Nell’Alto Medioevo due “popolazioni” in particolare devastarono il continente europeo divenendo un incubo per i suoi abitanti con le loro frequenti incursioni, saccheggi e distruzioni: i Vichinghi ed i Saraceni. Ho posto la definizione di popolazione tra virgolette in quanto è improprio definirli in questo modo, soprattutto i secondi, ma per convenzione linguistica ho dovuto farlo, per non creare confusione ulteriore.
Mentre è abbastanza corretto definire popolazioni vichinghe tutte quelle che erano insediate nella Scandinavia e nell’attuale Danimarca, che presero anche denominazioni diverse nei tempi successivi in base ai luoghi di provenienza ed insediamento, e da come erano identificati dalle popolazioni dominate e con le quali col tempo si amalgamarono, non lo è altrettanto per quanto riguarda i Saraceni, in quanto venivano definiti in tal modo molte popolazioni indipendentemente dalla loro provenienza ed etnia, prevalentemente arabi ma anche Mori, Berberi, Baschi, Andalusi, ecc. fino ai turchi nel Pieno Medioevo.
Sui Vichinghi che imperversarono soprattutto nel Nord Europa (riferendomi sempre alll’Alto Medievo) sorvolo, in quanto è mia intenzione dedicarmi alla loro straordinaria epopea in un prossimo articolo in preparazione.
I Saraceni invece agirono nel Mediterraneo, in particolare nelle isole greche, nord Africa, Sicilia, Sardegna ed Italia Meridionale, Penisola Iberica e Francia, e per quanto ci riguarda da vicino, in Liguria e Piemonte.
Occorre premettere che, dal punto di vista culturale, mentre per la Provenza, le Alpi Occidentali e la Liguria sono stati condotti studi accurati sul periodo delle invasioni ed incursioni saracene, per quanto riguarda il Piemonte ed il Monferrato in particolare, gli studi scarseggiano, sono reperibili perlopiù accenni in alcuni articoli e brevi saggi e libri divulgativi, spesso limitati a singole località e perlopiù datati.
Quindi dal punto di vista storiografico abbiamo poche fonti di studio, alcune delle quali ritenute poco attendibili ed imprecise dal punto di vista cronologico, e disponiamo di scarsa documentazione ed elaborazioni storiografiche, in netto e paradossale contrasto con la notevole mole di tradizioni, leggende, miti, racconti e folclore popolare inerenti la presenza saracena in molteplici località, che sfociano in pubblicazioni di scarso valore storico ma più ricche dal punto di vista antropologico.
Con il termine “saraceni” gli autori antichi designavano una popolazione araba stanziata nella parte meridionale della penisola del Sinai con epicentro nella città di Saraka, e poi col tempo finì per designare gli Arabi ed i mussulmani in genere.
In senso più ristretto e storicamente accettabile si intendono per Saraceni quei nuclei di Arabi provenienti dall’Africa Settentrionale, che successivamente all’occupazione della Sicilia nell’Alto Medioevo compirono numerose spedizioni e fondarono empori e basi militari lungo le coste del Meridione d’Italia ed in Liguria e Provenza, dalle quali pianificarono profonde incursioni nell’entroterra, fino ai valichi alpini piemontesi al confine con l’attuale Svizzera.
Le incursioni nell’entroterra francese ed in Liguria e Piemonte erano principalmente pianificate nella loro base di Frassineto in Provenza (Fraxinetum Saracenorum), dove si erano insediati sul finire del IX secolo e da cui partivano la maggioranza delle spedizioni.
Frassineto corrisponde geograficamente all’attuale La Garde-Freinet nel Golfo di Saint-Tropez, il cui nome derivava dall’antico villaggio di Fraxinetum, dal latino “fraxinus” (frassino), luogo che si prestava magnificamente all’approdo dal mare e ad essere difeso per idonea morfologia naturale integrata da strutture difensive artificiali.
È l’identico toponimo ed etimologia della località presso Casale Monferrato che si affaccia sul fiume Po, e di tante altre che una certa storiografia vorrebbe derivassero dall’insediamento saraceno in Provenza. Ipotesi suffragata dal fatto che non in tutte le località denominate Frassineto vi era un significativa presenza di frassini che giustificassero il toponimo. È altresì vero che molte di queste località sono dislocate in luoghi dove mai ci furono presenze saracene e si possano riscontrare correlazioni e connessioni, e quindi il problema rimane aperto.

