione del regno. Per quel che possono valere le analogie, ripensiamo a cosa dirà al Barbarossa Rolando Bandinelli nel 1158: da chi ha l’imperium l’imperatore, se non dal papa? perché è il papa che detiene la corona imperiale. Anacleto II è come se dicesse: da chi dunque ha il regnum il re, se non dal papa? perché è il papa che dispone della corona. Il papa è un re grazioso: perché, ricordiamolo, suo è il regno della Chiesa intera… In piena e autonoma solitudine, «senza consultare il collegio cardinalizio, e neppure lo [scil. il documento] sottopose successivamente alla sua conferma. Il documento approntato dal suo cancelliere, il cardinal prete Sassone, porta, a differenza di altri documenti papali coevi, oltre alla firma del papa, solo quella di un unico cardinale, e cioè del cardinal prete Matteo di S. Eudosia, che godeva della particolare fiducia di Anacleto» (53). Il che può essere visto come segno di isolamento, o all’inverso come atto pienamente autocratico, a seconda dei presupposti da cui si parta…
Innocenzo II invece, come avverrà ad Adriano IV, sarà costretto a riconoscere il fait accompli come era già capitato a Leone IX. Con loro si, il papato è debole nei confronti dei Normanni. Mentre Alessandro III sarà piuttosto un opportunista, seguirà le proprie convenienze (e Romualdo Salernitano avverte il proprio re e i suoi uomini: attenzione, del papa non ci si può fidare…). Verremo subito a questo. Anacleto II istituisce un piano diverso di rapporti, in cui il papato non si limita a prendere atto della nuova signoria che si è costituita con Ruggero II e che modifica sostanzialmente quella dell’età dei riconoscimenti formali (Leone IX, Urbano II, Pasquale II), ma la legittima con un salto di qualità al quale nulla sembrerebbe obbligarlo. Lo fa perché il suo ruolo glielo permette.
Non è un’invenzione o una velleità di Anacleto II. Così come non è il suo antagonista, Innocenzo II, a inventare le ambizioni imperiali dei papi. «Regna mutare potest ut Gregorius, Stephanus, Adrianus fecerunt»; «Soli pape licet in processionibus insigne, quod regnum vocatur, portare cum reliquo imperiali […] Solus utitur rubra cappa in signum imperii vel martirii»: sono tre capitoli delle famose Auctoritates Apostolice Sedis. Cui possiamo aggiungere il «Quod solus possit uti imperialibus insignis» del più celebre dei Dictatus pape e, ancora dalle Auctoritates, «Qui contra eum sententiam dederit, deponi debet ut Dioscorus» – Dioscoro: non l’abbiamo già sentito? Naturalmente i testi gregoriani non sono le fonti primarie, ma non possono non essere intesi come più o meno riassuntivi e rappresentativi di un senso che, lungi dall’andare perduto con la sconfitta politica e personale di Gregorio VII, si era anzi sottolineato e accentuato con la progressiva creazione di strumentazione di governo appropriata (54). Dunque è sufficiente fare lo sforzo minimo di entrare nel «pozzo» delle fonti di cui parlava Gustavo Vinay (la metafora di Vinay è stata molto opportunamente ricordata di recente da Edoardo d’Angelo) (55) per essere costretti a riconoscere che siamo di fronte a tutt’altro che «a return to a much more traditional policy»: (56) semmai dobbiamo constatare la spinta verso un protagonismo che è sfuggito persino al più benevolo interprete del Pierleoni, Pier Fausto Palumbo («una realtà ormai irrefragabile: quella dello Stato unitario, cui non mancava più che la consacrazione ufficiale. E buona politica era per il papa di Roma legare il suo nome e la sua autorità a un simile evento, ormai impossibile a prorogarsi») (57).
Noi sappiamo come sono andate le cose. Sappiamo che la bontà della causa di Innocenzo II era tutt’altro che fuori discussione ancora alla fine del 1137; il confronto di Salerno presieduto da un ostentatamente equidistante Ruggero II («sagacis animi providique consilii», deve ammettere lo stesso Falcone Beneventano), che aveva ottenuto il consenso a demandare la soluzione della questione ad una apposita commissione di archiepiscopi, episcopi aliique prudentis animi viri che si sarebbe riunita a Palermo il 25 dicembre, vide il portavoce di Innocenzo rifiutarsi di mettere per iscritto quali erano state le modalità dell’elezione sostenendo che già erano state chiarite a sufficienza a voce – il che non era una posizione di grande forza, se davvero ci si doveva rimettere al giudizio di una commissione cui in questo modo sarebbe mancata la materia sulla quale giudicare… Ma sappiamo anche che Anacleto commise l’imperdonabile errore di morire e uscire dalla storia il 25 gennaio 1138, lasciando tutti liberi di rinegoziare tutto. E sappiamo anche che la rinegoziazione si risolse nell’ennesima sconfitta di un papa (58).
5) Non sarebbe stata l’ultima. 1156, Benevento. Guglielmo I aveva sventato tutte le minacce contro il suo regno, anzi l’anno prima i suoi cavalieri si erano visti fin sotto Roma. Adriano IV non aveva molta scelta. Avrebbe potuto correre il rischio di attirare il re verso l’Urbe, che il nuovo imperatore non sarebbe stato in grado di difendere se non altro perché non ne avrebbe avuto materialmente il tempo? Avrebbe potuto aspirare a una morte da martire, sempreché i Normanni gliel’avessero permessa? comunque non era affatto detto che i romani avrebbero gradito, dopo quello del Barbarossa, anche l’intervento di re Guglielmo… Aveva sdegnosamente rifiutato di trattare con il regno di Sicilia: nel giro di qualche mese la situazione era cambiata. Si riprendono, obtorto collo, i rapporti; ma, come si sa, necessitas non habet legem…. Le trattative partoriscono una soluzione accettabile per ambedue le parti (59).
