
Fermo polo commerciali: i rapporti commerciali tra la Serenissima e la Città del Girfalco. Nota critica sui documenti diplomatici dell’Archivio di Stato di Fermo. di Riccardo Renzi e Saturnino Di Ruscio
Abstract: Il presente lavoro cerca di chiarire il ruolo giocato da Fermo negli scambi commerciali tra la Marca e Venezia tra Duecento e Quattrocento. Il ricco materiale, già studiato da Hagemann, Avarucci e Paciaroni, conservato presso l’Archivio di Stato di Fermo, ha fornito una fondamentale base per lo sviluppo del discorso attorno alla città del Girfalco.
Fermo, agli inizi del tredicesimo secolo, già per sua natura rurale, vide questo tipo di economia accentuarsi con l’espansione nell’entroterra dovuta all’acquisto di castelli e terre, tutti naturalmente di natura pastorale e agricola. Nel territorio fermano si coltivavano, in particolare, viti, noci, ulivi, grano, legumi vari, semolino, fichi e castagne, come riportato negli statuti che contenenti i generi alimentari sottoposti a gabella: «granum vel alterum bladum, legumina, semen lini et nucem, hordeum, spelta, ficus, castanae, olivae, fabae, cicera et alia legumina»[1]. All’agricoltura si affiancava l’allevamento di ovini e una sostanziosa produzione della lana[2]. Da questa breve introduzione si evince come la Città della Marca fosse strettamente legata ad un’economia rurale, bisognerà aspettare la seconda metà del Duecento per vedere Fermo affacciarsi al commercio marittimo.
Il forte legame politico e militare tra Fermo e Venezia, trova testimonianza giuridica negli accordi del 1260, del 1288 e del 1377[3]: essi nascono prima di tutto dalle esigenze fermane di avere appoggio militare durante i suoi continui scontri con Ancona. Venezia dalla sua, appoggerà sempre Fermo senza esitazioni, proprio perché tali diatribe si inseriscono perfettamente nel progetto veneziano di disturbo delle attività mercantili della città dorica.
Le frequentazioni della Serenissima da parte dei fermani furono multiformi e polivalenti. Illuminante a tal proposito risulta l’episodio concernente Antonio di Fermo, che il 20 gennaio 1383 ricevette dalla città lagunare cento ducati d’oro «propter laudabilia opera in honorem et statum nostri Dominii sicut omnibus notum est» [4].
Venezia, essendo uno dei maggiori centri di scambio di tutt’Europa, proprio per la sua posizione geografica dominante nell’alto Adriatico e per lo sviluppo della marineria mercantile, funge da polo attrattivo per molti mercanti che vi dimorano e lì istituiscono nuove filiali[5]. Il Pegolotti[6] inserì la Città del Girfalco sin dai primi del Trecento nell’elenco delle città della Penisola con le quali Venezia intratteneva stabili rapporti[7].
I rapporti tra la Serenissima e il fermano sono messi ben in evidenza dal Luzzatto: «chi era maggiormente interessato e ne ritraeva un vantaggio reale era Venezia, la quale aveva bisogno di trovare aperti i porti dell’Adriatico e poter esportare da Fermo, come dagli altri paesi delle Marche, grano, olio e vino e altri commestibili che le facevano difetto, e che essa poi, padrona ormai di tutti i passaggi verso l’interno della valle padana, trasportava e vendeva in tutta l’Italia settentrionale»[8]. La Serenissima, dalla sua, spesso si prodigava in difesa di Fermo[9], poiché risultano evidenti i danni economici provocati da un’eventuale interruzione dei flussi commerciali con la città della Marca. A tal proposito ci sovviene in ausilio una lettera di un mercante fermano diretta a Francesco di Marco Datini[10] del 19 luglio 1409: «habuimus multum gratum ut omnia navigia iuxta solitum cum mercantiis et potissime victualibus et aliis rebus se possent transferre cum securitate Venetias et abinde ad alias partes pro bono Communi et ubertate Civitatis nostrae praedictae»[11]. Procedendo nella lettura del documento, si evince come emerga la necessità da parte dei veneziani di fiancheggiare una nave fermana contenente arance, affinché il carico arrivi intonso a destinazione. Un ulteriore episodio di interesse fu quello del 27 maggio 1409. In tal caso, due ambasciatori fermani si diressero prezzo il palazzo ducale della Serenissima allo scopo di denunciare le gravi molestie subite dai mercanti fermani da parte di quelli anconetani: «Quod Fermani conquerentur de illis de Ancona qui cum navigiis armatis damnificantes sunt causa quod naviga de Firmo et illarum partium non audent accedere Venetias nec de Venetiis ad dictas partes»[12]. In questo caso la Serenissima, per tenersi a caro Fermo, intervenne contro la città dorica.
