Il comune medievale italiano: un tema da discutere

Effetti del Buon Governo in città, 1338-1340, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

Il comune medievale italiano: un tema da discutere di Mario Ascheri

1. Qualche premessa
Il tema qui esaminato (1) l’ho proposto sin dai primi passi de “Le Carte e la Storia” ormai vent’anni fa, parlando di “ambigua tradizione repubblicana” (che ricordo con piacere essere piaciuta come formula sintetica a Paolo Prodi) e sempre nella stessa sede, due anni dopo, evocando il tema della città-Stato (2) che mi avrebbe portato poi a un volumetto complessivo sul tema.
Passato un altro decennio, l’attualità del tema è sempre viva, anche grazie all’attenzione di una storiografia internazionale agguerrita, sempre rinnovantesi (3).
Perciò è giusto parlarne in convegni specialistici (4), ma anche per una audience più vasta perché non è difficile perdere la sua complessità. C’è una ineliminabile difficoltà di approccio al tema, per la delicatezza delle valutazioni che comporta e la sua conseguente grande visibilità, e non solo in Italia.
Le monografie su singoli comuni così come le sintesi sul fenomeno comunale nel suo complesso sono anche più frequenti oggi di un tempo. Il permanente interesse del tema lo mostra ad esempio la Francia, dove pochi anni fa la città italiana medievale divenne addirittura oggetto precipuo di preparazione per i concorsi per l’insegnamento, oppure la Germania, dove ora il fervore storiografico recente nel nostro Paese ha sollecitato una bella riconsiderazione storiografica approfondita da uno specialista in assoluto della nostra città medievale come Hagen Keller (5), ma anche la Spagna mi ha chiesto un chiarimento sul tema pochi anni fa (6), mentre Maria Ginatempo, in particolare, vi illustrava gli aspetti socio-economici (7).
Ma le valutazioni continuano a essere con sfumature anche vistose, perché il fenomeno comunale produsse fatti molto contraddittori sullo sfondo di discorsi coevi, abbondanti e talora solenni, anche di autocelebrazione delle vicende cittadine (laudes civitatum) con lo sviluppo, dal 1100, di una cronistica addirittura ufficiale, commissionata dalle stesse città (8). Nel complesso si può parlare di una letteratura “comunale”, centrata sulle istituzioni, divenuta (relativamente per il tempo) copiosa dal primo 1200, proprio quando anche la documentazione ufficiale e notarile andò sviluppandosi quantitativamente in modo stupefacente.
Moltissimo fu scritto allora, quindi, e moltissimo è stato scritto sullo scritto di allora e dei secoli successivi, con i propositi e le conclusioni più diverse, a intricare non poco il problema “urbano” italiano. Per semplificare l’accesso a questa problematica giova ricordare per questo, come per ogni altro “episodio” da rivivere e interpretare, che tra mondo dei fatti e mondo delle idee, c’è spesso un gap non indifferente. Queste non hanno purtroppo – ieri come oggi – un compiuto riscontro con i fatti, e in più divengono anche a volte pure ideologie: un complesso di credenze che dominano la coscienza e che possono indurre in credenze anche deformate in tutto o in parte e perciò anche ingannevoli, per sé e per gli altri.
Il fenomeno non desta nessuna meraviglia. Oggi siamo esercitati a discrasie clamorose e, diciamolo pure, spesso anche scandalose, tra idee dichiarate e prassi politiche e sociali effettive, rilevabili “di fatto”. Ebbene, chiaramente i comuni costituiscono una di quelle presenze così pesanti e variegate nella storia italiana che facilmente hanno alimentato già nel loro tempo e poi per secoli hanno continuato ad alimentare idee e ideologie: nel bene e nel male.
Via via il comune è stato esaltato come specificità italiana e come istituzione che comunque in Italia si è sviluppata con caratteri molto peculiari, come realtà alla base della nostra civiltà moderna, essenzialmente urbana o comunque più urbana che altrove, e quindi da riguardare come momento esemplare di vivacità, eventualmente auspicata come da recuperare; oppure, all’altro estremo, esso è stato visto come causa originaria di un municipalismo deteriore e perdurante, di trionfo degli interessi locali contro una considerazione più ampia degli interessi nazionali: cioè come motivo primario di particolarismo, e quindi a ben guardare di freno alle spinte per creare più vitali ordinamenti unitari, e anche nazionali, come avvenuto invece per molte realtà straniere (9).
Interpretazioni opposte tra le quali si sono inserite molte posizioni intermedie, naturalmente. Personalmente, insisto, e non per auto-classificarmi tra le voci più equilibrate, sia chiaro, che il problema preliminare è di volere e sapere distinguere i diversi aspetti (e relativi problemi) del grande tema, perché è altrimenti impossibile uscire da certe impasses interpretative. I vari aspetti di una civiltà molto complessa come quella delle nostre città sono facilmente intrecciabili e confondersi divenendo suscettibili di eccitare facili entusiasmi, oppure condanne altrettanto sommarie proprio per la densità di quella civiltà che si sente talora “in qualche modo” ancora viva. E perciò si teme o si auspica, a seconda dei punti di vista, che abbia anche ancora una sua “attualità”. In poche parole soltanto esaminandone un solo aspetto è impossibile definire quel mondo: lontano, ma “quanto”?
“Quanto” di quella civiltà può essere ancora presente, più o meno sottopelle, nella nostra cultura? Talora, ma non sempre sia chiaro, gli specialisti di storia medievale colgono al volo la possibilità (che si può vivere a un tempo come dovere/privilegio) che hanno di concentrarsi in modo “scientifico” sul periodo oggetto dei loro approfondimenti analitici e possono così scivolare su questioni di lungo periodo, impegnative e imbarazzanti (10).