Scritta con grandissima precisione di dettagli. Il re sarà estraneo alle elezioni di vescovi, arcivescovi e abati, ma conserverà un diritto di verifica che naturalmente sbarrerà la strada alla possibilità che vengano promossi suoi potenziali o effettivi nemici; i legati, con il permesso del re che mantiene l’apostolica legazia, potranno entrare nel regno in qualunque momento e celebrare concilii dappertutto tranne che in Sicilia, purché là dove intendono dirigersi non si trovino il re o i suoi eredi. Le relazioni sono ben definite (60) il quadro è quello del rispetto reciproco. La legittimità del re e dei suoi eredi, dunque dell’esistenza stessa del Regnum, è garantita nel quadro della fedeltà alla Chiesa di Roma:
«Profecto vos nobis et Rogerio duci filio nostro et heredibus nostris, qui in regnum pro voluntaria ordinatione nostra successerint, conceditis regnum Sicilie, ducatum Apulie et principatum Capue cum omnibus pertinentiis suis, Neapolim, Salernum et Amalfiam cum pertinentiis suis, Marsiam et alia que ultra Marsiam debemus habere et reliqua tenimenta, que tenemus a predecessoribus nostris, hominibus sacrosancte Romane ecclesie, iure detenta, et contra omnes homines adiuvabitis honorifice manutenere. Pro quibus omnibus vobis vestrisque successoribus et sancte ̨ Romane ecclesie fidelitatem iuravimus et vobis ligium hominium fecimus, sicut continetur in duobus similibus capitularibus, quorum alterum penes vestram maiestatem sigillo nostro aureo, alterum vero sigillo vestro signatum penes nos habetur» (61).
Si noti la precisione assoluta dei riferimenti. In più si dichiara che il documento è redatto in duplice e identica copia, una verrà portata a Palermo e l’altra a Roma. Viene ribadito l’ammontare del censo (600 schifati all’anno, in oro o argento, «nisi forte impedimentum aliquod intervenerit, quo cessante census ex integro persolvetur»: è la cifra pattuita nel 1130 e ovviamente ribadita nel 1139), ripetuto che quanto è concesso a Guglielmo I e secondo le condizioni per cui gli è concesso sarà concesso anche ai suoi successori se rispetteranno quelle condizioni, sottolineato che per evitare contestazioni future da una parte o dall’altra l’accordo è messo per iscritto dal notaio Matteo («d’Aiello») e sigillato in oro (62).
In realtà le due versioni non sono del tutto identiche. Perché ambedue le parti vogliono avere in mano la testimonianza della vittoria. Anche il papa. Ne ha bisogno. I suoi uomini negoziano duramente con gli uomini del re. Rolando Bandinelli, presto Alessandro III, con Ubaldo di Santa Prassede, futuro Lucio III e Giulio di San Marcello, futuro vicario di Roma; Romualdo Salernitano, Maione magnus ammiras ammiratorum e Ugo arcivescovo di Palermo, di lì a pochi anni vittime eccellenti delle congiure di corte; mediatori, Guglielmo di Troia, che ne trarrà un privilegio bollato in oro (63), e l’abate di Cava. Ritroveremo Rolando e Romualdo saldi nell’alleanza organica fra Normanni e papato che si manifesterà sulla grande scena politica ventun’anni dopo, a Venezia. Per cui se il documento emanato dal re sottolinea che si è trattato di «finem congruum imponere» alla discordia fra regno e Chiesa romana e «cum… inimici nostri ante faciem indignationis nostre fugissent», e dunque non cede sulla pienezza di forza del normanno (64), però si diffonde con abbondanza di particolari sull’idea di concessione, di hominium, di fedeltà; non dimentichiamolo mai, in linea teorica sarebbero stati i Normanni a poter dettare le condizioni dell’accordo che premiava la loro politica di pressione sul papa. E se il documento papale insiste sul fatto che l’iniziativa di pace è partita dal pontefice («ad pacem tecum habendam diligenti studio decrevimus intendere. Misimus ergo ad excellentiam tuam quosdam fratrum nostrorum»), il che era incontestabile ma aveva come una sfumatura di benevolenza e di degnazione, però aggiunge:
«Constat, charissime in Christo fili Willelme gloriose Sicilie rex, te inter reges et celsiores personas seculi eximiis operibus, potentia opibusque clarere, ita ut ex vigore iustitie, quam in terra sub tua ditione constituta conservas, ex securitate pacis, qua omnes per eamdem constituti letantur, et ex terrore, quem inimicis christiani nominis per opera magnifica incussisti, usque ad extremos angulos fama tui nominis et gloria protendatur» (65).
Qui non si tratta di lusingare il re e il regno. Si tratta di recepirne e legittimarne l’immagine ufficiale. Quella che il regno normanno propone di se stesso, che sarà resa pubblica su scala europea a Venezia nel 1177, che caratterizzerà Guglielmo II, che Riccardo di San Germano riprenderà una settantina d’anni più tardi (66). È l’esemplare destinato a rimanere nelle mani del re di Sicilia… I documenti sono, insomma, speculari. I rapporti sono chiari e incontestabili, la Chiesa di Roma riconosce la pienezza del regno, il regno riconosce le aspettative e le prerogative di Roma – che, alla fin dei conti, erano nella sua stessa origine, anzi preesistevano alla nascita del regno. Resta un problema: il famoso Falcando, come è noto, non parla di questo accordo. Secondo la sua rappresentazione storica il regno non ha alcun obbligo nei confronti della Chiesa di Roma, e la Chiesa di Roma non ha alcun diritto, ad esempio, di abusare della minorità del re per esercitare tutta l’ingerenza di cui dà prova grazie anche alla complicità della regina- madre Margherita di Navarra: felici i tempi di Guglielmo I nei quali i legati romani non ardivano gli andirivieni fra Roma e Palermo (67)! Il problema ovviamente è complicato dalla datazione che si vuol dare di Falcando; certo è che la sua visione (implicita) non sembra così distante dagli insegnamenti (altrettanto impliciti) che dà (darà, se si vuole; avrà già dato, secondo chi scrive) (68) uno dei suoi grandi bersagli polemici, Romualdo Salernitano, nella relazione sulle trattative e sull’accordo di Venezia fra papa, Comuni, regno e imperatore.
6) L’accordo di Benevento appare come una cerniera. Non perché ribadisce la legittimità del regno normanno e i suoi obblighi feudali nei confronti della Chiesa di Roma, visto che tanto l’una quanto gli altri erano già stati riconosciuti con Innocenzo II; sotto questo profilo non cambia nulla: il papa indica le regole del gioco, ma sono i Normanni che lo governano.
Ma perché le conclusioni raggiunte a Venezia nel 1177 rinvieranno ad esso come in filigrana. Venezia è il momento epocale. Romualdo Salernitano ne è il testimone. Un testimone piuttosto interessato, a dire il vero, perché dalla sua relazione dipende il suo stesso ruolo a corte. Non sarà inopportuno riprenderne i lineamenti principali.