In rari casi è la città veneta a chiedere aiuto a quella marchigiana, come testimoniato dalla lettera[13] del 20 agosto 1283, dove il doge Giovanni Dandolo[14] chiede aiuto al podestà di Fermo Sinibaldo de Aynardonis[15] affinché agevoli il trasporto a Venezia di carni suine, olio e grano acquistati dalla Serenissima per il patriarca di Gerusalemme[16]. Interessanti sono anche altre due lettere ducali del doge Ranieri Zeno[17], che si riferiscono all’approvvigionamento di cereali da parte di Venezia[18]. In una di queste, precisamente in quella del 13 marzo 1271[19], il doge sollecita le autorità fermane affinché accelerino l’esportazione di 100 salme di frumento, acquistate dal veneziano Matheus Carbonis[20]. Dunque, le specialità della Marca esportate verso la Repubblica lagunare sono: olio, grano, vino, carni e arance[21]. I mercanti fermani non si limitano però a commerciare solamente i prodotti provenienti dalla loro terra, ma anche da altre aree della Penisola. Di estrema importanza, risultano a tal proposito, le patenti ducali concesse a due mercanti fermani, le quali concedevano di trasportare alcune centinaia di cartelli di vino su navi veneziane. In particolare a Vincenzo fermano si concedeva il 24 settembre 1427 di imbarcare 120 cartelli di vino al porto di Fano[22].
Nota significativa, che si inserisce a pieno nel discorso degli scambi commerciali, è quella relativa al fatto che Fermo nel 1316 acquistò il castello di Sant’Angelo in Pontano che nei suoi territori possedeva delle saline. Tuttavia il sale prodotto in tale zona non saturò il mercato né coprì il fabbisogno locale poiché si mantennero costanti le importazioni da Venezia[23].
Dallo studio del canavarius del Comune di Sarnano[24] emerge quanta importanza avesse il porto di Fermo nello smistamento delle derrate alimentari, dall’entroterra verso la Serenissima. Oltre ai prodotti alimentari la città della Marca commerciava carta, tessuti e pellami, provenienti dall’entroterra. A tal proposito sono molto noti gli scambi tra Camerino e Fermo. Una testimonianza interessante giunge da un atto notarile del 1475[25] riguardante il mercante camerinese Angelo di Melchiorre dei Paolucci[26], il quale dichiara di far lavorare le pelli importate dalla Spagna nella città del Girfalco, da qui poi le commercializza verso il nord Italia.
Dalle numerose prove documentarie si evince come Fermo abbia sempre giocato un ruolo fondamentale nell’unire la Marca interna a quella costiera, fungendo da polo di attrazione commerciale, permettendo un continuo e duraturo scambio di prodotti dai microcosmi regionali caratterizzanti della Marca, al macrocosmo Adriatico.
NOTE
[1] Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Fermo, Statuta, lib. IV, rub. 14.
[2] Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Fermo (da ora in poi A.S.Fe.), cod. 1019, Computum pecorariorum domini Johannuctii Pacharoni. Il mercante Paccaroni riporta il computo dei proventi della lana su un libro a parte.
[3] G. Spallacci, I commerci adriatici e mediterranei di Ancona nel XV secolo, Bologna, Clueb, 2020, p. 85.
[4] Archivio di Stato di Venezia., Senato. Misti, n. 38, c. 64r.
[5] G. Luzzatto, Storia economica di Venezia dall’XI al XVI secolo, Marsilio, 1995, pp. 50-68.
[6] F. B. Pegolotti, La pratica della mercatura, New York, Kraus Reprint Co., 1970.
[7] G. Luzzatto, Storia economica, cit., p. 68.
[8] G. Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, Venezia, Fontana, 1906, p. 14.
[9] L. Tomei, Genesi e primi sviluppi del Comune nella Marca meridionale: Le vicende del Comune di Fermo dalle origini alla fine del periodo svevo (1268), in Società e cultura nella Marca meridionale tra alto e basso Medioevo: atti del 4. Seminario di studi per personale direttivo e docente della scuola: Cupra Marittima, 27-31 ottobre 1992.