Non erano solo incursioni brevi a scopo di saccheggio e per catturare schiavi: in molti casi penetravano profondamente nel territorio interno, come in Piemonte, dove saccheggiarono e distrussero numerosi villaggi e monasteri distanti anche centinaia di km dalla costa e costituirono alcuni capisaldi per contrastare eventuali contrattacchi e rappresaglie (peraltro mai avvenute) e per meglio vessare le poche città esistenti che evitavano di saccheggiare e distruggere per poter imporre pesanti tasse (ulteriore causa di abbandono territoriale da parte degli autoctoni), così come imponevano pedaggi nei passi ad ogni viaggiatore.
Esattamente come in Francia, lungo i loro percorsi di penetrazione costruivano dei presidi militari (castra Saracenorum) a scopo di osservazione e difesa, consolidando le loro posizioni di conquista e non solo di scorreria, che perdurarono una settantina di anni nel corso del X secolo per quanto riguarda Liguria e Piemonte ma oltre un secolo e mezzo per quanto riguarda la Francia, se si pensa che Marsiglia fu razziata nell’838, molti decenni prima dell’insediamento a Frassineto.
Divennero talmente temuti e potenti che nella seconda metà del X secolo vi furono addirittura dei tentativi di costituire delle alleanze militari con loro da parte di Adalberto II d’Ivrea, figlio di re Berengario II e co-regnante sul regno d’Italia (che ricordiamoci all’epoca comprendeva solo l’Italia del Nord e l’attuale Toscana), che agiva anche in nome e per conto del Papa e dei Bizantini, in chiave anti-imperiale.
Ma prima ancora di lui fu Ugo di Provenza (marchese e poi re di Provenza e re d’Italia dal 926 al 947 d.c.) che utilizzò i saraceni per contrastare le mire espansionistiche del suo più acerrimo rivale, Berengario II d’Ivrea (marchese d’Ivrea e poi re d’Italia dal 950 al 961 d.c.), mandandoli a combattere contro di lui come mercenari, strategia che prolungò la permanenza dei saraceni in Provenza ed accentuò la loro devastazione delle terre piemontesi e liguri. Della serie “se non puoi sconfiggere il nemico, fanne un alleato”, a scapito ovviamente di nuove ed ulteriori vittime.
Occorre altresì riconoscere che tra gli alleati dei Saraceni vi erano soprattutto esponenti della bassa nobiltà rurale (feudalesimo minore), stanca delle vessazioni subite dall’alta nobiltà soprattutto ecclesiastica allora dominante, che si unirono a loro per poter depredare i loro beni. Questo spiegherebbe il particolare accanimento contro chiese, monasteri, abbazie ecc., cioé le proprietà episcopali ed abbaziali, oltre che per il probabile ricco bottino che reputavano dovessero disporre e custodire.
Alcuni villaggi e monasteri distrutti furono ricostruiti, anche dopo molto tempo, ed è per questo motivo che sappiamo furono i saraceni a devastarli, perché fu riportato nelle loro cronache e negli atti notarili, per altri di cui si sapeva dell’esistenza ed attività, essendoci ignoto il loro destino, essendosi persa da quell’epoca in avanti ogni traccia, è molto probabile che l’evento infausto sia attribuibile alle incursioni saracene, anche se non disponiamo di documentazione storica accertante l’evento.

Capita spesso infatti di leggere in libri di storia locale di villaggi, monasteri, abbazie e pievi ben localizzate fino al X secolo, che all’improvviso scompaiono, rimanendo solo il toponimo e la tradizione orale locale, e gli storici locali non sapendo la causa esatta l’attribuiscono ad eventi ignoti oppure catastrofi naturali, come terremoti. Ma è improbabile che possano essere queste le cause, perché chi rimane in vita dopo un evento naturale, per quanto distruttivo, si rimette al lavoro e ricostruisce, ma quando non vi sono più persone in vita perché trucidate o rese schiave, oppure perché i pochi superstiti sono fuggiti terrorizzati, diventa improbabile che si ritorni sul luogo della distruzione per ricostruire, se non molti anni dopo, e solo se si è certi che il pericolo sia scomparso per sempre e si dispongono risorse per farlo.
