I Varjaghi nella Pianura Russa

I Varjaghi nella Pianura Russa di Aldo C. Marturano

Gran parte della gente che oggi abita nelle varie nazioni europee, compresi logicamente i russi e gli affini slavi e non slavi del nordest europeo, ha vissuto nel Medioevo dello sfruttamento, agricolo e non, praticato ai margini di un’enorme porzione di territorio coperta da  foresta tanto che, se dovessimo colorare i raggruppamenti agricoli diciamo col color rosso su una carta geografico-storica del XII-XIII sec. d.C., li noteremmo non proprio numerosi, ma anzitutto come dei piccolissimi punti sparsi in un mare di alberi.
Dal folclore contadino che possiamo subito chiamare paneuropeo perché rispecchiantesi molto simile nei contenuti nelle favole locali d’Europa sappiamo che le stesse genti percepivano la presenza dell’ecosistema forestale come un’incombente minaccia e cioè come un luogo misterioso infestato da altri esseri non troppo umani e persino non umani, da animali feroci e mostri, da dèi e folletti con i quali occorreva patteggiare, allorché ci si volesse addentrare. E l’uomo medievale era educato a convivere con tali entità e in più a prendere su di sé il dovere di conservarle e difenderle come si fa con parenti e affini di una grande famiglia attraverso riti, feste sacrificali e tabù vari.
L’ambiente-foresta restava malgrado ciò parte del macrocosmo da cui si traeva non soltanto legna da ardere per cucinare e per scaldarsi e ogni tipo di materiale per costruirsi una casa, arnesi e altro, ma pure cibo pronto al consumo e foraggio per gli animali domestici, amici più intimi dell’uomo. Ad esempio i porci in autunno erano mandati nel fitto a pascolare e a copulare col verro selvatico per migliorare così la razza e la carne che se ne ricavava e il cinghiale pertanto non era un animale da cacciare… da temere, certo!, ma da rispettare. In breve c’era un intrigo di relazioni complesso e complicato che a quei tempi si credeva logico mantenere sotto il profilo di un rapporto fra persone che, benché diverse nell’aspetto fisico, possedevano i medesimi sentimenti.
Naturalmente dopo secoli di sfruttamento selvaggio il punto di vista delle relazioni uomo-foresta è alquanto cambiato e al presente è diventato più neutro, almeno per quanto riguarda i sentimenti, e la foresta, pur fortemente depauperata di piante e di animali del passato, sta ritornando agli onori della cronaca ed è riconosciuta il fulcro dell’ecologia del pianeta… tanto più a noi cara per la parte europea che ci tocca!
Sia come sia, senza dover elencare tutti i prodotti che la foresta forniva (e fornisce) per l’uso e il consumo umano, diciamo che nel Medioevo essa rappresentava un enorme giacimento di materie prime e di risorse alimentari, sebbene la ricerca ininterrotta di terre da coltivare con conseguente deforestazione restasse una violenza al bioma difficile da riparare nel breve termine.
Nel caso specifico della Pianura Russa il terreno da mettere a coltivo non era scelto a caso ai margini o nelle radure fuori o dentro la foresta, anzi! La scelta che i documenti del VII sec. d.C. invitano a attribuire agli Slavi, noti come spericolati contadini, ricadeva su quei suoli che davano delle buone rese giacché, a causa della primitività degli arnesi usati, delle messi andate male potevano significare morte e miseria per molte persone. Guarda caso tuttavia, nella Pianura Russa esistevano dei suoli fertili speciali arcinoti fin dall’antichità: le Terre Nere (russo Černozjòm) o Terre a loess cosiddette ossia suoli di un’argilla tipica che ospitavano un bioma senza tanti alberi, ma con una ricca vegetazione erbacea. Essendo però convertibili senza troppa fatica in terreni a coltivo intenso o mantenuti a pascolo stagionale immediatamente a disposizione, in questo caso pure senza fatica alcuna, erano contesi a sud fra i nomadi pastori della steppa, i raccoglitori più a nord poco sotto il Circolo Polare Artico e da ovest fra gli Slavi agricoltori.