Tra i protagonisti troviamo i sapientes stranieri, espressione intensissima che designa i legati lombardi. Romualdo li rappresenta con grande attenzione perché addita in loro le autonomie politiche delle città, le loro capacità culturali, militari, economiche, con cui ci si deve confrontare, e attenzione a come lo si fa… hanno tenuto a bada l’imperatore e i suoi (69)! I sapientes dicono che il regno di Guglielmo II è lo spazio della sicurezza, della pace perfetta:
«Eum amatorem pacis et cultorem iustitie recognoscimus. Ipse namque pre ceteris mundi principibus, suis et extraneis pacem tribuit et securitatem impendit, quod uiatores nostri per opera sentiunt et peregrini experimento testantur, qui in uiis et campis sine custode dormiunt et in nemoribus absque suarum rerum amissione quiescunt. Et ut breui concludamus, in summa maior pax et securitas in regni eius nemoribus, quam in aliorum regnorum urbibus inuenitur» (70).
Se a questo aggiungiamo che (parole di Romualdo) il re di Sicilia difende i luoghi santi, «inimicos crucis Christi crudeli odio mari et terra persequitur (…) singulis annis biremes suas preparat, et cum eis armatam militiam destinat, ut hostes christiane fidei deuincat pariter et confundat et euntibus ad sepulchrum Domini securum iter preparet et expediat», troviamo di nuovo, attualizzato all’anno 1177 e ampliato per via del differente genere retorico, l’apprezzamento del 1156 (71).
Ma rinveniamo anche un altro elemento, centrale. Il ruolo di Alessandro III. Il papa appare ondivago. Meglio, spregiudicato: è disposto a promettere quello che non può mantenere, pur di conseguire i suoi scopi, e a ritornare rapidamente sui suoi passi se ciò gli conviene, addossando eventualmente la responsabilità ad altri: è quanto avviene quando comunica a Corrado di Wittelsbach che non potrà attribuirgli la sede primaziale di Magonza perché l’imperatore è pronto a buttare all’aria la pace se Cristiano venisse privato della sua sede. Non sappiamo se Romualdo fosse al corrente del fatto che in realtà la questione era già stata dibattuta e decisa; quel che possiamo e dobbiamo notare è che nel tessuto narrativo della sua relazione il papa è colto di sorpresa dall’intransigenza imperiale e cambia del tutto le deliberazioni che già aveva assunto; ma del resto niente può essere tanto desiderabile quanto la pace, e inoltre il papa detiene la suprema prerogativa di poter modificare le proprie decisioni come quelle dei suoi successori, come si sa; nessuno può legittimamente rimproverarlo se si sottrae ad impegni che ha già contratto o se non rispetta impegni contratti dai suoi predecessori. Il che potrebbe suggerire: chi sarà mai in grado di obbligarlo? quanto ci si può fidare di lui? Magari l’unica via per essere in pace con Alessandro III o comunque con qualunque altro pontefice della Chiesa di Roma può risiedere nel fatto di ricordare sempre che, come è appena avvenuto, i Normanni saranno sempre pronti a vegliare sulle sorti del papato: certo nessuno potrà accusarli se, adempiendo ai loro obblighi di vassalli, continueranno a vigilare, con discrezione ma con fermezza, su Roma e su quanto avviene. I siciliani, dice Romualdo, dovranno far valere sempre la loro posizione di protettori della Chiesa di Roma (72). Così come l’hanno difesa e protetta di fronte ai voltafaccia del doge di Venezia, che hanno ricondotto alla ragione con minacce e con una splendida, perfidissima battuta di spirito:
«est, quod non parcit pecunie, non indulget expensis, sed singulis annis biremes suas preparat, et cum eis armatam militiam destinat, ut hostes christiane fidei deuincat pariter et confundat et euntibus ad sepulchrum Domini securum iter preparet et expediat. Alii mundi principes subditos suos uehementer impugnant, et cum inimicis fidei pacem facere non formidant, de sepulchro Domini, quod a Saracenis impugnatur, non multum cogitant, et eum, qui solus ipsum defendere nititur, impedire festinant; alii que sua sunt querunt, solus rex noster, que Iesu Christi sunt, deuotus inquirit».
«Dominus quidem papa, sicut uir perfectus et sanctus et de sui meriti auctoritate confisus, mori non metuit, et Uenetum dolos et insidias non pauescit. Nos autem, qui adhuc imperfectiores sumus, mori nolumus, et nostro regi inferre iniuriam moriendo uitamus (…) Dominus autem noster tante est potentie et uirtutis, quod (…) illis sicut decet respondere curabit. Sed quia nos preces domini papae pro mandato accipimus, iter nostrum usque in diem crastinum differemus. Et dehinc communicato cum eo consilio, quid nobis faciendum sit, disponemus» (73).
Proviamo per un momento a pensare ai destinatari di questo testo, gli uomini della corte di Palermo che dovevano e sapevano valutarlo (e dalla loro valutazione sarebbe dipeso l’accesso di Romualdo all’isola di Sicilia) (74). L’arguzia, come sempre nella cultura «faceta» e crudelissima della corte, non è mai gratuita. E questa è molto pesante. Sarebbe troppo azzardato immaginare i sogghigni e comunque, almeno, il divertimento degli uomini di corte palermitani e del loro re di fronte all’immagine del papa che «siccome è perfetto e santo e pieno di fede nella sua autorità, non ha paura di morire… noi invece, che siamo ancora imperfetti, non vogliamo morire, ed evitiamo di arrecare, morendo, ingiuria al nostro re»? Quanti, dei papi che fino ad allora avevano avuto a che fare con i Normanni, avevano scelto il martirio? è pur vero che i Normanni non gliel’avevano mai concesso, di scegliere il martirio… L’esperienza di un papa che «non ha paura di morire» non faceva proprio parte della memoria storica e politica dei signori dell’Italia meridionale e della Sicilia, dei creatori del grande regno… Semmai, al contrario, erano stati i Normanni che non avevano avuto paura di morire per servire i loro signori e i loro re! Non si tratta soltanto di un bon mot da cortigiano, ma di una tessera che si aggiunge a comporre un intero mosaico di istruzione politica. I Normanni hanno sempre dettato le loro condizioni ai papi, ora non si facciano ingannare dalla pace che hanno conquistato a duro prezzo. La pace con Roma, può essere soltanto la loro pace! Sono i papi che debbono sapere che sono obbligati a convivere con il grande, splendido regno che, proteggendoli, li garantisce. Quale maggiore sicurezza, per chi gode della protezione, di quella di essere garantito? ma: quale maggiore scomodità e tormento, per chi è costretto a non fare a meno della protezione, di quella di essere sempre suscettibile di essere garantito?