2. Al tempo delle polemiche antiche
Per di più si tratta di polemiche che non sono affatto nuove, ma che hanno avuto esse stesse una storia complessa. Al tempo delle Signorie cittadine, nel Due-Trecento, ci furono già forti polemiche, perché i Signori, come tipicamente e precocemente gli Ezzelino alleati dell’Impero, avevano imbrigliato le autonomie cittadine nelle aree della loro egemonia e posto fine alle libertà e alle cariche a rotazione e di breve durata ormai divenute tradizionali.
I Signori avrebbero così presto stimolato, indirettamente, a rinverdire la storia romana (11) e i suoi episodi di ribellione al tiranno, presto evocato in opere del primo umanesimo padovano, ad esempio, e anche raffigurato in cicli pittorici divenuti famosi, come nel Buongoverno del Lorenzetti (1338 ca.) a Siena (12).
Ad Arezzo, nella cattedrale dei Tarlati, qualche anno prima il comune era stato raffigurato personificato sia in prigionia (“pelato” dalla corruzione), che in signoria, cioè in “libertà” e nel pieno delle sue prerogative riprendendo il modello che Giotto aveva reso famoso in un affresco purtroppo perduto del Bargello a Firenze.
Mentre erano in piena diffusione nelle università di tutta Europa le ormai tradizionali e opposte dottrine imperiale e papale, che producevano anche atti ufficiali estremamente significativi come la bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, i comuni o almeno alcuni tra di loro soprattutto costruivano da tempo passo dopo passo un ideale politico opposto, anche su ispirazione delle tradizioni antiche, greca e romana – da Aristotele a Cicerone (13) –,variamente complicato, rinvigorito e rivestito dalle ideologie universalistiche guelfa e ghibellina.
Ebbene, questo è l’ideale che è stato riconosciuto dagli storici come l’alternativa repubblicana ai governi monarchici e principeschi, perché basata sul primato della Res publica sia come ente che come universitas collettività civica, anziché sul primato del princeps dell’Impero romano (14). Non a caso si discuteva tanto sul piano teorico intorno al 1200 di iurisdictio, di imperium, più spesso ormai denominato summa potestas, o plenitudo potestatis, insomma di potere sovrano, si direbbe oggi; ebbene, ci si chiedeva di fronte alla prepotente esplosione della potenza urbana qua e là, fino a che punto esso era stato dal popolo romano delegato all’imperatore senza possibilità di revoca da parte del suo iniziale detentore? E in che rapporti era con la suprema giurisdizione ora pretesa in modo prepotente dal pontefice di Roma come vicario di Cristo? Quando è che un potere pubblico, abuso dopo abuso, deteriorandosi si trasforma in potere tirannico lo si discusse persino in talune aule giudiziarie venete a fine Duecento dopo la caduta di un tiranno! (15)
Il potere direttamente o meno di origine divina si esercita, si diceva, grazie allo officium ricoperto, come già nel diritto romano e ora anche nel diritto canonico che in gran parte ne dipendeva sul piano concettuale e contenutistico; quindi, con un corredo di diritti ma anche di doveri che erano stati ed erano ancora oggetto di infinite discussioni perché profondamente radicati sia nella tradizione politico-culturale greco-romana, specie nella declinazione stoica, che in quella ebraico-cristiana (16).
Di qui l’idea di un rapporto di “consenso” necessario tra governanti e governati, più o meno esplicitato e più o meno largo nei diversi contesti, ben presente nella tradizione ereditata dall’alto medioevo dai nostri comuni. Già nella monarchia carolingia i momenti pattizi erano stati espliciti, come lo erano divenuti nel rapporto tra il signore feudale e il vassallo beneficiario dei diritti concessi e nelle comunità rurali – come tipicamente nel famoso caso di Nonantola di metà del 1000 (17).
Si davano benefici per riceverne: in un do ut des che coinvolgeva diritti sulla città, le sue mura e i suoi dintorni, che oggi riteniamo pubblici. Il che avvenne largamente durante la grande crisi dell’Impero carolingio, apertasi dopo che un sovrano fu deposto per non essere stato – si badi – all’altezza dei suoi doveri, del suo officium. Insomma un caso di dimissioni “incoraggiate”, come si suole dire oggi, un fatto sempre difficile, come ben sappiamo anche di fronte alle responsabilità più gravi (18).
3. Le tappe più significative
Allora si avvertì che bisognava voltare pagina: bisognava trovare altre soluzioni per rispondere al vuoto di potere che il largo bisogno di sicurezza collettiva alimentava di fronte alle scorrerie normanne, ungare, saracene. E bisognava cercare alleati tra i signori e le città potenti se si voleva prevalere nella corsa alla disputata corona di re d’Italia. La competizione, la corsa dei potenti in gara ad assicurarsi alleati provocò una serie di concessioni di privilegi alle città e comunità anche minori come non s’era mai visto, prima dell’anno 1000 e subito dopo. E di fronte alla latitanza di marchesi e di conti che si rafforzavano piuttosto, per quanto potevano, nei loro castelli, edificati a grappoli nelle montagne o lungo i luoghi strategici della viabilità, il vescovo, già defensor civitatis nel tardo Impero romano, una specie di tutore dell’amministrazione laica, vedeva dilatarsi il proprio ruolo, esteso al piano temporale anche del governo delle città, com’era avvenuto precocemente a Roma, laddove aveva dato vita al Patrimonio del Beato Pietro, cioè al futuro Stato pontificio.
E il governo temporale richiedeva la collaborazione di laici, di homines, boni o maiores, all’occasione pronti a imbracciare le armi e a cavalcare e navigare a difesa della città per conservare i privilegi ottenuti o conquistarne di fatto dei nuovi (19).