Accadeva così che in certe zone del settentrione della Pianura Russa eliminare alberi e arbusti e con ciò causare l’emigrazione o l’estinzione di una parte di fauna e di flora significava andar contro gli interessi vitali dell’unico abitante umano della zona stessa e cioè del raccoglitore-cacciatore ugro-finnico da ritenere più o meno autoctono. Questi giudicava indispensabile per la propria esistenza (compreso il lato economico) che la foresta rimanesse intatta con la sua fauna e la sua flora e perciò accettava la deforestazione quantunque limitata essa fosse da parte di contadini giunti da chissà dove con enorme diffidenza e ostilità rancorosa (rispecchiata nelle favole locali!).
In conclusione un’eventuale colonizzazione del nord (da parte slava inizierà nel XV sec. d.C. nel lato nordest!) era in principio un passo pericoloso…
E nel sud? Qui il paesaggio silvicolo terminava nelle regioni appena sotto Kiev o sotto Tver’ e cominciava subito la steppa che il pastore trovava ottima per le sue mandrie o greggi e perciò era pronto a difenderla contro qualunque intruso.
Si capisce facilmente che il contadino in entrambi i casi: per il “raccoglitore-cacciatore” e per il “nomade pastore” a nord e a sud, diventava un nemico e quando lo si vedeva attivo in una certa area era spontaneo immaginare, e non a torto, che col suo operare intendesse costringere chi da tempo là abitava a una forzata emigrazione o a un’indesiderata soggezione.
Si può dedurre inoltre che il contadino fosse molto più interessato alla steppa poiché era giusto la steppa la zona delle dette Terre Nere. Il clima appariva più clemente qui e, lo ripetiamo, l’agricoltura era estremamente agevole più che in qualsiasi altra regione europea per la fertilità e per la fatica da spendere. Ecco quindi delle ragioni da rammentare che porrà Kiev perennemente contro i nomadi nei casi che incontreremo nella nostra storia…
Da questa collezione di notizie e riflessioni possiamo concludere che la conservazione della biocenosi forestale rispetto alla biocenosi steppica diventasse finalmente uno dei maggiori crucci di quei varjaghi, slavi e altri che si separarono intorno al VIII sec. d.C. per autodefinirsi di fronte agli abitanti presenti signori di territori con foresta.
Passiamo allora a parlare delle varie élites che ambiscono al potere giacché a partire dal VI-VII sec. d.C. ne vediamo costituirsi una dopo l’altra nelle regioni in cui la Pianura Russa si suddivise. L’élite in generale però – teniamolo sempre presente – vede se stessa destinata non soltanto a sfruttare in esclusiva la foresta e risolvere le sue questioni economiche, ma deve pur sopravvivere e per la sussistenza oltre alla selvaggina – richiestissimo cibo carneo che gli dèi concedono ai nobili permettendo loro la caccia nella foresta – ha bisogno soprattutto delle granaglie/cereali e quindi del surplus che i contadini saranno obbligati a fornire in condizioni di sudditanza. La realtà del contadino slavo trasmessa dai documenti è di famiglie di una decina di persone che ogni 8-10 anni lasciano il vecchio insediamento quando il terreno si è esaurito non avendolo saputo concimare e migrano per fondarne uno nuovo in una nuova radura che hanno già individuato nella foresta adiacente e che è stata preparata per l’accoglienza negli anni precedenti. Con un tal regime di vita, peraltro comune pure in Occidente, come si fa a individuare e raggruppare i propri sudditi intorno alla residenza del potere e – importante nella Pianura Russa priva di strade romane – a portata delle armate in spedizione punitiva contro i sudditi renitenti?
Diverso è il rapporto con la steppa poiché qui delle élites tradizionali già esistono e hanno interessi senz’altro opposti a quelli a cui accenniamo qui sopra. Nella steppa l’economia infatti non dipende dalla foresta, ma dai capi di bestiame e qui il foraggio di cui gli animali si nutrono è già bello e pronto e per forza di cose le ostilità e le divergenze fra la steppa di pastori e Kiev di agricoltori a ben guardare la situazione geografica faranno parte delle faccende kievane e delle sue poche città satelliti nel senso di una conflittualità quasi perenne come vedremo.