6) Il ciclo si è chiuso. Ma la situazione resta precaria. I Normanni hanno sempre dovuto fronteggiare una Chiesa di Roma emergente, si è detto. E la Chiesa di Roma una signoria normanna del pari emergente. L’equilibrio è instabile. Insicuro per ciascuna delle due parti. Quando la situazione si sbilancia si aprono gli spazi di intervento. Ma gli equilibri erano stati sempre ripristinati. È quando si spalanca il baratro dell’inatteso – o forse neppure troppo inatteso, ma certo non preparato, senza strategie adatte – che la voragine inghiotte tutto. Guglielmo II non è così giovane da poter morire senza avere avuto un figlio, come è potuto accadere? la cosa è talmente paradossale che Riccardo di San Germano addosserà la responsabilità all’incolpevole e già defunta Giovanna d’Inghilterra, morta in Linguadoca proprio al suo secondo parto… Ma ancora c’è rimedio. Salvo che nessuno può prevedere che Riccardo Cuor di Leone si lascerà fare prigioniero in Austria e che sua madre raccoglierà per liberarlo un riscatto talmente ingente da poter finanziare la spedizione italiana di Enrico VI, imperatore e sposato con la figlia postuma di Ruggero II. E nessuno prevede che anche Enrico VI vivrà poco e che suo figlio verrà affidato alla tutela del papa. Stavolta toccherà ai papi offrire le garanzie al re di Sicilia: è un dovere che compete al papa in quanto signore eminente. E la prima cosa che farà il papa sarà quella di entrare in possesso del testamento con il quale Enrico VI, di fatto, aveva inteso sottrarre il figlio all’autorità apostolica… (75) Ora si, il papa può rivendicare la liceità di evellere et destruere et disperdere et dissipare et aedificare et plantare.
Le cose non andranno come sperava Innocenzo III, come sappiamo. Ma, come si dice, questa è un’altra storia.
Note
- DE’ GIOVANNI-CENTELLES, Croce e spada nella Sicilia del Gran Conte: le nomine vescovili, in Ruggero I Gran Conte di Sicilia 1101-2001. Atti del Congresso internazionale di studi per il IX Centenario (Troina, 29 novembre-2 dicembre 2001), Roma, 2007, p. 175.
- HOUBEN, Politische Integration und regionale Identitäten im normannisch-staufischen Königreich Sizilien, in Fragen der politischen Integration im mittelalterlichen Europa, hgb. von W. MALECZEK, Ostfildern, 2005, p. 180.
- MACCARRONE, Papato e Regno di Sicilia nel primo anno di pontificato di Innocenzo III (1983), ora in ID., Nuovi studi su Innocenzo III, a cura di R. LAMBERTINI, Roma, 1995, p. 159.
- G.A. LOUD, The Latin Church in Norman Italy, Cambridge UK, 2007, p. 271. Sia chiaro: l’A. sottolinea la peculiarità dell’esistenza di una molteplicità di episcopati: ma raramente tiene presente le diversità e le particolarità locali e regionali (e comunque sembra pretendere dai Normanni di Sicilia ciò che non ci si sognerebbe di chiedere ai Normanni d’Inghilterra, diciamo così…).
- V. LORÉ, L’aristocrazia salernitana nell’XI secolo, in Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura, a cura di P. DELOGU-P. PEDUTO, Salerno, 2004, pp. 61-102 (cfr., p. 78 per una generale osservazione sulla famiglia dei Guarna). Cfr. D MATTHEW, « Semper fideles ». The citizens of Salerno in the Norman kingdom, ivi, pp. 27-45. Naturalmente LOUD, The Latin Church in Norman Italy cit., ove il caso di Salerno ricorre con grande frequenza. Per la Sicilia e la Calabria si veda l’ampio contributo di DE’ GIOVANNI-CENTELLES, Croce e spada nella Sicilia del Gran Conte: le nomine vescovili cit., p. 207ss. Per un quadro generale decisamente sintetico, ma eccellente, C.D. FONSECA, La Chiesa, in I Normanni popolo d’Europa 1030-1200, Venezia, 1994, pp. 167-173.
- Mi permetto di rinviare al mio Per un nuovo questionario del secolo XI?, in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive all’alba del XXI secolo, a cura di G.M. CANTARELLA, in Reti Medievali – Rivista, XI (2010), 1, url: <http://www.rivista.redimedievali.it>, pp. 1-15 (e alla bibliografia ivi indicata); e cfr. ora anche C. CICCOPIEDI, Diocesi e riforme nel Medioevo. Orientamenti ecclesiastici e religiosi dei vescovi nel Piemonte dei secoli XI e XII ̧ Cantalupa, 2012. A proposito di strumentazione, sarà sufficiente dire della frequenza di espressioni come Gregorian reform o Gregorian reform papacy (LOUD, The Latin Church in Norman Italy, pp. 181ss., 389, 400); per le relazioni fra chiese e oligarchie locali cfr. pp. 193, 364-366, 439. D’altro si dirà più avanti.
- ancora LOUD, The Latin Church in Norman Italy cit., pp. 213-214, 255ss.
- N. D’ACUNTO, La corte di Leone IX: una porzione della corte imperiale?, in La Reliquia del Sangue di Cristo: Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX (Mantova, 23-26 novembre 2011), a cura di A. CALZONA-G.M. CANTARELLA, Verona, 2012, pp. 59-72; e anche il mio Gli animali parlanti di Leone IX: l’Italia vista dai confini dell’Impero, ivi, pp. 39-57.
- DELLE DONNE, Federico II: la condanna della memoria. Metamorfosi di un mito, Roma, 2012, p. 48.
- Rinvio alle osservazioni di F. SABATÈ, Identidad y memoria en el oficio del historiador, in ¿Qué implica ser medievalista? Prácticas y reflexiones en torno al oficio del historiador, A.V. NEYRA-G. RODRÍGUEZ, I, Mar del Plata, Universidad de Mar del Plata, Sociedad Argentina de Estudios Medievales, 2012, p. 88.
- Cfr. R. HÜLS, Kardinäle, Klerus und Kirchen Roms 1049-1130, Tübingen 1977, pp. 130-133. H. HOUBEN, Il papato, i Normanni e la nuova organizzazione ecclesiastica della Puglia e della Basilicata, in ID., Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno medievale, Galatina, 1989, p. 125.
- Si vedano le compiute indicazioni bibliografiche date da DE’ GIOVANNI-CENTELLES, Croce e spada nella Sicilia del Gran Conte: le nomine vescovili, p. 146ss.
- Cfr. H.E.J. COWDREY, Pope Gregory VII 1073-1085, Oxford, 1998, p. 491ss.; G.M. CANTARELLA, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa, 1073-1085, Roma-Bari, 2005, p. 155.
- RICHERI Gesta Senoniensis Ecclesiae, G. WAITZ, SS XXV, I.18, p. 265; per le considerazioni del Waitz cfr. pp. 251-252. Cfr. D. BARTHÉLEMY, Chevaliers et miracles. La violence et le sacré dans la société féodale, Paris, 2004.