Una delle ripercussioni delle scorrerie saracene era lo spostamento di genti sopravvissute, come ad esempio in Francia, dove su indicazioni di Ugo di Provenza, sentendosi minacciato anche da Berengario II d’Ivrea, fece trasferire alcune popolazioni costiere nella valle alpina che prese il nome proprio dalla minaccia saracena, la Moriana, che divenne poi contea assegnata a Umberto I Biancamano, capostipite della dinastia Savoia, che nacque infatti a Moriana attorno al 980 d.c., motivo per cui storicamente all’inizio della loro epopea erano conosciuti come i Moriana.

Altra ripercussione era l’abbandono temporaneo di alcuni monasteri ed abbazie, seppur di grande dimensioni e prestigio, come l’antica Abbazia benedettina della Novalesa in val di Susa, che venne distrutta dai saraceni nel 906 d.c., secondo le fonti più utilizzate: Chronicon Novalicense di autore anonimo interno all’Abbazia della Novalesa, ed Antapodosis di Liutprando da Cremona. Ma alcuni storici dubitano che la data sia attendibile in quanto ritengono che le prime invasioni ed incursioni prlungate dei Saraceni in Piemonte siano avvenute parecchi anni dopo, dal 921 d.c., transitando dal Delfinato in Val di Susa e dalla Liguria attraversando gli Appennini.
In particolare si presume abbiano transitato lungo la valle del fiume Tanaro, nella cui alta valle pare si siano insediati, ponendo la base per le loro scorrerie in Piemonte. La seconda e più tarda data attribuita alla scorreria delle gentes Saracenorum in Val Susa, cui conseguì la distruzone dell’Abbazia della Novalesa, parrebbe la più logica, in quanto non si spiegherebbe altrimenti il lunghissimo periodo di latitanza dei monaci, prima di “reagire” con qualche iniziativa significativa, come meglio illustrato nei paragrafi successivi.
Secondo la cronaca dell’anonimo estensore della Novalesa oltre che di Liutprando di Cremona, la maggioranza dei frati della Novalesa, preavvisati del pericolo incombente, fuggirono a Torino sotto la protezione del marchese Adalberto I d’Ivrea (padre di Berengario II che divenne re d’Italia), che donò loro la chiesa di Sant’Andrea oltre ad alcuni edifici per insediarsi in città, e successivamente alcune “corti” esterne, tra cui quella di Breme, attualmente in Lomellina, ma per secoli appartenente al marchesato di Monferrato, al punto che ancora nell’ottocento alcuni viaggiatori nei loro diari di viaggio riportavano di aver visitato la bella cittadina di Breme in Monferrato…
Ma di questa versione storicamente si dubita perché poco dotata di senso logico. Per quale motivo i monaci della Novalesa non fuggirono tutti a Torino? Perché alcuni dovrebbero essere rimasti in sede col rischio certo di venire uccisi o catturati come schiavi? Il trasferimento a Torino del 906 d.c. parrebbe invece ben pianificato ed organizzato e non affrettato, e quindi non connesso con l’incursione e devastazione saracena, che deve essere avvenuta successivamente. Può darsi che i Saraceni ne siano la causa indiretta, e che il trasferimento sia stato causato da una sorta di pianificazione preventiva per evitare il pericolo, per porre in salvo una certa quantità di beni e reliquie dal rischio di saccheggio.
Essendo la corte di Breme in posizione strategica, alla confluenza tra il Po ed il Sesia, l’abate Domniverto nel 929 d.c. decise di trasferire una cospicua parte della comunità monastica superstite e di fondare un nuovo monastero, che divenne uno dei più importanti d’Europa in quell’epoca. L’abbazia di Breme era infatti “libera”, cioè soggetta solo al Papa ed all’Imperatore, sottratta all’ingerenza dei signori locali e del vescovo.
Nell’ultimo quarto del X secolo, superato il pericolo saraceno, l’abate Gezone fece restaurare gli edifici della Novalesa ed i due complessi divennero una sola istituzione, infatti da allora gli abati nominati avevano giurisdizione su entrambi gli insediamenti religiosi.