Non furono affatto tempi pacifici quelli del X secolo e dell’XI secolo che videro affermarsi i poteri informali della città a lato di quelli ufficiali di cui erano titolari i conti e i vescovi talora anche investiti di poteri comitati formali. C’erano i problemi di difesa dalle incursioni esterne, frequenti nelle città litoranee e contro le audaci risalite del corso dei fiumi, come si verificò persino a Roma. E c’erano i problemi di ordine pubblico interno e di offesa esterna, per eliminare le basi saracene che infestavano il Mediterraneo occidentale e che impedivano i lucrosi traffici marittimi in rapida espansione.
La società urbana italiana continuò il suo profilo tardo-imperiale-altomedievale di comunità militarizzata, e questo soprattutto la differenziò dai centri urbani all’estero, che furono essenzialmente insediamenti portuali lungo le coste o i fiumi destinati ai commerci, “isole mercantili in un mare feudale”, come si dice tradizionalmente (20).
La città italiana è quella che acquisisce anche con la violenza i castelli circostanti e che arma le navi per campagne militari aggressive. Si comincia a parlare tanto di pace e di libertà traendo dalla tradizione romano-cristiana, ma questi erano valori per la vita cittadina, per la convivenza urbana interna, valori che si era pronti a difendere ma anche, all’occasione, ad ampliare pur facendo la guerra e togliendo la libertà alle comunità vicine per inserirle nel proprio spazio politico e mercantile a condizioni di favore per il capoluogo trionfante.
Le imprese contro i saraceni di Frassineto prima e delle Baleari poi furono clamorose per una cristianità fino ad allora in difesa da tanto tempo, prove generali nel Mediterraneo occidentale cui si accompagnarono le più impegnative crociate. Ma per le Baleari ci fu addirittura la celebrazione in versi a Pisa, la città che aveva riusato precocemente i materiali monumentali romani per allestire la stupefacente piazza detta poi dei “miracoli” (21).
La parola “comune” cominciò a essere usata quando ormai il comune c’era già, di fatto, per dare un nome alla “cosa” ormai ben delineata, visibile e affidabile. Con poche competenze, senza strutture fisse ma con i suoi notai, e per tanto tempo in simbiosi per lo più con il vescovo, che benediva gli armati pronti a muovere anche contro altri cristiani, benedetti a loro volta da un altro vescovo.
La grande e vittoriosa vicenda della Lega lombarda (22) non inganni, perché implicò la guerra di città cristiane contro l’imperatore cristiano, come erano cristiane le altre città a lui fedeli. Ma il comune era ormai diventato un soggetto politico-militare, capace di stringere alleanze come ogni Stato, di inviare ambascerie, di legiferare, e presto a volte anche contro le “libertà”, cioè i privilegi fiscali della Chiesa, resa potente dai grandi papi come Alessandro III, il papa dei comuni contrari al progetto del Barbarossa, che ne verrà umiliato.
Quella del comune è formidabile astrazione, perché la capacità di denominare il nuovo nucleo di potere in modo generale la dice lunga sulla diffusione della cultura politico-giuridica nelle nostre città (23). Non è un caso che il diritto romano abbia cominciato a essere insegnato a Bologna e più o meno contemporaneamente a Pisa, dopo che il suo insegnamento era stato tenuto presente anche a Pavia, nella capitale storica dei longobardi e del Regno d’Italia (24). Ma non è neppure un caso che corsi di insegnamento si siano presto diffusi nelle altre città organizzati in modo “comunale”, nelle quali i notai si moltiplicavano come in nessun altro Paese europeo, dando ai negozi giuridici italiani una affidabilità e articolazione nuova (25).
Allo stesso modo solo in Italia tra 1100 e 1200 ci fu il fiorire delle università, di una quantità e di una qualità altrove impensabile, salvo Parigi per la teologia (26).
Il comune fu quindi una realtà poderosa sul piano politico-militare, ma perché era primaria realtà culturale ed economica. Le nostre città-stato, così diffuse prima delle degenerazioni signorili-principesche del Due-Trecento che ne provocarono un drastico ridimensionamento quantitativo, furono realtà fortemente concorrenziali, capaci perciò di alleanze quando necessario ma anche spietate all’esterno persino contro propri cittadini esiliati se possibile e conveniente.
Eppure esse sul piano ideale si presentavano fortemente coese all’interno con il loro santo o santi e la loro cattedrale, edificio anche civico oltreché religioso, con i primi palazzi comunali diffusi in modo straordinario in Italia in quell’epoca (e in gran parte conservati) (27) e tante realtà architettoniche e artistiche che consolidavano l’identità cittadina e davano concretezza alla cittadinanza locale e all’honor civitatis.
C’erano gli astigiani e i savonesi, i genovesi e i veneziani, i fiorentini e i senesi ecc., tutti pronti a combattersi se del caso, ma anche a convergere quando fosse utile. Così ogni città sapeva anche espellere il dissenso politico con esili decretati frequentemente e con condanne che consigliavano la fuga: l’unum corpus cittadino subiva dei depauperamenti anche gravi, ma si riteneva che i vantaggi politici che ne derivavano compensassero le perdite e le sofferenze inferte (28). I diritti politici erano aleatori, quindi, ma entro la (relativamente) ampia cerchia di coloro che ne godevano, la concorrenza e le pari opportunità furono spesso realtà di fatto operanti come mai prima.
Le città furono sempre esposte alle chiusure oligarchiche (quale fu grosso modo il loro profilo nel secolo consolare, il XII), ma queste non sempre ebbero successo durevole, come avvenne precocemente nel Veneto del secolo XIII dopo vigorose esperienze civiche. Certamente il confronto politico era estremamente faticoso e sempre delicato, anche perché complicato dalla presenza di famiglie eminenti abituate dalla tradizione militare a spadroneggiare e a scontrarsi per conflitti divenuti tradizionali (29). E il confronto era anche molto incerto, non esistendo partiti politici organizzati come li concepiamo (o concepivamo, meglio), per cui nella fluidità degli schieramenti potevano affermarsi dei veri “signori” della politica, come tipicamente i membri della famiglia Visconti a Milano o i Medici a Firenze, pur operanti in realtà formalmente repubblicane.
