I russi della Rus’ di Kiev sfidano Costantinopoli di Gladis Alicia Pereyra
“All’estinguersi della rivolta subentrò dunque una guerra barbarica. Una quantità per così dire innumerevoli di battelli russi, eludendo o forzando la barriera dei guardacoste, che le tenevano a bada, guadagna la Propontide…” Michele Psello inizia così a raccontare il conflitto che vide coinvolte La Rus’ di Kiev e Bisanzio nel 1043. Affianco del basileus Costantino IX Monomaco, di cui era segretario personale, lo storico fu testimone degli scontri tra le due flotte, avvenuti davanti al faro di Costantinopoli sulle acque del Bosforo e su quelle della Propontide, antico nome del Mar di Marmara.
Ma chi erano questi russi? Lo spiega Liutprando da Cremona, vescovo di Pavia, uno dei più noti e interessanti scrittori del X secolo, nel V libro della sua Antapodosis (La restituzione) “I greci chiamano russi per la peculiarità del loro corpo, quel popolo che abita a settentrione e che noi invece chiamiamo Normanni dalla posizione del loro territorio. Nella lingua dei Teutoni aquilone si dice nord e uomo man, quindi Normanni significa uomini del settentrione”.
I Normanni di cui parla Liutprando erano un popolo norreno della penisola scandinava, chiamati variaghi dai Bizantini, che migrarono verso sud est occupando i territori delle attuali Ucraina, Bielorussia e nord est della Russia.
Nell’882 il principe variago Oleg conquistò Kiev e spostò la capitale del Principato da Novgorod nella città appena conquistata, nacque così il Principato della Rus’ di Kiev. Il Principato era un conglomerato di tribù in maggioranza slave, ma anche finniche, baltiche e di genti della steppa, su cui regnava un’elite di variaghi, i Rus.
Rus era il termine usato dagli slavi per indicare i variaghi o normanni. La parola, non slava, era stata mutuata dal baltico-finnico e traeva origine dall’antico norreno rodhr, poi rods-menn, “uomini che remano”. Dall’appellativo dato alla nobiltà variaga, insediata nel governo del Principato, derivò quello degli abitanti, che furono chiamati russi.
Oleg I di Kiev si dedicò a unificare il territorio sottomettendo e rendendo tributarie dello stato certe popolazioni slave, restie ad accettare il dominio dei variaghi. La sua opera più importante fu la costruzione della strada che univa la Scandinavia e la Rus’ di Kiev con Bisanzio -la Strada dei Variaghi-, mettendo in comunicazione il Mar Baltico con il Mar Nero.
Lungo quella strada, più precisamente lungo i fiumi che in prevalenza la costituivano, scorrevano gli scambi commerciali tra i due stati, la stessa strada che in più occasioni servì a Kiev per portare la guerra sotto le mura di Costantinopoli.
Il primo tentativo di aggredire Costantinopoli, risale all’860, al tempo la Rus’ di Kiev era un kaganato e la Strada dei Variaghi non esisteva ancora, ma esisteva una strada naturale: i fiumi. Causa della spedizione sembra fosse stata l’edificazione della fortezza di Sarkel sulla riva del Don, intrapresa dai Cazari per impedire a Kiev di utilizzare il portage tra il Don e il Volga. Costantino VII Porfirogenito, nel suo “De amministrando Impero”, scrive che i Cazari si rivolsero all’allora Basileus Teofilo per chiedergli di aiutarli nella costruzione. L’aiuto fu concesso e in cambio Bisanzio ottenne Chersonesso nella Crimea, dove più tardi avrebbe insediato un Tema. Lo scontato risentimento di Kiev si fece sentire più tardi, durante il regno di Michele III. Con una flotta di navi leggere, le leggendarie drakkar vichinghe, gli uomini del Kaganato tentarono di attaccare Costantinopoli dal mare. L’obiettivo, tuttavia, era troppo ambizioso per le forze a loro disposizione e dovettero limitarsi a saccheggiare i dintorni, prima di ritirarsi.