Le feroci e frequenti incursioni saracene costituirono uno dei motivi per cui re Berengario II e suo figlio co-reggente Adalberto II nel dicembre del 950 d.c. decisero di istituire tre nuove Marche d’Occidente, per riorganizzare politicamente e militarmente il potere sulla regione in chiave anti-saracena: la Marca Arduinica, Aleramica ed Obertenga, tutte dotate di ampio sbocco al mare, la prima avente come porto principale Ventimiglia, la seconda Savona e la terza Genova, la più piccola delle quali era quella centrale, l’Aleramica, assegnata appunto al conte Aleramo, capostipite della dinastia aleramica, da cui discenderà successivamente il famoso marchesato di Monferrato.
Gli altri motivi erano ovviamente politici, sul solco tracciato dal suo predecessore Ugo di Provenza, cercò di ridimensionare l’eccessivo potere dei marchesi d’Ivrea (Anscarici) i cui possedimenti erano talmente estesi che comprendevano quasi l’intera Lombardia, che allora corrispondeva all’Italia del Nord Ovest. Ed infatti come potete notare dalla cartina sottostante, anche dopo l’intervento di Berengario II la marca Anscarica era ancora di notevoli dimensioni, quasi pari come superficie alle tre nuove marche messe insieme.

Come per le altre due, anche per la Marca Aleramica si trattò principalmente di un’operazione di accorpamento dei precedenti comitati (contee), in particolare i comitati di Acqui, di Loreto, di Savona-Vado, e successivamente di Alba e di Asti, scelta perfettamente congrua in un quadro di riferimento feudale gerarchico e verticistico, finalizzato ad una maggiore coerenza politico-militare ed economico-commerciale dell’intera marca.
Marca che col tempo assunse geograficamente una connotazione geometrica a “quadrilatero” di estrema importanza strategica, sia per la presenza di essenziali vie di comunicazioni terrestri tra la pianura Padana ed il mare, ma soprattutto per la presenza dei fiumi , che erano giustamente definite le “autostrade” del medioevo, primarie vie di comunicazione e trasporto delle merci. Fattori che per secoli concorsero a vivacizzare il Monferrato rendendolo appetibile per i potenti vicini regionali e continentali.
Il pericolo delle incursioni saracene perdurò finché Guglielmo I di Provenza (figlio del conte di Arles), detto Guglielmo il Liberatore o il Padre della Patria, nel 973/75 con una spedizione militare progressiva pose fine alla presenza saracena a Frassineto ed in tutta la Provenza, grazie alla coalizione di tutta l’aristocrazia provenzale, avvenuta in seguito al rapimento con richiesta di riscatto nel 972 d.c. di un personaggio di altissima risonanza e rango, Maiolo (poi divenuto santo), quarto abate di Cluny, il più potente tra gli abati, essendo l’abbazia borgognona da lui presieduta la più ricca dell’intero continente, con possesso e giurisdizione su circa un migliaio di villaggi ed una molteplicità di insediamenti religiosi satelliti, un piccolo impero politico ed economico con ramificazioni, privilegi e protezioni assai estese.
L’evento suscitò talmente tanto scalpore e sdegno che indusse l’intera aristocrazia a coagularsi nel comune obiettivo di sbaragliare definitivamente il pericolo saraceno, riuscendoci.
Se ai Saraceni aggiungiamo anche le incursioni degli Ungari che provenivano da Est ed il banditismo e brigantaggio endemico, in particolare nelle attuali Langhe e Monferrato, tutti questi fattori contribuirono a rendere giustificato l’appellativo di “secolo di ferro” riferito al X secolo, cui si dovrebbe aggiungere anche “fuoco e sangue”, come richiami materiali ed evocativi realistici a quello che abitualmente avveniva in quei tempi, oltre al rischio di finire in schiavitù.
Un secolo di violenze, sopraffazione e sofferenze continue che causarono un grave depauperamento demografico, degrado territoriale e dissesto economico.
Era il motivo per cui molte terre furono abbandonate e vennero nei documenti dell’epoca definite “deserte” (desertis loci), tra le quali soprattutto quelle assegnate agli aleramici, sia al capostipite Aleramo, che successivamente ai Del Vasto, il cui nome si riferisce proprio a “vastus” cioé spopolato, deserto.