Furono quindi istituzioni profondamente contraddittorie i nostri comuni, sottoposte alle tensioni di un forte sviluppo socio-economico accompagnato da una straordinaria vivacità culturale, accentuata dalla concorrenza della ricchissima riflessione religiosa con quella laica.
L’ideologia ufficiale parlava tanto spesso di pace, di libertà e di equalitas, perché esse in realtà di regola non c’erano o erano malcerte, sempre predicate più che realizzate, sommersi com’erano quei valori dalla vendetta coltivata come valore in molti ambienti (30) e dalla faziosità imperante, di cui Dante fu soltanto la vittima più illustre.
La torta da dividersi era divenuta grossa nel corso del Duecento. Le città ebbero allora un balzo anche in termini demografici mai più vissuto, salvo forse in alcuni anni dell’ultimo Ottocento e del secondo Dopoguerra del Novecento. Le cerchia di mura si succedevano l’una dopo l’altra per contenere l’ondata degli immigrati dalle campagne in cui i contadini e le proprietà venivano liberati dai tradizionali vincoli curtensi. La “liberazione” talora legalizzata talora invece usurpata di fatto fu un fatto di massa che consentì uno sviluppo urbano accelerato ma provocò anche masse di poveri e disperati sensibili ai richiami di movimenti millenaristi e disordini per le incertezze politiche acuitesi poi dal primo manifestarsi dei segni di crisi, verso la fine del Duecento.
La risposta non fu la repressione sistematica, se non del dissenso palese come quello dei “fraticelli” e di intellettuali scomodi, e l’espulsione dei politici che avevano una costellazione di alleanze alternative. Il forte disagio sociale fu per lo più contenuto dall’opera capillare di ospedali e ricoveri e dall’exploit di Misericordie e di altre confraternite laiche operanti in modo sinergico con i nuovi ordini religiosi, mendicanti, tipicamente urbani.
4. Oltre gli aspetti negativi: ieri e oggi?
I difetti del sistema comunale erano tanti, ma riequilibrati da una serie di aspetti tanto positivi da rendere le nostre città ammirevoli: come evidente per i viaggiatori scrittori, soprattutto arabi ed ebrei (31).
L’apertura del gioco politico, che si potrebbe chiamare anche ‘democrazia’ se il termine non fosse stato poco usato allora (e non avesse piuttosto un significato negativo) (32) consentiva una concorrenza spesso reale, e quindi la selezione dei migliori, degli oratori più abili e dei politici più capaci di intrecciare utili legami in città e fuori (33).
La competizione fu il motore della caotica vita cittadina, suscitatrice anche di tanti scontri tra famiglie eminenti, di colpi di mano e di omicidi per i motivi più vari. Non va mitizzato quel tempo (come ogni altro). Ma entro quel caos competitivo ci fu forte anche l’esigenza di quella visibilità cittadina che ha fatto delle nostra città-stato le odierne città d’arte più consistenti. Così come il comune aveva un honor civitatis da tutelare per stare dignitosamente sul mercato concorrenziale delle città, così ogni famiglia solo che si affermasse in città doveva edificarsi un palazzo o una torre (e farsi rispettare, a fronte di ogni attentato, con vendette feroci), e commissionare opere d’arte non solo per la casa, dove sarebbero state poco usufruite, ma soprattutto per la cappella di cui la famiglia assumeva il patronato in una chiesa, dove tutti le avrebbero ammirate.
Tutto questo ha prodotto un unicum, che faceva invidia a tutti e che non era stato più visto da sette-ottocento anni, dopo la grande età romana, quell’unicum imitato senza fine in Antico regime e ancora oggi invidiato e inviadiabile a livello mondiale nonostante le perdite fiisiologiche o quelle enormi provocate per mille motivi, tra i quali le requisizioni di età napoleonica e gli irrimediabili danni dell’ultima guerra mondiale, di terremoti, incuria ecc.
Ma non è solo la facies urbana con le sue possenti mura e porte, con le sue fonti, i suoi palazzi e le chiese, che meriterebbe una attenzione e cautela maggiore nel giudicare quel passato.
Giusto sottolineare i tratti negativi, sanguinari, distruttivi di quella civiltà urbana. Ma gli aspetti costituzionali non vanno trascurati solo perché estremamente eterogenei al di là di tratti comuni fondamentali e incapaci di evitare la crisi di quegli ordinamenti, prima o poi – salvo i casi longevi, straordinari, di Venezia, Genova e Lucca.
Pensiamo soltanto alle pratiche assembleari e di governo (34). La cultura che quelle città hanno trasmesso al futuro della competizione e dell’esigenza dell’uguaglianza tra i pari (tra quelli ammessi ai diritti politici, beninteso, ma tantissimi), comportarono sofisticate tecniche statutarie per evitare, per tanto tempo con successo, il concentrarsi del potere pubblico in un personaggio o in una famiglia. I principi costituzionali comunali andarono affinandosi dopo l’esperienza del primitivo board di consoli rappresentativi della città ma eletti in modo elitario, di solito con cooptazioni sottoposte solo all’acclamazione di assemblee convocate in piazza.
Con il primo Duecento l’idea di chiamare un tecnico esterno alla città, una specie di city-manager cui venivano affidate le chiavi della città, fu introdotta da qualche parte e subito imitata ovunque. E fu chiamato ‘podestà’ per simboleggiare la sintesi del potere cittadino ma doveva essere solo un garante delle istituzioni (non un primus inter pares, perché non aveva la cittadinanza locale), un forestiero di città amica chiamato ad assicurare l’imparzialità contro i pericoli di parzialità e di sopraffazione sempre in agguato.