[10] G. Livi, Dall’Archivio di Francesco Datini, mercante pratese, Firenze, 1910; F. Melis, I mercanti italiani nell’Europa medievale e rinascimentale, con introduzione di Hermann Kellenbenz; a cura di Luciana Frangioni, Firenze, Le Monnier, 1990; L. Frangioni, Chiedere e ottenere: l’approvvigionamento di prodotti di successo della bottega Datini di Avignone nel XIV secolo, Firenze, 2002. Il padre di Francesco, Marco Datini, era un modesto oste, rimasto vittima della peste nel 1348, assieme alla moglie Vermiglia ed a due figli. Francesco ed il fratello Stefano, gli unici sopravvissuti della famiglia, vennero accolti da una brava donna, Piera Boschetti, che li allevò. Circa un anno dopo la morte del padre, Francesco andò a lavorare come garzone presso due mercanti di Firenze. Lì imparò i rudimenti del commercio. Sempre a bottega, ebbe modo di capire le possibilità che Avignone, allora sede del Papato, offriva alle persone ambiziose ed abili negli affari. A quindici anni, con in tasca i centocinquanta fiorini ricavati dalla vendita di un podere ereditato dal padre, si trasferì proprio nella città provenzale, che stava vivendo il suo periodo più fulgido. Sul primo periodo vissuto ad Avignone non ci sono documenti, fino al 1363, quando risultava associato in posizione subordinata in alcune compagnie. Nel 1373 fondò un’azienda individuale facendo fortuna; nel 1376 sposò Margherita di Domenico di Donato Bandini, una giovanissima fiorentina: lui era quarantunenne e lei sedicenne. Alla fine del 1382, dopo che nel 1378 la sede del papato era stata riportata a Roma, il Datini decise di rientrare in patria. Nel fortunato prosieguo delle sue molteplici attività mercantili furono molto utili i numerosi rapporti con mercati della Francia, del Mediterraneo e delle Fiandre. Impiantò manifatture a Pisa, e poi a Prato, Genova, Barcellona, Valenza, Maiorca, occupandosi prevalentemente di produzione e commercio tessile. Lasciò in funzione anche la vecchia sede di Avignone. La direzione generale di tutto il sistema era a Firenze, dove nel 1398 fondò la Compagnia del banco, forse il primo esempio di un’azienda bancaria autonoma. A Prato, dopo il suo ritorno, diede inizio alla costruzione di un palazzo, arricchendolo di affreschi commissionati ai migliori maestri di Firenze. Più tardi costruì anche una residenza extraurbana, la Villa del Palco.
Negli anni seguenti ricoprì anche incarichi pubblici nel Comune di Prato anche se il Datini preferiva la cura degli affari che seguiva di persona. La sua ospitale residenza di Prato ricevette negli anni visite illustri, come Francesco Gonzaga, Leonardo Dandolo, ambasciatore di Venezia, e il re Luigi II d’Angiò, di passaggio a Prato, che gli concesse di fregiarsi del giglio di Francia nello stemma.
[11] Archivio di Stato di Prato, Fondo Datini, filza 1004, lettera Venezia-Valenza del 19 luglio 1409, cc. 335ss.
[12] A.S.V., Misti. Senato, 48, cc. 285v-286r.
[13] Le lettere dei dogi sono state ampliamente trattate da Hagemann in Le lettere originali dei dogi Ranieri Zeno (1253-1268) e Lorenzo Tiepolo (1268-1275) conservate nell’Archivio diplomatico di Fermo, in Studia Picena, 25, Fano, Tip. Sonciniana, 1957, pp. 96 e 109.