Per quanto riguarda l’entroterra piemontese, pressappoco nello stesso periodo in cui i francesi agirono militarmente contro i Saraceni, fu Arduino il Glabro, primo marchese della marca Arduinica a contrastarne l’avanzata e infliggere le prime sconfitte.
Anche in precedenza ci furono alcuni episodi bellici non favorevoli ai Saraceni, come l’aggressione alla città di Acqui nel 936 d.c., dove la reazione della nobiltà locale e della popolazione, che come in poche altre località si era organizzata per reagire efficacemente e collettivamente per costituire un fronte coeso militarmente (un’organizzazione di difesa che oggi potremmo definire di “pronto intervento collettivo”), era riuscita a sconfiggerli e farli ripiegare.
Non sappiamo se questi Saraceni provenissero da Frassineto, ma siccome le cronache dell’epoca riferiscono di un numeroso esercito, è assai difficile che fossero i Saraceni stanziati in Provenza, ma potevano essere gli stessi che avevano recentemente assaltato e saccheggiato Genova, provenienti dal Nord Africa con molte navi e quindi si doveva trattare di una potente spedizione militare a scopo di scorreria.
Si sa infatti che la spedizione navale su Genova provenisse dal Nord Africa, ad opera dei Fatimiti del Maghreb comandati dall’ammiraglio Safian Ben-Casim, ed era composta da oltre 200 navi provenienti sia dalle loro basi in Tunisia che dalla Sicilia. Si trattava quindi senza ombra di dubbio di una potente spedizione militare con un numeroso esercito a bordo.
Mentre invece i Saraceni stanziati ormai da molti decenni in Provenza, oltre ad avere difficoltà a creare un forte esercito essendo ormai dispersi in molteplici località, distaccamenti e presidi militari, non avevano alcuna convenienza a farlo e a devastare le città, visto che le costringevano a pagare loro dei pesanti tributi.
Inoltre era risaputo che la loro violenza bellica sopperiva lo scarno numero, contavano cioé molto sulla paura ed il terrore che incutevano, in quanto non erano mai numerosi; infatti le prime sconfitte che subirono derivarono proprio dalla finalmente organizzata capacità reattiva e dalla coesione delle popolazioni locali che intervennero da ogni direzione ed in netta superiorità numerica rispetto agli aggressori, che, per quanto feroci e determinati, soccombettero alla forza del numero e dell’accerchiamento.
Molti Saraceni in seguito agli eventi sopra descritti, soprattutto quelli finali e risolutivi dell’ultimo quarto di secolo, vennero catturati e resi schiavi, altri si convertirono ed i loro discendenti dapprima vissero in aree marginali sotto forma di clan autonomi denominati “Berberi”, e poi gradualmente si integrarono con gli autoctoni, come dimostrato dall’onomastica, da una molteplicità di nomi di origine e derivazione saracena che progressivamente si diffusero in Piemonte.

Anche loro contribuirono in tal modo a creare le tradizioni locali sui saraceni, frutto di folclore, fantasia, miti e leggende, pervenute fino a noi ed alimentate da tantissimi luoghi comuni e studi e ricerche molto approssimative, condotte soprattutto nel corso del ‘700 ed ‘800 da storici locali (riprese, rimaneggiate e pubblicate ancora pochi decenni fa da altri storici, perpetuando l’errore iniziale) per i quali bastava che un toponimo si riferisse ai Saraceni anche indirettamente e che nel luogo i contadini lavorando la terra rinvenissero delle ossa umane o delle “fosse comuni” o dei sepolcreti, per convincersi che si fossero svolte battaglie contro i Saraceni.
È il caso ad esempio di alcune località nel territorio di Vinchio nell’astigiano, in particolare nel bricco dei Saraceni, contrada dei Saraceni e nella vicina valle della Morte di Cortiglione, oltre all’attuale borgo di Belveglio che sorge in una località che nell’Alto Medioevo era denominata “Malamorte”, luoghi dove in seguito ad alcuni scritti di studiosi locali dei secoli sopracitati, ci si convinse, senza alcun riscontro minimamente oggettivo, si fossero svolte battaglie contro i Saraceni, condotte immancabilmente dal conte Aleramo (all’epoca non ancora marchese).