Giurava, lui e i suoi militi e giudici membri dell’équipe condotta in città in genere solo per un anno (di regola non reiterabile), di osservare le leggi cittadine che gli venivano presentate solennemente raccolte nel libro degli statuti. Qui non c’era solo il diritto civile, penale e processuale tradizionale, ma anche una serie di norme con il programma amministrativo della città, interventi sulle categorie sociali e le corporazioni, le strade e i ponti, le alleanze ecc. Il podestà assumeva l’obbligo di far esaminare dal consiglio comunale i vari problemi nel tempo indicato, mentre i suoi giudici avrebbero amministrato la giustizia sottoposti come lui all’incubo del giudizio finale di sindacato, cioè della valutazione che al termine dell’ufficio avrebbe investito il loro operato (come avveniva in genere anche per gli ‘ufficiali’ cittadini). Allora, lui e la sua familia, come si diceva, erano esposti alle denunce dei cittadini che si ritenevano lesi da qualche atto della loro amministrazione e non potevano lasciare la città prima che il processo fosse finito, eventualmente con una condanna che privava loro di parte degli stipendi rimasti da riscuotere per far valere la loro responsabilità.
E per ricoprire gli uffici comunali valevano per i cittadini regole di incompatibilità e di ineleggibilità così rigide tra familiari e membri delle stesse compagnie commerciali da far impallidire quelle talora auspicate oggi. In più, dopo aver ricoperto una carica di due, tre o sei mesi si entrava in un periodo di ineleggibilità, di “vacanza” come si diceva spesso. Dai critici del sistema comunale si dice che si aggirava il divieto passando a un altro ufficio, di regola per sorteggio però – senza poter prevedere la posizione di potere prossima ventura. Vero quindi la relativa costanza di certe presenze negli uffici, ma quando si doveva lasciare quello precedente si perdevano anche le occasioni imparate per eventuali raggiri e sopraffazioni grazie all’acquisita esperienza di governo.
Quella che noi chiamiamo giunta comunale, l’ufficio (dei “priori” o “governatori” o come altro potevano chiamarsi) quotidianamente impegnato ad affrontare le emergenze politico-amministrative, spesso doveva essere residente stabilmente a Palazzo per due mesi, e i suoi membri dovevano lasciare gli affari personali, esclusi da contatti con gli altri cittadini (ufficialmente) salvo per le udienze, talora previste settimanali e pubbliche. Chiaramente si trovavano le eccezioni e gli espedienti per poter avere contatti con i politici più influenti al momento esclusi ufficialmente dal palazzo, ma per questi ultimi era solo una possibilità quella di influire sugli ufficiali di governo in carica, non di un diritto; era una pratica di consultazione utile, in larga misura funzionale al sistema, non sempre contrario alla sua fisiologia.
E ci fu anche qualcosa di più, uno di quei provvedimenti che furono tipici dei governi cosiddetti “popolari”, basati sul predominio del Populus sulla nobiltà tradizionale. Questa era connotata – si disse – da famiglie potenti ma anche litigiose, turbatrici dell’ordine pubblico e sempre pronte a prendere il sopravvento in città. Perciò, di solito nel secondo Duecento, nei comuni non degenerati in tirannidi signorili, si assisté a provvedimenti fortemente discriminatori. Si fecero elenchi di proscrizione veri e propri dei “casati” che dovevano ritenersi esclusi quanto meno dalla principale carica pubblica per quella presunzione di prevaricazione a loro connaturale – con una esclusione peraltro qua e là estesa a giuristi, notai, medici, presunti prevaricatori per il loro sapere tecnico, o già troppo potenti di per sé.
Le famiglie magnatizie venivano elencate in base a criteri di notorietà indiscussa, ma è chiaro che la politica poteva tranquillamente lasciare fuori qualche famiglia ritenendola per mille motivi meno nobile delle altre, oppure poteva includere chi un gran potente non era forse, ma per motivi politici, appunto, era bene far passare per tale.
Il fatto da non dimenticare è che il mondo comunale (come il nostro, non a caso fortemente turbato dai formalismi) (35) segnò il primato delle forme giuridiche e dei grandi discorsi, della retorica politica di cui abbiamo avuto in Italia, in “questa” Italia comunale, maestri indiscussi già nel primo Duecento. A essi corrisposero (se mai sfalsate di qualche decennio ma in positiva sinergia) prediche accalorate di frati mendicanti anche molto colti nelle loro chiese, affollate di cittadini che amavano sentir parlare di pace e di concordia civica, di misericordia, di buon governo: religiosi che si confondevano con i cittadini, ripudiando il tranquillo mondo monastico extraurbano, portavano conforto a una popolazione atterrita da calamità di ogni genere attribuite al peccato e alle presenze diaboliche.
C’era allora, a ben guardare, una situazione “esteriormente” molto civile e moderna per il tempo (se lasciamo in ombra il sistema penale), che cozzava però con la faziosità inconcludente e paralizzante quando non devastante. C’era quindi un gap fortissimo come nel mondo ecclesiastico tra predicati e prassi effettive. Ma non è proprio questo contrasto fortissimo che fa pensare facilmente all’attualità in talune circostanze – com’è ovvio mutatis mutandis – per la coesistenza sconcertante ma “ordinaria” di aspetti positivi e di altri incredibilmente negativi?
Sennonché la conflittualità interna ed esterna aveva luogo allora in un mondo effervescente di iniziative, belliche ma anche culturali ed economiche. Un mondo che molto dissipava in guerre e conflitti fratricidi, ma che al tempo stesso sapeva fare anche investimenti durevoli in beni e servizi. Non è un caso se le nostre città d’arte sono anche quelle che hanno avuto un passato comunale più intenso fino al top delle città-Stato.