- Cfr. ovviamente J. LE GOFF, La nascita del Purgatorio, trad. italiana Torino, 1982, pp. 154ss., 267 ss.
- RICHERI Gesta Senoniensis Ecclesiae, cit., II.19, p. 280.
- RICHERI Gesta Senoniensis Ecclesiae, cit., II.18, p. 280; cfr. HÜLS, Kardinäle, Klerus und Kirchen Roms 1049-1130 cit., p. 133 n. 5. A proposito di Umberto cfr. ora le osservazioni di D’ACUNTO, La corte di Leone IX: una porzione della corte imperiale? cit., p. 60ss.
- HOUBEN, Il papato, i Normanni e la nuova organizzazione ecclesiastica della Puglia e della Basilicata cit., p. 125 n. 20.
- JL 4219 = LEONIS IX PAPAE Epistolae et privilegia, PL 143, n° 38, coll.646-647; IP VIII, n° *4, p.9.
- Ex miraculis sancti Gerardi auctore Widrico, G. WAITZ, SS IV, 6, pp. 506, 507- 508: « Siquidem anno incorporati Christi millesimo quinquagesimo, ipsiusque domni Brunonis, qui et Leonis noni papae, anno apostolatus secundo, redierat sollempnis dies anniversaria huius beati pontificis, quae more consuetudinario statuta est celebrari cunctis Leuchorum populis »; « Nomina sanctorum patrum qui praedictae synodo interfuerunt […] Huncbertus Siciliensis archiepiscopus. Hildebrandus Capuensis archiepiscopus. Petrus Consanus archiepiscopus […] Crescentius Silvae candidae episcopus […] Leo Murensis episcopus. Masio Montis-viridis episcopus ». Per le parole del Waitz, ivi p. 486.
- Cfr. H. TAVIANI-CAROZZI, Léon IX et les Normands d’Italie du Sud, in Léon IX et son temps, éd. par G. BISCHOFF-B.-M. TOCK, Tournhout, 2006, p. 324.
- Cfr. il mio Gli animali parlanti di Leone IX: l’Italia vista dai confini dell’Impero cit., pp. 39, 47 n. 46.
- Cfr. HÜLS, Kardinäle, Klerus und Kirchen Roms 1049-1130 cit., pp. 130-131.
- Cfr. IP II.*27, p. 92: « non dubium est, quin haec refutatio facta est in tempore concilii Romani a. 1050, in quo adfuerunt Humbertus tunc archiep. Siciliensis, etc. »; II.*28, ibidem: « Sed Humbertum abbatem iam 1050 mai, institutum fuisse, mihi persuasum habeo (cf. n. 27) »; e di nuovo VIII.*4 cit.: « De fide dubitat haud merito Di Meo Annali VII 305 »).
- JL I, p. 536.
- Cfr. JL II, p. 822.
- Come si legge nel regesto, col. 644D, e come sottolinea JL 4219, p. 537: « subscripserunt episcopi 55 ».
- « Et cum eo [l’imperatore] dominus papa et alii episcopi numero quinquaginta »; « redeunte domino papa Leone Romam (…) consecravit ipsam ecclesiam et quinquaginta duo episcopi cum eo »: De inventione sanguinis Domini, De translatione sanguinis Christi, G. WAITZ, SS XV.2, pp. 921, 922. Cfr. ancora Gli animali parlanti di Leone IX: l’Italia vista dai confini dell’Impero cit., pp. 48-49 n. 54.
- SABATÈ, Identidad y memoria en el oficio del historiador , p. 91.
- Cfr. Die Touler Vita Leos IX., herausgegeben und übersetz von G. KRAUSE, unter Mitwirkung von D. JASPER und V. LUKAS, SSRRGG LXX, pp. 206-207 n. 72. Ivi II.14(6)-15(6), p. 206: « Itaque zelo sancte religionis fervens presul venerandus apud Sipontum habito concilio duos deposuit ab officio archiepiscopatus, qui cum mercede sanctum assumpserant ministerium, vicio elationis unus ambiens precellere alterum. Inde repetito gressu Romam rediit, ubi superna ammonitus revelatione beatum Gerardum, sue sedis Leuchorum videlicet olim presulem, in numero sanctorum computandum statuit, eodemque anno in patriam regressus ipsius sanctos artus cum summa gloria transtulit, que omnia dilucide sunt exarata in eiusdem vita et miraculis ». Per la Vita di Gerardo di Toul cfr. le osservazioni di C. VON PLANTA, Le dossier hagiographique de Léon IX, in Léon IX et son temps cit., p. 228 n. 40. Cfr. D’ACUNTO, La corte di Leone IX: una porzione della corte imperiale? cit., pp. 67-68. Sui casi di Siponto cfr. LOUD, The Latin Church in Norman Italy cit., pp. 181-182.
- Cfr. le osservazioni generali di LOUD, The Latin Church in Norman Italy cit., pp. 203-204, a proposito del fatto che la Chiesa romana non era esclusa e non si era lasciata escludere dalla Sicilia.