Né si può dire che al nord regni la pace assoluta nella gestione dei territori, ma l’unico altro maggior centro di potere, Grande Novgorod, legato in qualche modo a Kiev si costituirà tardivamente (ca. 930 d.C.) e avrà un tipo di élite al potere di carattere oligarchico e repubblicano di impronta bulgara. D’altronde Slavi e Varjaghi vedranno questo nord come luogo di passaggio per l’agognato sud o per la conquista del Mar Baltico e lasceranno spazio allo sviluppo autonomo delle etnie presenti.
È, la nostra, una prima approssimativa distinzione fra le élites che abbiamo preferito introdurre subito giacché i problemi derivati dalle circostanze fin qui descritte erano noti, condivisi e in parte risolti, ad esempio, nell’ambito dell’Impero Romano il quale ultimo poteva servire da modello di stato da imitare e quindi a cui aspirare.
Siccome la nostra ricerca è focalizzata su Kiev, si comprende bene che la nostra attenzione si volga ora a Roma/Costantinopoli e all’Impero Carolingio e possiamo già prevedere che consigli e consulenti da questi think-tanks dell’epoca dovessero essere richiesti e benvenuti presso l’élite kievana, non appena essa opterà per lo stato slavo-russo detto Rus’ di Kiev.
Una domanda sorge adesso spontanea: L’élite kievana quali tradizioni/ideologie assommava in sé, viste le diverse etnie conviventi che abbiamo nominato? E come individuarne la composizione etnica – fattore importante per la realtà russa – prima ancora che essa stessa si dichiari élite al potere nella congerie multietnica della Pianura Russa?
Ovviamente dobbiamo indagare fra i gruppi che hanno lasciato tracce riconoscibili delle loro frequentazioni e fra questi c’è la mafia varjaga che appare sotto forma di bande armate. Essa è già per sua natura un nucleo a tendenze elitarie giacché quando “invade” la Pianura Russa è spinta dall’unico desiderio di consolidare un proprio angolo di potere qui e là dove vivere al meglio delle risorse locali, indipendente e sovrana.
Quando la soluzione globale per l’esercizio del potere, esemplificata tanto bene dall’organizzazione romano-cristiana intorno alla figura mitica dell’Imperatore che alcuni personaggi varjaghi assaporeranno stando a suo servizio, sarà capita nel suo funzionamento, il passo è breve per decidere di emularla. D’altra parte, se tale sistema funzionava da secoli, perché non lo si poteva adeguare a uno stato con a capo un varjago? Roma sul Bosforo ha i migliori esperti ed è pronta a offrirli alle élites che si siano seriamente decise di entrare nel Commonwealth Cristiano.
In più il personaggio imperatore si afferma essere investito del potere su genti e paesi da un dio superiore invincibile e padrone del mondo e condivide tale potere col rappresentante di quel dio ossia col capo religioso cristiano o Patriarca che controlla che tutto fili liscio. Anche qui risulta allettante per un varjago pagano adottare un nuovo credo per salire a tale gradino non è difficile e il passo è breve… purché il controllo ideologico (religioso) si muova entro certi limiti!
I Bulgari, nella figura del khan Kubrat, con la fondazione della Bulgaria del Danubio, nei documenti nota come Magna Bulgaria comprendente anche Kiev e dintorni, aiutati dal Patriarcato costantinopolitano erano in parte riusciti a creare uno stato di tipo “cristiano”, benché non ancora “imperiale”, come avrebbe auspicato il khan. Ma poi alla morte di Kubrat la Magna Bulgaria si era disfatta e l’esercizio del potere era passato diviso fra due altre élites bulgare: una nella conca del Danubio e l’altra sul medio Volga e ai Càzari ebrei. Tutto ciò era accaduto un paio di secoli prima che la mafia varjaga si dimenasse per creare uno stato con a capo una delle sue bande, ma costituiva un insegnamento teso a capire che cosa non fosse stato applicato del plurisecolare modello cristiano-romano per aver causato un malfunzionamento della Magna Bulgaria.