Il secondo tentativo avvenne nel 907 quando, una volta consolidato il suo potere, Oleg mosse contro Bisanzio al comando di una forza considerevole di navi e uomini. “La cronaca dei tempi passati” scritta in parte dal monaco Nestor Pecerska intorno al 1116 racconta, tra storia e leggenda, che Oleg inchiodò il proprio scudo su una delle porte di Costantinopoli in segno di vittoria, nonostante non fosse riuscito a spugnarla. Il principe variago poteva legittimamente ritenersi vincitore, dopo che costrinse il Basileus Leone VI a pagare un consistente riscatto in oro per fermare le devastazioni che il suo esercito perpetrava nei dintorni di Costantinopoli, mettendo a rischio la stessa capitale. La pace tra i due stati fu siglata con il trattato del 911.
Non ci sono dubbi sull’esistenza di un tale trattato e, nonostante ne manchino attestati in lingua greca, grazie ancora alla “Cronaca dei tempi passati”, sappiamo che le clausole disciplinavano principalmente i rapporti tra i due stati per quanto riguardava il commercio e il soggiorno dei mercanti russi a Costantinopoli, il trattamento cui avevano diritto e i divieti che dovevano rispettare. Ai mercanti della Rus’, all’epoca veri vichinghi, che dovevano affrontare un viaggio pericoloso lungo il Dnepr sulle loro leggere e veloci navi e che senza dubbio viaggiavano armati, si vietava di portare le armi in città, oltreché di ubriacarsi, di provocare risse e di violentare le donne.
L’accordo, conseguenza dell’azione militare della Rus’ che aveva costretto Leone VI a negoziare, era inevitabilmente favorevole ai russi. Ma anche Bisanzio ricavò vantaggi dal trattato, in termini di approvvigionamento di materie prime e di aiuto militare nella campagna contro gli arabi.
Un’altra spedizione dei Rus contro Costantinopoli si verificò nel 941. Al tempo Principe della Rus’ era Igor di Kiev – Ingvar in norreno, Liutprando lo chiama Inger -, successore di Oleg di Kiev che, secondo alcune fonti sarebbe stato reggente durante la minore età d’Igor, figlio di Rjurik di Novgorod, principe vairago capostipite della dinastia Rjurikidi. Altre fonti sostengono, invece, che Igor fosse figlio di Oleg.
Con 40.000 uomini e 1000 lodie, le navi di Kiev che, grazie al ridotto pescaggio, potevano muoversi agevolmente anche in acque poco profonde, Igor si presentò sul Bosforo davanti a Costantinopoli e si dedicò a devastarvi i dintorni vicini al mare. La flotta di Bisanzio era impegnata nella guerra contro gli Arabi e il nuovo pericolo prese in contropiede Romano I Lecapeno, allora Basileus di Bisanzio. Liutprando da Cremona racconta che Romano ordinò che fossero riparate le quindici navi rimaste in porto perché danneggiate e che sulla prua, la poppa ed entrambe le fiancate, fossero sistemati i sifoni lancia fuoco. Il fuoco greco o marittimo era una micidiale miscela di nafta, solfo e calce viva -la cui invenzione è attribuita a Callinico di Eliopoli intorno al 673 della nostra era e descritta da Leone VI il Saggio nel suo trattato militare “Tattica” – che, lanciata da appositi sifoni contro le imbarcazioni avversarie, produceva un fuoco impossibile da spegnere. Con le poche navi che erano riusciti a calare in mare, i bizantini andarono incontro all’ingente flotta del Principato. Igor, confidando in una facile vittoria, mandò le sue lodie a circondare l’esigua flotta nemica. Una volta accerchiate, le navi di Bisanzio misero in azione quei precursori dei moderni cannoni lanciando il fuoco tutto attorno e incendiando le navi di Kiev. I russi cercarono salvezza lanciandosi in mare, ma l’acqua non spegneva il fuoco greco e le fiamme l’inseguirono tra le onde. Bruciati o inghiottiti dal mare, la maggioranza dei russi non ebbe scampo. Si salvarono soltanto quelli che, non raggiunti dal fuoco, nuotando guadagnarono la costa, ma i bizantini li aspettavano al varco e furono fatti prigionieri. Igor, grazie all’esiguo pescaggio delle lodie, riuscì a passare sulle acque poco profonde dove le navi bizantine non potevano inseguirlo e fuggì con la parte della flotta risparmiata dal fuoco. Romano ordinò che i prigionieri fossero decapitati. La sentenza fu eseguita alla presenza del messo di Re Ugo, che era il patrigno di Liutprando.