[14] G. Rösch, Giovanni Dandolo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 32, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1986. Era figlio di Giberto e di Maria, entrambi membri dell’illustre famiglia Dandolo ma appartenenti a rami differenti. Pare che suo nonno si chiamasse Giacomo, pertanto non sembrano veritiere le tradizioni che lo vorrebbero nipote del vicedoge Raniero e bisnipote del doge Enrico. Il 25 marzo 1280 successe a Jacopo Contarini nella carica di doge. Durante il precedente governo la Serenissima era stata impegnata in numerosi eventi bellici a cui il Dandolo cercò sin dall’inizio di porre rimedio. Proprio nel 1281 stipulò un trattato di pace con Ancona, mettendo fine, almeno provvisoriamente, agli annosi contrasti con la città marchigiana. Dovette invece continuare la guerra contro le città istriane che si erano ribellate a Venezia contando sul sostegno del conte di Gorizia e del patriarca di Aquileia. Sotto di lui Isola (1281) e Pirano (1283) tornarono nell’orbita delle Repubblica e nel 1285 venne conclusa una pace; ciononostante, il conflitto riesplose qualche tempo dopo e si concluse definitivamente solo durante il dogato successivo. Il Dandolo ebbe difficili relazioni con papa Martino IV. Nel 1281 il doge si era impegnato con la Curia romana a progettare con Carlo d’Angiò e Filippo III di Francia una crociata contro l’Impero Bizantino, tuttavia la Repubblica perse ogni interesse quando i rapporti con Costantinopoli tornarono nella normalità (e anche perché la rivolta dei Vespri siciliani aveva messo fuori gioco gli Angioini). Il Dandolo arrivò anzi a proibire al patriarca di Grado e al suo clero di predicare in favore dell’iniziativa e, di conseguenza, il pontefice lanciò l’interdetto su Venezia. Nessuna delle due parti si impegnò a cercare un compromesso e l’interdetto rimase in vigore per tutto il pontificato di Martino. Solo nel 1286 papa Onorio IV lo tolse; anzi, i rapporti tra Venezia e la Chiesa migliorarono così tanto che nel 1289 le due parti si accordarono per l’introduzione nella Repubblica del tribunale dell’Inquisizione. In ambito economico, si assisté al tentativo veneziano di intrattenere commerci con l’Europa centrale: il governo si impegnò in particolare a migliorare la via del Brennero che garantiva i collegamenti tra la Repubblica e la Germania. Fondamentale fu, nel 1284, l’introduzione del ducato, la prima moneta d’oro veneziana, che facilitò gli scambi più consistenti. Per quanto riguarda l’amministrazione interna, nel 1280 il Dandolo si occupò della revisione degli statuti veneziani, emessi nel 1242 dal doge Jacopo Tiepolo e ancora privi delle successive disposizioni del Maggior Consiglio. Lavorò, inoltre, a una serie di riforme istituzionali convocando un’apposita commissione di giuristi (1282-1283).
Nel complesso, la storiografia veneziana considera il dogato del Dandolo un periodo di crisi. Venezia risentì delle tensioni scatenate dall’interdetto e delle guerre, specialmente a livello di finanze statali. In aggiunta, la città fu sconvolta da una serie di calamità naturali: nel 1285 un disastroso terremoto provocò crolli e vittime e qualche tempo dopo un’acqua alta eccezionale penetrò nei magazzini distruggendo grandi quantità di merci; la conseguente carestia spinse il doge a deliberare di vendere sottocosto i beni alimentari conservati nelle riserve pubbliche. Morì il 2 novembre 1289.
[15] F. Raffaelli, Serie cronologica dei consoli dei giudici, dei vicarii, dei signori, e dei podestà di Fabriano dal secolo 12. all’anno 1607 e dei governatori prelati e secolari dal 1610 al 1859; raccolta ed ordinata per il marchese Filippo Raffaelli de’ signori di Colmullaro con annotazioni storiche ed appendice diplomatica, Recanati, Tipografia Badaloni, 1859, p. 36.
[16] In quegli anni ricopriva il patriarcato Elias Peleti. Fu prima vescovo di Perigueux in Francia. A tal proposito si veda: D. Calcagno, Il patriarca di Antiochia Opizzo Fieschi, diplomatico di spicco per la Santa Sede fra Polonia, Oriente Latino e Italia del XIII secolo, in I Fieschi tra Papato e Impero, Atti del convegno (Lavagna, 18 dicembre 1994), a cura di D. CALCAGNO, prefazione di G. AIRALDI, Lavagna 1997, pp. 145-268; K. Eubel, Hierarchia catholica Medii aevi, sive Summorum pontificum, S.R.E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series: e documentis tabularii praesertim Vaticani collecta, digesta, Monasterii, sumptibus et typis Librariae regensbergianae, 1913-1923, pp. 275 e 397.