L’uso pratico della religione cristiana prevedeva riti continui con la partecipazione obbligatoria dei sudditi e questi riti richiedevano dei luoghi appositi (chiese o simili) sparsi nel territorio in numero sufficiente. Nella liturgia cristiana si ripeteva all’infinito il nome del sovrano e l’obbedienza che gli era dovuta e, se non dimentichiamo che il compito primario del prete cristiano era giusto scovare gli abitati più remoti e più reconditi per “evangelizzarli” anche a costo della propria vita, ecco le cose da fare e da non trascurare, come probabilmente aveva invece fatto Kubrat: chiese tante e parroci audaci sotto un capo religioso locale in combutta col potere.
Il discorso non è tanto semplice e, benché ne abbiamo parlato nella prima parte di questa nostra ricerca (Rus’ di Kiev? – 2016, v. bibl.), conviene mettere a fuoco meglio alcune questioni sulle bande varjaghe.
Innanzitutto erano gruppi di maschi riuniti intorno a un capo del tutto provvisorio il quale, procuratasi una nave, l’armava per attraversare il Mar Baltico per dirigersi al sud dove la tradizione insegnava che si potesse trovar da vivere di gran lunga meglio che in Scandinavia. Il gruppo non portava con sé donne e non aveva pertanto alcuna intenzione di mutarsi in un nuovo popolo insediato fra gli altri della Pianura Russa, una volta trovata l’area dove sistemarsi. Non solo! Ogni attività “lavorativa” e “continuativa” era aborrita e l’unica idea, peraltro offerta dal capo come traguardo da raggiungere “sotto la sua esperta guida” (di qui il contratto di adesione tramite un giuramento di assoluta obbedienza nascosto nell’etimo di varjago), era di accumulare ricchezze sottraendole con la forza a chi le aveva. L’antropologo J. Diamond (v. bibl.) ha coniato per il tipo di stato dove tali “intenti” sfociano il neologismo tecnico di cleptocrazia in cui il potere si disinteressa completamente della produzione e dei produttori, ma pretende per sé e requisisce con la forza, diretta o mascherata, il prodotto. E agli inizi della Rus’ di Kiev è giusto questo il tipo di regime che osserviamo.
La cleptocrazia ha bisogno di un’ideologia/religione che la giustifichi con i miti di potentissime entità soprannaturali che passano una parte dei loro poteri a un gruppetto di uomini armati ai quali è affidata la soluzione del problema della convivenza fra estranei, varjaghi con locali o etnia con etnia, e che riduca la conflittualità incanalandola nell’idealistico sacrificio della vita per il bene comune (v. la leggenda della Chiamata di Riurik i suoi fratelli). D’altronde, se seguiamo il cammino dei varjaghi quando toccano i lidi della Pianura Russa, vediamo che le bande abbandonavano le imbarcazioni originarie non più adatte alla navigazione sui fiumi e a questo punto un’arma di ricatto che il capo-armatore aveva avuto per guidare l’avventura e cioè il mezzo per tornare i patria ricchi e gloriosi cadeva. Rimanere ora da capobanda e non correre il rischio di essere spodestato e rimpiazzato significava esaltare al massimo il traguardo dell’impresa originaria con nuove promesse di successo sempre più fantastiche. Nessun ruolo di preminenza era mai stato formalizzato o garantito al momento della partenza dalla Svezia e la facoltà di capobanda si acquisiva e si confermava con l’abilità di vincere gli ostacoli con le armi giuste, ma prima di tutto usando l’intelligenza per raggirare e persuadere sfruttando, senza mai svelarle, le informazioni possedute sui paesi stranieri. In questo modo, efficacissimo all’epoca della propaganda parlata che diventava leggenda e storia infiorata (v. le saghe islandesi!), il capo poteva ancora esercitare un potere e un comando sui “suoi congiurati” (etimo di varjago da väringar in norreno o compagno giurato).