Liutprando racconta, forse, la tappa decisiva della campagna del principe Igor contro Costantinopoli che fu più lunga ma, nelle notizie arrivate da altre fonti, l’esito finale non cambia.
Nel 945, Igor preparava una nuova spedizione contro Bisanzio. All’epoca sul trono di Costantinopoli sedeva un intellettuale, Costantino VII Porfirogenito, autore di “De ceremoniis aulae byzantinae” e del già menzionato “De amministrando impero”, il quale prima di affrontare una nuova guerra con Kiev, preferì la pace e offrì al bellicoso Igor un nuovo trattato.
Sembra che il trattato del 911 non fosse più in vigore per colpa di un mercante russo che, violando il divieto di portare armi durante il soggiorno a Costantinopoli, uccise in una rissa un mercante bizantino. In realtà le cause vanno cercate nella cambiata situazione dei rapporti tra Bisanzio e il Principato dopo la disastrosa campagna d’Igor del 941.
Le clausole principali del nuovo trattato riguardavano gli scambi commerciali tra i due stati. Ai russi interessava soprattutto accedere al ricco mercato di Costantinopoli per comprare quelle mercanzie introvabili altrove. Il nuovo trattato dava loro la possibilità di acquistare una certa quantità di merci -stoffe di seta e tessuti tinti con la porpora- la cui esportazione era proibita. Il limite per acquistare queste merci era di 50 pezzi d’oro per ogni mercante, sul resto dei prodotti non vigevano divieti. I mercanti di Kiev scendevano con le loro navi lungo il corso del Dnepr, portavano legno, miele, lino, la preziosa ambra, schiavi e tante materie prime necessarie agli artigiani della capitale. Molti arrivavano per arruolarsi nella temibile Guardia imperiale chiamata, appunto, dei Variaghi delle accette perché quegli alti e biondi stranieri portavano appesa sulla spalla destra l’accetta vichinga a un solo filo. Le accette vichinghe erano le migliori che si trovavano sulla piazza.
I russi si stabilivano fuori città nel quartiere di Santa Manna e durante il soggiorno si recavano al mercato accompagnati da un funzionario imperiale. Tutte le merci da loro acquisite per l’esportazione dovevano essere sigillate dai funzionari competenti.
In virtù del trattato, la Rus’ prometteva di non attaccare Chersonesso, dove già esisteva un Tema ed era la sede amministrativa per gli affari di Bisanzio con il Settentrione e per i contatti con l’Oriente. La foce del Dnepr era gestita in comune da entrambi gli stati, ma era proibito ai russi di svernarvi e di attaccare i pescatori e, a fin di evitare brutte sorprese, ogni nave della Rus’ diretta a Costantinopoli, doveva portare una carta, siglata dal Principe, in cui si specificava la quantità di navi e di persone che componevano il convoglio salpato da Kiev. In assenza di questo documento le navi sarebbero state catturate.
Questo trattato vigeva ancora quando nel 1043 le navi che scendevano lungo il Dnepr non erano cariche di materie prime da smerciare, bensì di armi per attaccare, ancora una volta, Costantinopoli.
Le dinamiche della nuova spedizione del Principato contro Costantinopoli replicavano quelle sperimentate in passato, con analogo risultato.