- Cfr. M.R. TESSERA, Orientalis Ecclesia: The Papal Schism of 1130 and the Latin Church of the Crusader States, in Crusades, 9 (2010), pp. 1-2: « [Anacleto II] Following his predecessor’s policy, and in particular Paschals II’s interpretation, the pope claimed that the Roman church was the main defender and patron of the Holy City since the conquest of Jerusalem in 1099 ». Nulla permette di asserire con tanta certezza quanto afferma l’A., se non la traduzione quasi letterale della lettera di Anacleto II cui fa riferimento (JL 8393 = ANACLETI ANTIPAPAE Epistolae et privilegia, PL 179, n° 22, col. 711A), peraltro discretamente sovrinterpretata (il testo recita: « Ex quo civitas sancta Hierusalem, et gloriosissimus Dominicae sepolturae locus, Dei nutu, Christianis est redditus, ad ejus defensionis tutelam Romana Ecclesia omnimodis laborare non destitit. Quocirca nos, qui in apostolicae sedis specula divina sumus dispositione promoti, praedecessorum nostrorum Romanorum pontificum vestigia subsequentes, famosam illam civitatem Hierusalem, et loca illa ubi steterunt pedes ejus, debita reverentia venerantes, quibus modis per Dei omnipotentis gratiam possumus exaltare, ac nimium honorare decrevimus, etc. »): di certo non il documento di Pasquale II, che – anche qui, sia detto en passant – si “limita” a sottolineare il primato del papa e di san Pietro, attraverso il legato e la sua opera di vigilanza sugli istituti ecclesiastici: che non è precisamente quanto vorrebbe l’A. Differenza non da poco… ma sarebbe stato sufficiente, appunto, avvicinarsi alla fonte, e si sarebbe evitato l’infortunio: JL 5835 (1100 maggio 4) = PASCHALIS II PAPAE Epistolae et privilegia, PL 163, n° 21, coll. 42C-43C. O almeno alla bibliografia che di quei problemi e di quel documento si è occupata: quella in tedesco, se proprio non si vuole usare quella in italiano (C. SERVATIUS, Paschalis II. (1099-1118). Studien zu seiner Person und seiner Politik ̧ Stuttgart, 1979, p. 253ss; cfr. anche il mio Pasquale II e il suo tempo, Napoli 1997, pp. 39- 40, 46-50). Forse la coazione a ripetere (gli errori, in questo caso: sottovalutazioni, sopravvalutazioni, genericità… e qui ci fermiamo) nel caso di Pasquale II è una tentazione inevitabile. O forse l’evocazione di Pasquale II costituisce una tentazione irresistibile per chi si occupa di Anacleto II (nonostante il fatto che la ricerca più recente consiglierebbe almeno una certa prudenza – ad esempio perché non tutte le ordinazioni cardinalizie attribuite a Pasquale II dalla storiografia austro-tedesca sono riconducibili a lui: cfr. S. ANZOISE, Per una riconsiderazione dello scisma del 1130. Il ruolo dei cardinali dal 1059, Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, Tesi di Laurea Specialistica « Storia e Civiltà », rel. M. Ronzani, discussa il 21 settembre 2009, p. 105 ss.), ovviamente evitando con grande cura di studiarne gli elementi di ecclesiologia: il modello dello scisma del 1130 e i suoi riferimenti interni sono troppo forti, evidentemente… Ne diremo qualcosa più sotto.
- Cfr. CANTARELLA, Pasquale II e il suo tempo cit., pp. 172ss., 54-56.
- Cfr. CANTARELLA, Pasquale II e il suo tempo cit., pp. 179-180; non mi pare del tutto convincente, ancorché accurata, C. COLOTTO, Gregorio VIII, antipapa, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma, 2000, p. 246 (=Gregorio VIII, antipapa, in DBI 59, Roma, 2003, p. 162). E forse troppo sbrigativa M. STROLL, Calixtus II (1119-1124): A Pope Born to Rule, Leiden-Boston, 2004, pp. 52-54. S. FREUND, Gelasio II, in DBI 52, Roma, 1999, pp. 807-811 (=Gelasio II, in Enciclopedia dei Papi ̧ II, Roma, 2000, pp. 240-245).
- Cfr. i miei Alle origini delle autonomie politiche cittadine in Europa. Qualche appunto su un paio di casi, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centro settentrionale nel processo storico dal primo Comune alla Signoria, Atti del Convegno di Studio (Bologna, 3-4 settembre 2010), a cura di M.C. DE MATTEIS – B. PIO, Bologna, 2011, pp. 256-257; R.O.M.A., in Roma e il papato nel Medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio, I: Percezioni, scambi, pratiche, a cura di A. DE VINCENTIIS, Roma, 2012, p. 152.
- JL 6562 (1117 ottobre 1, Anagni): « Ante Sarracenorum invasionem Siciliae insula Romane ecclesie adeo familiaris fuit, ut sempre in ea Romani pontifices et patrimoniorum suorum curatores et sue vicis representatores habuerint. Patri autem tuo divina gratia prerogativam contulit, ut suo et suorum labore et sanguine Sarraceni ab eadem insula pellerentur, et in ea Dei ecclesie restituerentur. Unde, sicut in tuis litteris suggessisti, antecessor meus patri tuo legati vicem gratuita benignitate concessit. Nos quoque tibi post ipsum eius successori concessimus, ea videlicet ratione, ut si quando illuc ex latere nostro legatus dirigitur, quem profecto vicarium intelligimus, que ab eo gerenda sunt, per tuam industriam effectui mancipentur. Sic enim in ecclesia seculares potestates dispositas legimus, ut quod ecclesiastica humilitas minus valet, secularis potestas sue formidinis rigore perficiat. Nam personarum ecclesiasticarum seu dignitatum iudicia nusquam legimus laicis vel religiosis fuisse commissa. Porro episcoporum vocationes ad synodum, quas unquam sibi legatus aut vicarius usurpavit? quod aliquando singularibus, aliquando pluralibus litteris per quoslibet solet nuncios fieri. Cognosce fili carissime modum tuum et datam tibi a Domino potestatem, noli contra dominicam erigere potestatem. Sic enim a Domino Romane ecclesie potestas concessa est, ut ab hominibus auferri non possit. Disce in comitatu tuo bonorum imperatorum exempla, ut ecclesias non impugnare studeas sed iuvare, non iudicare aut opprimere episcopos, sed tanquam Dei vicarios venerari. Que a patre tuo nobilis memorie R. comite ecclesie data sunt, per te nullatenus minuantur, sed potius augeantur. Noli Deum precedere sed sequaris, quia eo duce non offendes, sed vite lumen habebis » (ed. W. VON GIESEBRECHT, in JL I, pp. 766-767). Riportiamo tutto il testo proprio perché siano evidenti i passaggi logici stringenti. Cfr. Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa, 1073-1085, pp. 89-90.
- Ott. Lat. 3057, f. 151r; ringrazio il dr. Enrico Dumas per aver effettuato un nuovo controllo sul codice. Cfr. Pasquale II e il suo tempo, pp. 159-161, 165; V. DE FRAJA, L’insegnamento della teologia a Roma prima della fondazione dello Studium Romanae Curiae (fine XII sec.-1244). Primi spunti di ricerca, in Le scritture della storia. Pagine offerte dalla Scuola Nazionale di Studi Medievali a Massimo Miglio, a cura di F. DELLE DONNE-G. PESTRI, Roma, 2012, p. 194.
- HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, trad. italiana Roma-Bari, 1999, pp. 33-39.
- Cfr. H. TAKAYAMA, The Administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leiden-New York-Köln, 1993, pp. 47 e n. 3 (« † Komitissis adilasías syn tí uyó avtís rogerío komití sikelías kái kalabrías »), 48ss.
- STROLL, The Jewish Pope. Ideology and Politics in the Papal Schism of 1130, Leiden-New York NY-København-Köln, 1987, pp. 88-90. Per questi problemi comunque mi si permetta di rinviare al mio L’algoritmo di Anacleto II: la creazione del Regno di Sicilia, in Framing Anacletus II (Anti)Pope, 1130-1138 (Roma, 10-12 aprile 2013), di prossima pubblicazione.
- A proposito della « riforma gregoriana »: G. MILANESI, Il monastero di Nonantola al tempo di Leone IX, in La Reliquia del Sangue di Cristo: Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX , p. 273.