Il capo varjago è perciò una persona magica e divina, investito dagli dèi di una missione trascendentale. Da queste divinità ha ricevuto oltre alla missione,  i dati per portarla al termine con successo e ricchezza per tutti. Sa benissimo prevedere e assicurare ogni futuro sviluppo nelle azioni che ha pianificato per l’avvenuta intrapresa.
Si badi bene che queste posizioni di pensiero erano moneta corrente già nella patria svedese quando si parlava con i mercanti stranieri e si pensava ai viaggi da fare e ce lo documenta sant’Ansgario del Vescovado di Brema-Amburgo che frequentò Birka tentando di battezzare i pagani abitanti scandinavi. Di certo i progetti dell’impresa oltremare erano gelosamente custoditi nella mente e magari alcuni erano impossibili e improbabili, ma i capi non li dividevano con nessuno o, dividendoli, li comunicavano a pochissimi intimi. Insomma niente di nuovo sotto il sole…
Ciò detto, si tratterà ora di combinare questo abito mentale con i modi di vedere il mondo delle genti di un territorio e la sua natura e la gestione meno costosa di queste realtà.
Il primo passo che fecero i varjaghi che si affermarono in due o tre aree fu di trasformarsi in dinastie sacralizzate che offrivano la “polizza assicurativa di difesa eterna” contro le altre bande loro congeneri, ma marchiate come terribili e malvagie. Noi chiameremo questo modo di presentarsi dei varjaghi col nome più logico: mafia.
Il secondo passo fu, col potere di cui erano ora legittimati, emanare ordinanze e leggi che condannassero e punissero chi fosse sorpreso ad aggirarsi nel folto degli alberi senza permesso. Per la verità quest’ultima misura fa parte piuttosto della storia della foresta europea “occidentale” in tempi abbastanza antichi mentre nel Medioevo Russo apparve tardivamente e il bandito o il bracconiere che andava o abitava in foresta non diventò realtà giuridica prima del XVI sec. d.C.
Con quest’ultima sottolineatura il palcoscenico per il nostro racconto è delineato pur badando a tenerne fissi i confini geografici fra gli Urali e l’Oceano atlantico e fra il Mar Glaciale Artico e la steppa ucraina! Si tratterà ora di trovar gli attori e le vicende che gli stessi attori ci hanno tramandato per permetterci di riflettere sul comune presente.

Aldo C. Marturano

Nato a Taranto, ha studiato nelle Università di Bari, poi di Pavia, infine di Amburgo, dove ha chiuso i suoi corsi di laurea in chimica industriale. Non ha mai lavorato come chimico e ha invece sfruttato le sue conoscenze linguistiche. Conosce infatti (parla e scrive correntemente) russo, inglese, tedesco, francese, spagnolo, ungherese e ne ha studiate un’altra decina che spera di portare a maggiore perfezione nel prossimo futuro. Si è diplomato in Lingua Russa all’Istituto Pusckin di Mosca dove ha avuto inizio la sua avventura nel Medioevo Russo. Lavorando sui mercati internazionali si era infatti appassionato al Medioevo, ma quando scoprì che non riusciva mai a sapere gran che su quello russo, colse l’occasione della tesi all’Istituto Pusckin e scelse di studiare un personaggio del Medioevo bielorusso, Santa Eufrosina di Polozk: di lì via via è entrato in quel mondo magico e nuovo.

Ha pubblicato il saggio storico in chiave divulgativa Olga La Russa, 2001 (che non è la sorella di Ignazio La Russa, per carità!), e poi per i ragazzi L’ombra dei Tartari, 2002, ovvero la saga di Alessandro Nevskii.

Altre sue opere sul Medioevo russo sono visibili nel portale delle Edizioni Atena.

Collabora attivamente con il portale Mondi Medievali curando la rubrica Medioevo Russo.

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