
I ratti invisibili di Fabio Cavalli
Considerazioni sulla peste in Europa nel Medioevo e nella prima Età moderna.
Epidemia e sporcizia: un binomio caro a molti storici e che per molte malattie infettive, quali per esempio il tifo addominale o il colera, può rispondere a verità (anche se fino ad un certo punto) e che porta necessariamente a pensare le comunità del passato, specie le popolose città del medioevo, come luoghi malsani, infestati da ogni genere di lordura biologica, vivente o no. Città puzzolenti, dove i miasmi (intesi come puzza) erano all’ordine del giorno e i maiali pascolavano liberamente per le strade, i ratti convivevano con l’uomo al pari dei pidocchi, delle pulci, delle blatte e delle zecche, dove i bagni pubblici quando c’erano servivano principalmente per relax se non proprio da bordello 1. Insomma Firenze o Verona o Siena nel Trecento sarebbero state una specie di Calcutta o di Bombay d’epoca coloniale: immaginiamoci quindi cosa dovessero essere state Londra o Parigi, dato che le città italiane dovevano rappresentare un modello organizzativo particolarmente evoluto. Che poi ci fosse un’organizzazione e una cultura della pulizia cittadina presente negli Statuti, nella letteratura e nella corrispondenza privata dell’Italia del medioevo e della prima età moderna, questo evidentemente è un dato secondario 2. Se da un certo momento in poi si muore di peste, se i medici elaborano la teoria dei miasmi (qualunque essa sia), è chiaro che la città o il villaggio o la campagna dovevano essere ricettacolo di ratti, parassiti e putrefazioni. Tutto questo in un periodo, peraltro lunghissimo, di ignoranza microbiologica, base indispensabile della moderna igiene.
In un’epoca che precedeva di molto l’osservazione microscopica dell’infinitamente piccolo e di parecchio le prime congetture sul “contagio vivo”, i bacilli non potevano trovare posto nello schema interpretativo della peste. E nemmeno potevano trovare posto i topi e le pulci, nonostante che la loro presenza fosse un dato macroscopico. Però non era un dato fuori dalla norma, la loro presenza non era patologica; era anzi fisiologica a un metabolismo cittadino in continuo svolgimento tra magazzini e cloache, tra granaglie e canali di scolo, tra approvvigionamento di cibo e smaltimento di rifiuti. Medici e non medici non prestavano attenzione a questa fauna domestica, che non rappresentava un’anomalia da spiegare. Non si poteva pensare a essa come una possibile causa o concausa esplicativa. Però i topi non erano senza rilevanza nell’inconscio collettivo: pur senza sapere quanto potessero essere pestiferi, la favola nordica del pifferaio Hamerlin già li indicava come ospiti indesiderabili e insidiosi dai quali era bene liberare la città 3.
1 Per i bagni pubblici cfr. P. BRAUNSTEIN, Dal bagno pubblico alla cura corporale privata: tracce per una storia sociale dell’intimo, in «Ricerche storiche», 16 (1986), pp. 523-524.
2 Per il problema delle acque e in generale della pulizia cfr. R. MUCCIARELLI, L. VIGNI E D. FABBRI, Vergognosa immunditia. Igiene pubblica e privata a Siena dal medioevo all’età contemporanea, Siena 2000; P. SQUATRITI, Water and society in early medieval Italy AD 400-100, Cambridge 2002 e, seppure con qualche cautela, D. BIOW, The Culture of Cleanliness in Renaissance Italy, New York, 2006.
3 G. COSMACINI, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità ad oggi. Bari – Roma, 1997, p. 208
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Articolo pubblicato su «Quaderni Guarneriani», 6 (nuova serie), 2015, pp. 113-140

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