- Cfr. S. CERRINI, Onorio II, in Enciclopedia dei papi II, Roma, 2000, pp. 255-258.
- F. PALUMBO, Nuovi studi (1942-1962) sullo scisma di Anacleto II, in BISIME, 75 (1963), p. 97.
- HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente , pp. 67, 69. R. MANSELLI, Anacleto II, antipapa, in DBI, 3 (1961), p. 19. LOUD, The Latin Church in Norman Italy cit., p. 223.
- HUIZINGA, Lo stato attuale della scienza storica (1934), trad. italiana in La mia via alla storia e altri saggi, Bari, 1967, p. 57: « Lo storico… nei confronti della sua materia, deve tenere una posizione non-determinista. Egli si riporta continuamente a un punto del passato in cui i fattori permettevano anche risultati diversi. Quando parla di Salamina, non esclude che a vincere possano essere i persiani; quando parla del colpo di stato di Brumaio, non sa ancora se Bonaparte non verrà respinto ingnominiosamente. Soltanto tenendo continuamente presenti le infinite possibilità, può rendere giustizia alla pienezza della vita ».
- Cfr. ANZOISE, Per una riconsiderazione dello scisma del 1130 cit., pp. 105 ss.; da segnalare l’accuratissimo lavoro sui cardinali, pp. 94-104. Cfr. G. MILANESI, Le « immagini » e lo scisma di Anacleto II e Innocenzo II in Aquitania (1130.1138), Università degli Studi di Parma, Dottorato di ricerca in Storia dell’arte e dello Spettacolo, ciclo XXIV, tutor A. Calzona, discussa il 19 marzo 2012.
- Neppure l’ampio e recente lavoro della STROLL, Calixtus II (1119-1124): A Pope Born to Rule affronta temi di tipo ecclesiologico: l’A. conclude che « he never showed any deep interest in spirituality, theology, or canon law, and his commitment to religious reform was shallow » (p. 478), ma in realtà evita di affrontare il tema; forse gli studi di tipo ecclesiologico stanno morendo o magari sono già morti, e ancora non vogliamo rendercene conto?
- JL 8371 (1130 febbraio 24, San Pietro) = ANACLETI ANTIPAPAE Epistolae et privilegia, cit., n° 2, col. 707A (al re Lotario): « disponente Deo, ad totius Ecclesiae regnum promoti sumus »; JL 8391 (1130 maggio 18, San Pietro) = ep. n° 20 (a Norberto), col. 710A: « Perpendat ergo fraternitatis tuae prudentia, quam grave quamque inconveniens sit, ut illud sedis apostolicae privilegium coneris auferre, quod ex divino munere atque antiqua sanctorum Patrum traditione usque nunc per Dei gratiam meruit obtinere, et per apostolorum principi merita B. Petri pro quo ne ejus deficiat fides, ipse Christus oravit, usque ad finem inviolabiliter obtinebit »; JL 8413 (1130, sept.) = ep. n° 40, col. 717C: « ponens quidem in coelum os suum, ut linguam ejus transeat super terram. Tamquam alter Dioscorus sedem nisus est apostolicam judicare »; JL JL 8398 (1130 maggio 15, San Pietro) = ep. n° 18, col. 707A (al re Lotario): « Vicissim enim sibi et regalis potestas, et sacra Romana auctoritas mutua debent inter se diligentia respondere ».
- JL 8411 (1130 agosto 27, Benevento) = n° 38, col. 716A.
- Si tratta di tematica troppo famosa perché ci si debba soffermare: comunque cfr. INNOCENTII III PAPAE In consecratione Pontificis Maximi, PL 217, coll. 653D-660D (il passo di Geremia alla col. 657C); per le sue relazioni con il De consideratione ad Eugenium papam di BERNARDO DI CLAIRVAUX (edd. J. LECLERCQ-H. ROCHAIS, in S. BERNARDI Opera III, Romae 1963, II.VI.9, pp. 416-417) cfr. le rapide considerazioni di B. BOLTON, Signposts from the Past: Reflexions on Innocent III’s Providential Path, in Innocenzo III. Urbs et Orbis, a cura di A. SOMMERLECHNER, I, Roma, 2003, p. 41; si potrebbe aggiungere che Innocenzo III non si limitava a interpretare diversamente il significato spirituale ed ecclesiologico del brano bernardiano ma semplicemente, con il suo « claim to papal monarchy », lo rovesciava, in perfetta coerenza con la temperie culturale ed ecclesiologica che nel passaggio fra i secc. XII-XIII operò una radicale trasformazione dell’esperienza cisterciense e, si potrebbe dire, il vero e proprio tradimento di Bernardo: su questo cfr. le recentissime ricerche di L. BRACA, Cistercensi nello specchio dell’aldilà. Forme dell’« ideale » nella letteratura dei miracolii tra dinamiche istituzionali e culturali, in BISIME, 111 (2009), pp. 63-99; ID., Visioni paradisiache e terrori infernali. Crisi istituzionale e trasmissione d’identità nelle collezioni di miracoli cistercensi (seconda metà secolo XII-primo quarto secolo XIII), Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Storia, Scuola di Dottorato in Scienze Storiche, Indirizzo Storia del Cristianesimo e delle Chiese, XXIV Ciclo, a.a. 2011-2012, supervisore A. Rigon; cfr. anche F. RENZI, El Císter en Galicia entre los siglos XII y XIII: ¿una nueva perspectiva?, in ¿Qué implica ser medievalista? Prácticas y reflexiones en torno al oficio del historiador , II, pp. 169-170. Ancora da vedere il sintetico ma efficace studio di K. PENNINGTON, Pope’s Innocent III Views on Church and State: A Gloss to « Per venerabilem », in Law, Church and Society.Essays in Honor of Stephan Kuttner, edd. R. SOMERVILLE- K. PENNINGTON, Philadelphia Pa. 1977, pp. 49-67. Cfr. L.E. BOYLE OP, Innocent III’s View of Himself as Pope, in Innocenzo III. Urbs et Orbis cit., p. 7. G.C. GARFAGNINI, Innocenzo III « Vicarius Christi » e la sua concezione del potere pontificio (2007), ora in ID., « Usurpatio iuris non facit ius ». Il dibattito sulla « potestas » pontificia nel medioevo (secc. XII- XIV), Roma, 2013, p. 52 ss. (il passo di Geremia a p. 238).