In realtà sia i toponimi che i ritrovamenti ossei avevano tutt’altra spiegazione, cui si pervenne solo recentemente quando furono alcuni storici qualificati a dedicarsi all’interpretazione dei dati disponibili. Si iniziò con il rilevare che in zona erano avvenute ben due battaglie, ma in Pieno Medioevo, quindi secoli dopo, tra monferrini ed astigiani e poi tra savoiardi e monferrini, quindi le ossa potevano essere conseguenza di esse, e non attribuibili ai Saraceni.
Per quanto riguarda i toponimi si scoprì che nel Codex Astensis, da me già citato diverse volte in articoli precedenti e che consiste in una raccolta trecentesca di cronache e documenti medioevali riguardanti la città di Asti, nel 1211 d.c. compare un atto di cessione di diritti giurisdizionali che fa riferimento ad un certo Saraceno di Malamorte, che deteneva diritti di signoria su questa località, quindi è probabile che i toponimi derivassero da un antroponimo, cioè che i luoghi abbiano assunto il nome dal signore locale. Infatti l’esistenza di un villaggio denominato Malamorte è attestata in un documento fin dal 1165 d.c.. Sarebbe uno dei tanti casi di Saraceni che si sono integrati nelle comunità locali raggiungendo anche posizioni ragguardevoli.

Altro esempio di tradizione focloristica locale con attinenze storiche sono le famose caverne o “Grotte dei Saraceni” di Ottiglio nel Monferrato di area casalese, più precisamente nel colle di San Germano (Valle dei Guaraldi) tra il borgo di Ottiglio e la suggestiva frazione di Moleto, al confine coi comuni di Frassinello ed Olivola, alle quali si sono dedicate nel corso soprattutto degli ultimi secoli svariate decine di studiosi e ricercatori (alcuni improvvisatisi anche archeologi e speleologhi) e si sono scritte miriadi di pagine, a partire dalla fine del XVI secolo fino ai giorni nostri, nei quali grazie alla tecnologia sono disponibili anche alcuni video in internet e filmati andati in onda in trasmissioni televisive nazionali.
Le più antiche origini delle cavità ipogee ottigliesi risalirebbero all’esistenza di un Mitreo, cioé un luogo dedicato al culto di Mitra, quindi di epoca romana. Successivamente in epoca Alto Medievale sarebbero state occupate dai pirati Saraceni, come risulterebbe dalle cronache locali del comune di Frassinello Monferrato, e poi durante le Guerre del Monferrato (Guerre di Successione del Monferrato, la prima iniziò nel 1612 d.c. e la seconda nel 1627 d.c.) divennero rifugio di disertori e sbandati che trasformandosi in banditi e divenendo una minaccia per la sicurezza pubblica, il Senato Ducale del Monferrato ordinò che fossero sigillate, e la tradizione locale tramanda che a causa di questo provvedimento alcuni individui siano rimasti murati vivi coi loro cavalli.
Ipotesi priva di senso in quanto non risulta che l’intervento sia stato effettuato repentinamente e ricorrendo ad esplosivi ma con prolungate operazioni di movimento e scarico di terriccio negli ingressi delle caverne, che si suppone fossero almeno una mezza dozzina, essendo il sito ipogeo all’epoca ancora integro e molto esteso, e quindi le possibilità di fuga sarebbe state molteplici.
Occorre precisare che se le cavità non sono state interamente esplorate in epoche recenti (si presume che la tecnologia disponibile potrebbe favorire i sondaggi), oltre che per gli interventi storicamente sopra documentati, è per motivi geologici, trattandosi di cavità tufacee, cioé arenarie calcaree, dalle quali si estraeva e lavorava, fino a tempi ancora recenti, la famosa “pietra dei cantoni”, denominate popolarmente ma impropriamente “blocchi di tufo”, con le quali si sono costruite le tipiche cascine e case nel Monferrato di area casalese e per la quale è stato creato l’Ecomuseo omonimo, situato a Cellamonte, suggestivo borgo monferrino dove le abitazioni di pietra dei cantoni sono dominanti e ben conservate.
Tali sopradescritte cavità sono prodotte dalle falde di acqua potabile e sulfurea, soggette pertanto a frequenti infiltrazioni d’acqua, smottamenti e crolli ed all’apertura di camini di sfiato che le rendono anche pericolose, strette e spesso ostruite, dalla conformazione irregolare ed instabile.