[17] E. Coche De La Ferte, Deux camées de Bourges et de Munich, le doge Ranieri Zeno et la Renaissance paléochrétienne a Venise au 13e siècle, in Gazette des beaux-arts, mai 1960, pp. 257-280. Dopo la morte di Federico II di Svevia (13 dicembre 1250), il dominio imperiale a Fermo decadde e venne eletto podestà nel 1251 il vescovo Gerardo da Massa, ma verso la fine dello stesso anno fu chiamato in città a ricoprire la carica il veneziano Ranieri Zeno. Inoltre la carica venne reiterata anche per l’anno successivo. Dai documenti d’Archivio si evince quanto il suo regno sia stato energico e quanto fu apprezzato dai fermani. Alla morte del doge Marino Morosini, il 25 gennaio del 1253 fu chiamato proprio il podestà di fermo a ricoprire la carica dogale. Il comune di Fermo riconoscente dell’opera svolta dal veneziano, scelse come successore alla carica di podestà suo nipote, Andrea Zeno. Ranieri Zeno nella lettera del 9 gennaio 1255 esprime tutta la sua gratitudine alla città del Girfalco e ricorda con nostalgia il bel periodo lì trascorso. Per gli avvenimenti menzionati si vedano: Cronache della città di Fermo; pubblicate per la prima volta ed illustrate [da] Gaetano De Minicis vice presidente della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie della Toscana, dell’Umbria e delle Marche: colla giunta di un sommario cronologico di carte fermane anteriori al secolo 14. con molti documenti intercalati a cura di Marco Tabarrini segretario della detta R. Deputazione, Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., 1870, pp. 408; 410-411; R. De Minicis, Serie cronologica degli antichi signori de’ podesta e rettori di Fermo dal secolo ottavo all’anno 1550 e dei governatori vicegovernatori e delegati dal 1550 al 1855, Fermo, Paccasassi, 1855, pp. 34-35; Fermo, Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Fermo, Perg. n. 1800; Fermo, Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Fermo, Perg. n. 1306.
[18] W. Hagemann, Le lettere originali, cit., p. 96.
[19] Fermo, Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Fermo, Perg. n. 152. Tale lettera è trattata anche in G. Luzzatto, I più antichi Libri consiliari di Fabriano (1293-1327), in Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti, Fano, A. Montanari, 1904, pp. 24-25.
[20] Negli anni 1268-1271 Venezia stava vivendo una crisi annonaria dovuta alla scarsità dei rifornimenti. È dunque comprensibile che essa pensasse a rafforzare i rapporti con Fermo, il cui territorio poteva offrire numerosi prodotti agricoli. Si veda E. Orlando, Venezia e il mare nel Medioevo, Bologna, Il mulino, 2014; si veda anche G. Luzzatto, Storia economica di Venezia dall’11. al 16. Secolo, Venezia, Centro Internazionale delle arti e del costume, 1961.
[21] Il tema della produzione delle arance nel territorio piceno è stato ben affrontato in O. Gobbi, L’agricoltura picena in età moderna, in “Proposte e ricerche”, 48(2002), pp. 49-70. Nei libri del Paccaroni spesso ricorrono i nomi dei prodotti agricoli che da Fermo arrivavano a Venezia. A tal proposito si veda: A.S.F.e., cod. 1005.
[22] A.S.V. Commemoriali, XI e XIII.
[23] A.S.Fe., cod, 1040; perg. 1236; perg. 2285. Di seguito si riporta il testo relativo alle saline: «ad emendum, accipiendum et recipiendum e dictis nobilibus, a quolibet predictorum, omne jus salinarumipsarum quod antecessores eorum actemus haverunt sic et nunc habent, tenent et possidentet et habere et tenere potuerunt et possent vel debentur habere in salium et in jure percipienti, habenti, accipiendi, faceinti de dicti salinis fructus, redditus et proventus qui potueruntet possunt percipi et haberi quacumque ratione vel causa ex dictis positi at quesitis in territorio et districtucastri predicti iuxta flumen Salini et territorio terre Pinne».
[24] Archivio Comunale di Sarnano, Introitus et exitus, a. 1488-1489, in Consilia et reformationes, 2. Cc. 227ss.
[25] Sezione di Archivio di Stato di Camerino, Notarile di Camerino, notaio Antonio Pascucci, n. 176, cc. 39v-40r. «in civitate Firmi et in portu firmano omnes et singulas pelles albas et carfaneas que forent facte et fierent in Civitate firmana et in portu firmano in die sabbati Sancti et a dicto die sabbati sancti usque ad festum carnisprivi et duecentum quinquaginta pelles agnorum inter pelles albas et nigras».
[26] Apparteneva ad una potente famiglia di mercanti, era figlio di Paoluccio di maestro Paolo.