Il Principe di Kiev, Jaroslav il Grande o il Saggio inviò suo figlio Vladimiro, al comando di un’ingente flotta di lodie, a tentare l’assedio della capitale bizantina. Come nei tentativi precedenti, Kiev approfittò dell’esigua disponibilità bizantina di navi da guerra, dovuta a un incendio scoppiato il 6 agosto del 1040, che aveva in pratica distrutto la flotta. Il basileus Costantino IX Monomaco ordinò, come Romano I in simili circostanze, di raddobbare le navi meno danneggiate dall’incendio, di affiancarle delle altre già adibite al trasporto e di attrezzarle con sifoni lancia fuoco. Prima di dare inizio agli scontri, Vladimiro di Kiev pose come condizione per ritirarsi, il pagamento di mille stateri d’oro in contanti a ogni nave. Psello così commenta la richiesta degli invasori: “Tali le loro pretese, o che fossero persuasi che da noi le fontane versassero oro, o che fossero decisi a battersi ad ogni costo…” L’imperatore radunò la sua esigua flotta davanti a quella nemica nella rada del porto e lui stesso, insieme alla parte più illustre del Senato, attese a bordo di una nave alla fonda per tutta la notte. Alle prime luci dell’alba il Basileus schierò le imbarcazioni in formazione di battaglia e si ritirò con i suoi accompagnatori, tra i quali c’era Psello, su di un’altura vicina al faro, da dove si poteva assistere allo scontro. Vladimiro, a sua volta, fece muovere la flotta dalla costa opposta del Bosforo, dove aveva pernottato all’ancora, verso il centro dello stretto e dispose le unità una accanto all’altra a formare una catena che occupava l’intero specchio d’acqua. I due schieramenti rimassero immobili per gran parte del giorno finché Costantino ordinò a due navi da guerra di avanzare a velocità ridotta. E, ancora una volta, i russi caddero nella trappola e inviarono un nutrito numero di battelli incontro alle navi bizantine e le circondarono, cercando di perforarne gli scafi con le lance. I bizantini risposero con pietre e giavellotti, prima di mettere in azione i sifoni e vomitare fiamme e fumo sui nemici che disorientati fuggirono verso la propria flotta. A un secondo segnale dell’imperatore, si mosse una parte della flotta, subito affiancata dal resto delle navi.
A peggiorare la critica situazione dei russi si scatenò una violenta tempesta. Le onde imbizzarrite scaraventavano le fragili lodie di Kiev contro gli scogli, mentre le navi bizantine, in grado di far fronte ai cavalloni, le inseguivano lanciando fuoco sui loro ponti. La debacle degli invasori fu totale, le navi risparmiate dalla tempesta e dal fuoco, furono abbordate dai bizantini e affondate, dopo aver trucidato gli equipaggi. “Si fece grande eccidio di barbari ed un flusso vermiglio, quasi di fiumi lontani, insanguinò il mare”. Conclude così Psello il racconto di quel tragico evento. Fu l’ultimo tentativo di Kiev di assalire Costantinopoli. In futuro la Rus’ di Kiev fu il principale alleato di Bisanzio nel nord d’Europa. I pagani variaghi avevano rinnegato il loro panteon norreno e abbracciato il cristianesimo ortodosso, dando spazio alla crescita dell’influenza culturale bizantina nel Principato. Sembra che Nestor Pecerska, il già menzionato monaco del Monastero delle Grotte di Kiev, abbia tenacemente lottato per preservare le antiche tradizioni nordiche dall’egemonia culturale bizantina.
Michele Psello chiama, nel suo sdegno di parte, tribù barbara il Principato della Rus’ di Kiev, dimenticando che lo stesso Costantino IX, qualche anno dopo la tentata invasione, diede in moglie al Gran Principe Vsevolov I di Kiev la figlia Anastasia, che fu madre di Vladimir II di Kiev detto Monomaco. Prima di lui, Basilio II aveva concesso la mano della sorella Anna a Vladimiro I Gran Principe di Kiev. Secondo la tradizione in virtù del matrimonio Vladimiro si convertì al cristianesimo ortodosso.