Proprio questo forte background spiega come le città comunali inglobate nella sfera politico-militare di una città dominante, dopo le esperienze dei secoli XI e XII e talora del XIII, non per questo perdevano la cultura politico-istituzionale accumulata e la passione acquisita per l’autogoverno (36). I centri minori, i castelli e i centri rurali, venivano appiattiti sul piano politico e spesso anche amministrativo, subendo anche il dilagare della proprietà cittadina che vi si consolidava con i suoi privilegi fiscali e giudiziari cominciando con le ville a erigere monumenti al privilegio della ricchezza. Ma le città assoggettate politicamente conservavano le loro identità spesso anche in base a precisi “capitoli” di resa custoditi gelosamente anche per secoli accanto ai propri statuti solo ritoccati dalla Dominante nella parte costituzionale per garantirsi da eventuali sorprese sempre possibili.
La città dominante non estese se non eccezionalmente la propria cittadinanza ai centri soggiogati che nel corso del Tre-Quattrocento confluirono nei pochi Stati cosiddetti “regionali” che dominarono la scena politica dell’autunno del nostro medioevo spesso mostrando (anche perciò) una incredibile debolezza politico-militare contro l’invasore straniero (37). Si era reciprocamente “forestieri”, pur facendo parte dello stesso spazio politico-militare.
Proprio sui modi del dominio interno possiamo concludere con qualche ulteriore riflessione, perché aiutano a spiegare quella debolezza nei rapporti esterni.
La mancata estensione della cittadinanza impedì non solo l’integrazione giuridica delle comunità conquistate dalla Dominante. Impedì soprattutto quell’“unificazione politico-culturale” del territorio che avrebbe facilitato una solidarietà indispensabile nei momenti difficili. Invece, quell’unità in qualche modo fu dovunque impedita dalla gelosa superbia della Dominante, quale che fosse senza allusioni a una in particolare, e dalla perdurante (talora forte) identità della città inglobata, preoccupata di preservare i propri specifici privilegi piuttosto che collaborare al buon governo di una più ampia unità politica (38).
Gli Stati “regionali” (che io definirei meglio come “a proiezione regionale”) assomigliavano anche in Antico regime, e primo tra tutti lo Stato pontificio, il più debole infatti, a Stati federali incoativi, come cristallizzati in una fase iniziale rimasta imperfetta. Furono tanto largamente imperfetti da impedire la formazione di un vero ceto dirigente rappresentativo di “tutto” il territorio – salvo le modeste eccezioni tra le quali si può indicare la Lombardia grazie al Senato di Milano o il parlamento delle Marche.
Tanto esperti di parlamentarismo comunale i cittadini delle città-stato non seppero costruire un parlamentarismo più ampio, del territorio tutto. Le posizioni di primato tenute da tante città nel medioevo si ridussero così nella quantità e nella qualità. Da centri di concorrenza attiva si trasformarono in centri di privilegio e di conservazione nobiliare ed ecclesiastica. Le idee propulsive e dinamiche del passato concorrenziale cristallizzavano un’ideologia campanilistica che coinvolgeva nelle sue tradizioni nobili e “popolo”.
Il medioevo del Populus combattivo e produttivo lasciava il posto all’Antico regime delle nobiltà e delle istituzioni pacificate ma controllate rigidamente dalle oligarchie locali, chiuse nella tutela del privilegio di ceto.
Dall’interno questo mondo non seppe riformarsi.
Perciò si può con prudenza notare che quel mondo ci ha lasciato tanto, tantissimo, ma anche un precedente inquietante. Se questo è vero, è un motivo di più per studiarlo molto attentamente. Per concludere: ammirare meglio quel mondo per tanti motivi trascurati. Ma anche studiarlo meglio per liberarsene: quando e dove necessario.

NOTE

  1. Un’esposizione complessiva, inserita nel contesto dei problemi generali del nostro basso medioevo, l’ho presentata nel mio Istituzioni medievali, Bologna, Il Mulino, 1994 (in 2a ed. 2000, ed essenzialmente modificata solo perché presentata senza note), l’opera divenuta poi per un pubblico più ampio Medioevo del potere: le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Bologna, Il Mulino, 2009, da vedere in particolare a pp. 273-353.
  2. I due contributi sono rispettivamente La città italiana e un’ambigua tradizione repubblicana, in “Le Carte e la Storia”, 1997, n. 3, pp. 11-19, e Città-Stato e Comuni: qualche problema storiografico, ivi, 1999, 5, pp. 16- 28. Il volumetto cui accenno è Le città-Stato. Radici del municipalismo e del repubblicanesimo italiani, Bologna, Il Mulino, 2006.
  3. Ad esempio, è ora comparsa la traduzione del libro di Chris Wickham, Sonnambuli verso un nuovo mondo. L’affermazione dei comuni italiani nel XII secolo, Roma, Viella, 2017, incentrato sulle tre realtà importanti di Roma, Milano e Pisa. Alcuni interventi recenti li discuto nel mio capitolo della seconda edizione, in corso di stampa, de The Medieval World, a cura di P. Linehan per Routledge, London-New York.
  4. Questo testo, senza note e in una prima redazione, è stato letto ad apertura di un incontro di storia savonese ed è ora apparso, con gli altri contributi della giornata di studi, in “Società savonese di storia patria. Atti e memorie”, n.s., 52, 2016, pp. 7-16.