- Cfr. MACCARRONE, Papato e Regno di Sicilia nel primo anno di pontificato di Innocenzo III cit., pp. 168-169: « Furono anni turbinosi, con alterne vicende, che videro il papa impegnato in una logorante attività politica e militare. I risultati, sotto questo riguardo, furono negativi »; di « echec politique… de la politique pontificale » parla J.-M. MARTIN, Les affaires du Royaume de Sicile et la famille du pape, in Innocenzo III. Urbs et Orbis, p. 836. Cfr. M. MESCHINI, Innocenzo III e il « negotium pacis et fidei in Linguadoca tra il 1198 e il 1215, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, CDIV (2007), Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Memorie, s. IX, vol. XX.2, p. 648ss.
- JL 5841 (Melfi 1100 ottobre 15) = 32, coll. 45D-46A. Cfr. il rapido (e maldestro, anche se U.-R. BLUMENTHAL ebbe la bontà di non sottolineare la questione: in Speculum, 60 [1985], pp. 137-139) incipitario di Pasquale II nel mio Ecclesiologia e politica nel papato di Pasquale II. Linee di una interpretazione, Roma, 1982, pp. 99-115.
- HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente , p. 69.
- AAS 27, 8, 32, 34; DP 8; per i testi rinvio al mio Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa, 1073-1085, , pp. 39ss., 180ss., 339-342. Su Innocenzo II cfr. i rapidi accenni in Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Torino, 1997, pp. 61-62.
- D’ANGELO, Le « amicizie » del Cuor di Leone, in Parole e realtà dell’amicizia medievale (Ascoli Piceno, 2-4 dicembre 2010), a cura di I. LORI SANFILIPPO-A. RIGON, Roma, 2012, pp. 98-99.
- LOUD, The Latin Church in Norman Italy , p. 223.
- F. PALUMBO, Lo scisma del MCXXX. I precedenti, la vicenda romana e le ripercussioni europee della lotta fra Anacleto e Innocenzo II, Roma, 1942, p. 449.
- FALCONE DI BENEVENTO, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei Normanni, a cura di E. D’ANGELO, Firenze, 1998, 1137.27.7 p. 202, 1137.25.12, 25.14, p. 204.
- Qui rinvio a quanto ho già scritto in « Liaisons dangereuses »: il papato e i Normanni, in Il Papato e i Normanni. Temporale e spirituale in età normanna, a cura di E. D’ANGELO-C. LEONARDI, Firenze, 2011, pp. 50-55.
- In generale cfr. LOUD, The Latin Church in Norman Italy , pp. 231-232.
- Pactum Beneventanum, L. WEILAND, M.G.H. Const I, n° 413, p. 590. L’ed. di H. ENZENSBERGER, Guillelmi I. regis Diplomata, Köln-Wien, 1996, n° 12, p. 35, rende il testo in forma diplomatica, ma senza modifiche.
- Pactum Beneventanum, cit., p. 590: « Omnia vero predicta, que nobis concessistis, sicut nobis ita etiam et heredibus nostris conceditis, quos pro voluntaria ordinatione nostra statuerimus, qui sicut nos vobis vestrisque successoribus et ecclesie Romane fidelitatem facere et que prescripta sunt voluerint observare. Ut autem que supradicta sunt tam vestro quam vestrorum successorum tempore perpetuam optineant firmitatem et nec nostris nec nostrorum heredum temporibus alicuius valeant presumptione turbari, presens scriptum per manum Mathei nostri notarii scribiet bulla aurea nostro tipario impressa insigniri ac nostro signaculo decorari iussimus »; Guillelmi I. regis Diplomata, ed. cit. p. 35. Cfr. JL 8043 (1139 luglio 27) = INNOCENTII II PAPAE Epistolae et privilegia, PL 179, n° 416, col. 479C; JL 8411 cit., col. 716D; cfr. HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente cit., p. 94.
- Cfr. ancora il mio in « Liaisons dangereuses »: il papato e i Normanni cit., p. 54.
- Pactum Beneventanum, 589; Guillelmi I. regis Diplomata, p. 34.
- Pactum Beneventanum, n° 414, p. 591 (non è stato incluso nell’edizione dei diplomi di Guglielmo I).
- Rinvio al mio La cultura di corte, in Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno (1130-1194). Atti delle XVII Giornate Normanno-Sveve (Bari, 10-13 ottobre 2006), Bari, 2008, pp. 307-330.
- ancora in « Liaisons dangereuses »: il papato e i Normanni cit., p. 55.
- Cfr. il mio Nel Regno del Sole. Falcando fra inglesi e normanni, in Scritti di Storia Medievale offerti a Maria Consiglia De Matteis, a cura di B. PIO, Spoleto, 2011, pp. 111-120.
- Cfr. La cultura di corte cit, pp. 318-321.
- ROMUALDI SALERNITANI ARCHIEP. Chronicon, C.A. GARUFI, R.I.S.2, VII/1, ad a. 1177, pp. 273 274. Sull’opera nel suo complesso da vedere l’ampia e attenta disamina di M. ZABBIA, Damnatio memoriae o selezione storiografica? I grandi assenti nel Chronicon di Romualdo Salernitano (Periodo normanno), in Condannare all’oblio. Pratiche della « damnatio memoriae » nel Medioevo, Roma, 2010, pp. 19-64.
- Ed cit., ad a. 1177, p. 290: « Ipse enim sicut catholicus princeps et pacis filius, omnes christianos principes diligit, et quantum in eo est, cum illis pacem et concordiam habere credit. Solos inimicos crucis Christi crudeli odio mari et terra persequitur. Inde est, quod non parcit pecunie, non indulget expensis, sed singulis annis biremes suas preparat, et cum eis armatam militiam destinat, ut hostes christiane fidei deuincat pariter et confundat et euntibus ad sepulchrum Domini securum iter preparet et expediat. Alii mundi principes subditos suos uehementer impugnant, et cum inimicis fidei pacem facere non formidant, de sepulchro Domini, quod a Saracenis impugnatur, non multum cogitant, et eum, qui solus ipsum defendere nititur, impedire festinant; alii que sua sunt querunt, solus rex noster, que Iesu Christi sunt, deuotus inquirit ».
- Cfr. ancora La cultura di corte cit., pp. 324-325.
- Ad a. 1177, p. 282; cfr. La cultura di corte , pp. 326-329.
- La cultura di corte , pp. 309-310.
- Per rapidi accenni a cose fin troppo note: i miei La Sicilia e i Normanni. Le fonti del mito, Bologna, 1988, pp. 32-33 n. 62; Innocenzo III e la Romagna, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, LII (1998), pp. 69-72; Dalle chiese alla monarchia papale, in G.M. CANTARELLA, V. POLONIO, R. RUSCONI, Chiesa, chiese, movimenti religiosi, G.M. CANTARELLA, Roma-Bari, 20095, pp. 67-68.