Nel X e XI secolo Kiev era una delle capitali più importanti d’Europa. Molte teste coronate europee chiedessero in moglie principesse dei Rus. Anna di Kiev fu moglie di re Enrico I di Francia e reggente durante la minore età del figlio Filippo I, la sorella Anna sposò Herald III di Norvegia e Anastasia fu moglie di Andrea I di Ungheria. Le tre principesse erano figlie del Gran Principe Jaroslav I di Kiev, lo stesso principe regnate durante la spedizione dei russi del 1043 contro Costantinopoli, russi che secondo Psello appartenevano a una tribù barbara.
La distruzione di Kiev per mano dei Mongoli nel 1267, diede ulteriore spinta alla già iniziata decadenza del Principato della Rus’, da tempo dilaniato dalle lotte intestine e dalla frantumazione del territorio in più principati nemici tra loro. Intorno alla stessa data Mosca, da poco più di un villaggio slavo nel periodo di massimo splendore di Kiev, divenne principato. Era stata messa la prima pietra nella costruzione di quella che sarebbe diventata la nazione Russa.
La Russia celebra da sempre come luogo della propria nascita La Rus’ di Kiev, accreditando l’idea che quello della Rus’ fosse un Principato slavo e passando sotto silenzio il fatto che la parola “russo” deriva da rus, appellativo con cui le tribù slave chiamarono i loro dominatori variaghi. Equivoco storico che ha dato al più grande stato slavo la libertà di autoproclamarsi erede esclusivo del patrimonio storico culturale della Rus’ e, al tempo stesso, conferito parvenza di legittimità al vantato diritto di assoggettare alla sovranità di Mosca altre realtà nazionali, sorte sui territori un tempo occupati dal Principato variago.
L’eredità della Rus’ di Kiev è, invece, patrimonio comune dell’Ucraina, della Bielorussia e della Russia. Quel patrimonio si sviluppò in maniera diversa in ciascuna di queste realtà territoriali, dando origine a tre stati diversi, con una propria identità nazionale, basata sulla lingua, sulle tradizioni e su di un bagaglio storico culturale specifico. Tre nazioni con identico diritto a determinare e gestire liberamente il proprio destino.
Bibliografia
Liutprando da Cremona: “La restituzione” a cura di Alessandro Cutolo
Michele Psello: “Imperatori di Bisanzio (Cronografia)” Volume II Traduzione di Silvia Ronchey
Nicolas Oikonomides: “Un vaste atelier: artisans et marchands”. In “Costantinople 1054 – 1261 Tête de la crètientè, proie des latins, capital grecque”
Matteo Zola: Slavia: La Rus’ Di Kiev, uno stato vichingo. Con buona pace dei Russi”
La Rus’ di Kiev, l’origine di Russia e Ucraina. In Storica. National Geographic
Enciclopedia Treccani on line
Gladis Alicia Pereyra
è nata in Argentina da madre italiana e padre argentino, vive e lavora a Roma dal 1973.
Ha pubblicato il romanzo “Il cammino e il pellegrino” (Manni 2011). Nello stesso anno, il romanzo è stato finalista al Premio Italia Medievale, promosso dall’Associazione Italia Medievale e medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica e nel 2012 al Premio Firenze. Il manoscritto di questo romanzo ha fatto parte della cinquina finalista del Premio Letterario all’inedito Palazzo al Bosco.
Nel 2012, un suo racconto “Il suicidio” è stato premiato nel XX Concorso Letterario Internazionale indetto dall’Accademia Letteraria Italo – Australiana Scrittori, A.L.I.A.S. di Melbourne.
La sua monografia “Storia e storie della cucina argentina” fa parte del volume “Piante cibo del mondo” a cura di Mimma Pallavicini, pubblicato a settembre 2014, in occasione della XIV Edizione di Murabilia – Murainfiore mostra botanica che si svolge annualmente a Lucca.
Ha scritto articoli e piccoli saggi di storia medievale per la rivista on-line dell’Associazione Culturale Clara Maffei e ha collaborato con il sito dell’Associazione Culturale Italia Medievale.
Nel 2015 è uscito il suo romanzo “I panni del saracino” edito da Piero Manni Editori.
E-mail: pereyra.gladis@gmail.com
Web: www.gladisaliciapereyra.it