  5. Die Erforschung der italianischen Stadtkommunen seit der Mitte des 20. Jahrhunderts, in “Frühmittelalterliche Studien”, 2014, 48, pp. 1-38. Il suo più recente libro in italiano è Il laboratorio politico del Comune medievale, Prefazione di Giuseppe Sergi, Napoli, Liguori, 2014 (incentrato essenzialmente sul periodo fino al 1200 compreso e con attenzione particolare al caso importante di Milano). Tra le molte monografie possibili, ricordo – per un altro comune di grande rilievo in un periodo poco noto finora – E. Faini, Firenze nell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze, Olschki, 2010; sempre utili i saggi in Politica e cultura nelle Repubbliche italiane dal Medioevo all’età moderna, Firenze-Genova- Lucca-Siena-Venezia, a cura di S. Adorni Braccesi e M. Ascheri, Roma, Istituto storico per l’età moderna e contemporanea, 2001.
  6. Le città-Stato italiane: il difficile itinerario della libertà, in La Convivencia en las Ciudades Medievales: Nájera. Encuentros Internacionales del Medioevo, a cura di B. Arízaga Bolumburu e J.Á. Solórzano Telechea, Logroño, Instituto de Estudios Riojanos, 2008, pp. 373-391.
  7. Le città italiane, XIV-XV secolo, in Poderes públicos en la Europa medieval: principados, reinos y coronas, XXIII Semana de estudios medievales, Pamplona, Gobierno de Navarra, 1997, pp. 149-207.
  8. Primi approcci, tra gli altri, in F. Bocchi, M. Ghizzoni, R. Smurra, Storia delle città italiane. Dal Medioevo al primo Rinascimento, Torino, Utet, 2002; D. Calabi, Storia della città. Età moderna, Padova, Marsilio, 2001; vedasi poi Marino Berengo a nota 25.
  9. Bibliografia enorme, come si sa. Può sfuggire cfr. la raccolta su Le origini dello Stato italiano tra centralismo e municipalismo, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, 2010-2011, 22-23, che ricordo perché ci sono anche alcune mie paginette dedicate all’itinerario Dalla città-Stato alla Nazione: un’eredità grandiosa e pesante, pp. 155-163.
  10. Interessante, traendo spunto dalle ricerche di Jean-Claude Maire Vigueur (citate a nota 20), il dibattito su Il governo delle città nell’Italia comunale: una prima forma di democrazia?, raccolto in “Bullettino Roncioniano”, VI, 2006, con partecipazione di E. Artifoni, M. Ascheri, A. Mazzoni e G. Milani.
  11. Notevoli apporti in Roma antica nel Medioevo. Mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella “Respublica Christina” dei secoli IX-XIII, Milano, Vita e Pensiero, 2001.
  12. Tema privilegiato dalla ricerca recente; all’Università di Lione si è ora tenuto (maggio 2016) un convegno proprio su “L’immagine del tiranno” (atti in preparazione a cura di Giorgio Bottini). Guelfismo e ghibellinismo sono stati temi centrali anche nella ricchissima letteratura storica stimolata dal centenario dantesco ricorrente nel 2015.
  13. Sul loro peso nella tradizione comunale le discussioni sono apertissime. Ricordo in particolare le pagine dotte ed equilibrate di N. Rubinstein, Studies in Italian History in the Middle Ages and the Renaissance, vol. I, a cura di G. Ciappelli, Roma, Storia e Letteratura, 2004.
  14. Ma sul delicato rapporto città-università mi si consenta di rinviare a M. Ascheri, Dottrine universitarie, pensiero politico e istituzioni comunali: alcuni problemi, in Science politique et droit public dans les facultés de droit européennes (XIIIe-XVIIIe), Toulouse, sous la dir. de J. Krynen et M. Stolleis, Frankfurt/Main, Klostermann, 2008, pp. 283-298.
  15. Molta la documentazione utile come, ad esempio, in Il processo Avogari, Treviso 1314-1315, a cura di G. Cagnin, con un saggio introduttivo di D. Quaglioni, Roma, Viella, 1999. In generale, molti apporti in Wissen, Gewissen und Widerstandsrecht/Sapere, coscienza e scienza nel diritto di resistenza, a cura di A. De Benedictis e K-H. Lingens, Frankfurt/Main, Klostermann, 2003.
  16. Una sintesi in K. Pennington, Tre Prince and the Law 1200-1600, Berkeley, University Press, 1993.
  17. Ha insistito molto su questi punti già W. Ullmann, ad esempio in Individuo e società nel Medioevo, Bari, Laterza, 1974, ma c’è poi il classico di S. Reynolds, Kingdoms and Communities in Western Europe 900-1300, Oxford, Clarendon, 1997.
  18. Contesto ben sintetizzato da G. Tabacco, ad esempio nel suo La metamorfosi del potere sacerdotale nell’alto Medioevo, a cura di G.G. Merlo, Brescia, Morcelliana, 2012.
  19. Ho delineato questo contesto, dipendendo in particolare da Renato Bordone, nel mio Un’altra cittadinanza: nei privilegi e nella fedeltà pre-comunali, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 311-323.
  20. Si veda ora in particolare J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna, Il Mulino, 2004 (dall’ediz. francese, Parigi 2003).
  21. Contesto, dopo tanti studi di Gabriella Rossetti, in M. Ronzani, Chiesa e “civitas” di Pisa nella seconda metà del secolo XI, Pisa, Ets, 1997; per il periodo successivo A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il Popolo a Pisa 1220-1330, Pisa, Ets, 2004.
  22. Utile assicurarsi il volume della Banca di Legnano, rimasto fuori commercio, I giorni che fecero la Lombardia, a cura di G. Andenna, Legnano, 2007.
  23. E il loro prestigio. Interessante G. Francesconi (con A. Airò, E. Caldelli, V. De Fraja), “Italia, italiae, italicae gentes”. Particolarismi, varietà e tensioni all’“unitas” nella cronistica tardomedievale, in Unità d’Italia e Istituto storico italiano. Quando la politica era anche tensione culturale, Roma, Isime, 2013, pp. 33-55.
  24. Temi molto praticati dalla ricerca storico-giuridica, per cui qualsiasi manuale (E. Cortese, P. Grossi, A. Padoa Schioppa, e il sottoscritto) dà ampi ragguagli.
  25. L’eccezionalità italiana risulta bene a livello comparativo da M. Berengo, L’Europa delle città, Torino, Einaudi, 1999, con utilissimo indice analitico. Rapida sintesi nel mio I problemi del successo: i notai nei Comuni tardo-medie- vali italiani, ora nella mia raccolta Giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (secoli XI-XVIII), Stockstadt/Main, Keip, 2009, pp. 171-183.
  26. Utili i saggi in Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia, Centro di Studi di Storia e d’Arte, 1982, e naturalmente i contributi negli importanti “Annali di storia delle Università italiane” per ricerche specifiche.
  27. Come non è avvenuto altrove: fatto spesso dimenticato.
  28. Il tema della “esclusione” è stato tra quelli favoriti dalla ricerca recente dopo G. Milani, L’esclusione dal Comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma, Isime, 2003, ridimensionando, giustamente, giudizi troppo facilmente ottimistici sul gioco politico comunale.
  29. Saggi rilevanti in Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, a cura di R. Bordone, Roma-Bari, Laterza, 2004.
  30. Si veda A. Zorzi, Consigliare alla vendetta, consigliare alla giustizia. Pratiche e culture politiche nell’Italia comunale, in “Archivio storico italiano”, 2012, n. 170, pp. 263-284; qualche altra riflessione nel mio Tirannia, libertà, giustizia, con una nota su Pace e Vendetta: un itinerario da Simone Martini ad Ambrogio Lorenzetti, in corso di pubblicazione in “Progressus”, n. 3, 2017.
  31. Utile la sintesi di J. Le Goff, L’Italia nello specchio del Medioevo, Torino, Einaudi, 2000.
  32. E non si prestasse a facili critiche; come oggi, del resto.
  33. La retorica politica ebbe uno spazio enorme, sconosciuto altrove, studiata in particolare da E. Artifoni, ad esempio ora in L’oratoria politica comunale e i “laici rudes et modice literati”, in Zwischen Pragmatik und Performanz. Dimensionen der mittelalterlischer Schriftkultur, a cura di Ch. Dartmann, Th. Scharff e Ch. F. Weber, Turnhout, Brepols, 2011, con rinvii al molto lavoro svolto in precedenza, consultabile online. Per le pratiche assembleari utile discussione in L. Tanzini, A consiglio. La vita politica nell’Italia dei Comuni, Roma-Bari, Laterza, 2014, con bibliografia interessante su ricerche di area (es. p. 225 n.). In <http://www.academia.edu> consultabili miei lavori sulle assemblee a Siena e di commento a lavori altrui per quelle di Firenze e Lucca.
  34. Riespongo qui, in sintesi, gli aspetti positivi già esaminati in Città-Stato e Comuni cit.
  35. Qui entriamo in valutazioni sulla nostra contemporaneità del tutto discutibili, naturalmente; qualche riflessione che mi sembra tuttora sostenibile ho sintetizzato nella conclusione del mio manuale Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 442-445.
  36. Le situazioni furono naturalmente diversissime; solo le ricerche locali possono fare chiarezza su questi punti. Un esempio molto istruttivo quello seguito analiticamente per alcuni anni in D. Girgensohn, La città suddita in Italia nel Basso Medioevo: giurisdizione a Treviso sotto la dominazione veneziana (1338-1344), in “Archivio Veneto”, 145, 2014, pp. 47-109.
  37. Per un esame e bibliografia aggiornata si veda G. Chittolini, La lunga durata del “sistema città”nell’Italia centro-settentrionale della prima età moderna, in Recht-Geschichte-Geschitsschreibung, a cura di S. Lepsius, R. Schulze e B. Kannowski, Berlin, Schmidt, 2014, pp. 129-140.
  38. Interessante, ad esempio, il caso studiato da A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, Il Mulino, 1995.
Mario Ascheri

(Ventimiglia, 7 febbraio 1944) è uno storico italiano.
Ha insegnato Storia del diritto medievale e moderno nelle università di Sassari, Siena e Roma 3.
È nel direttivo di molte riviste storiche italiane (come l’Archivio storico italiano, dove nel 2008 compara una discussione tra tre storici sul suo volume sulla città-Stato) e straniere. È uno specialista di storia della giustizia e della giurisprudenza medievale e moderna, oltreché dei Comuni italiani, largamente noto all’estero per i suoi lavori specialistici sui ‘consilia’ e i manoscritti giuridici basso-medievali; recentemente ha pubblicato lavori più generali su alcune categorie storiografiche (consuetudine, giurisdizione, oligarchia ecc.)
Pubblicazioni:
“Siena nel rinascimento: istituzioni e sistema politico” (Siena 1985, il Leccio)
“Tribunali, giuristi e istituzioni. Dal Medioevo all’età moderna” (Bologna 1989, nuova ed. 1970, il Mulino)
“Diritto medievale e moderno” (Rimini 1991, Maggioli)
“Istituzioni medievali”(Bologna 1994, il Mulino II ed. 1999)
“Siena nella storia” (Cinisello Balsamo 2001, Silvana ed.)
“La città-Stato. Le radici del repubblicanesimo e del municipalismo italiani” (Bologna 2006, il Mulino)
“Introduzione storica al diritto medievale” (Torino 2007, Giappichelli)
“Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo” (Torino 2008, II ed. riv., Giappichelli)
“Il Costituto del Comune di Siena in volgare (1309-1310). Un episodio di storia della giustizia?'” (Firenze 2009, Aska)
“Siena nel primo Rinascimento dal dominio milanese a papa Pio II” (Siena 2010, Pascal)
“Giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (secoli XI-XVII)” (Keip, Stockstadt 2009).

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