Ormai le vie di accesso rimaste sono solo due pertugi ed all’interno dell’ipogeo i crolli negli ultimi secoli devono essere stati numerosi, oltre agli incalcolabili danni arrecati dai suoi “frequentatori, di cui accennerò nel paragrafo successivo, che complicarono ancor più la situazione.
È ritenuto tecnicamente estremamente pericoloso inoltrarsi in queste cavità e chi lo fa mette sicuramente a repentaglio la propria vita, meglio precisarlo nel caso qualcuno fosse tentato.

Nonostante questi rischi per l’incolumità di chi si insinua in questi ipogei, tra il finire del XIX secolo ed il secolo scorso si è perso il conto di quanti individui, gruppi, intere famiglie, si siano dedicate ad esplorare ma soprattutto scavare, spesso in maniera approssimativa ed illogica (intralciando e vanificando precedenti lavori di scavo), per trovare nuovi accessi e collegamenti tra le gallerie occluse, alla ricerca di fantomatici tesori ivi sepolti, spendendo anche ingenti quantità di denaro per compiere tali operazioni e sondaggi. Interventi perlopiù vani e maldestri effettuati da decine di improvvisati archeologi, che per non faticare a portare fuori il materiale di risulta lo scaricavano nei vani interni ritenuti non utili ai loro scopi.
Senza contare anche i conflitti insorti, le beghe, diffide e querele causate dalla violazione di proprietà privata e dalle rivalità reciproche. Molto probabilmente questi improvvisati archeologi e minatori si devono essere basati su alcuni scritti ritrovati e ritenuti antichi e credibili o su memorie orali pervenute loro in modi ritenuti riservati ed esclusivi. Fonti che non si sa con certezza a chi possano essere originariamente attribuibili e della cui serietà ed attendibilità è lecito nutrire dubbi, le quali riferivano di Saraceni (Berberi) rimasti imprigionati all’interno delle grotte con il loro bottino, in seguito al crollo dell’ingresso e di alcune gallerie.
Occorre altresì precisare che soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, si sono avvicendati nell’esplorazione delle gallerie alcuni Gruppi Speleologici provenienti da diverse località del Nord Italia, senza peraltro mai pervenire ad alcun risultato di rilievo, confermando le difficoltà oggettive connesse al luogo, che non si presta a facili esplorazioni.

Di maggior impatto psicologico e suggestione è la leggenda connessa alle grotte e che si attribuisce ovviamente a tempi immemorabili, di apparizioni nella notte di Natale di ogni anno (o nel Solstizio d’Inverno), di una “maga” vestita di bianco e fosforescente che con un bacile in mano fuoriusciva dalle grotte della Valle dei Guaraldi, similmente a come un nobile locale nel ‘600 raccontava dovevano apparire i sacerdoti officianti i riti del culto di Mitra, che si suppone avvenissero nelle grotte menzionate. La tunica bianca tipica dei sacerdoti mitraici potrebbe aver indotto gli eventuali testimoni a ritenere fosse una figura femminile, oppure potrebbe riferirsi al “culto delle madri” della religione dei Celti e dei Liguri.
L’ipotesi che il luogo in tempi remoti potesse essere adibito a tempio, per compiere antichi rituali pagani (come quelli sopra esposti), non è affatto peregrina, in quanto è ormai risaputo da tempo che per tali insediamenti venivano scelti luoghi dalle particolari energie geotelluriche, sui quali infatti col passare dei secoli e dei millenni venivano sempre costruiti nuovi templi e luoghi di culto, sopra a quelli pre-esistenti, in quanto era il luogo ad interessare. Sono infiniti i siti di culto, attualmente sono prevalentemente Santuari Mariani (alcuni con notevole tradizione miracolistica) sui quali si sono trovate scavando tracce di due o tre, a volte anche quattro templi di epoche precedenti.
In proposito la Valle dei Guaraldi si presterebbe, essendo caratterizzata dal passaggio di ben due faglie compressive che generano energie telluriche misurate scientificamente, che variano dai 700 ai 2500 nanometri, e rendono il luogo sicuramente interessante ed appetibile, ancor oggi, per tutti coloro che sono alla ricerca di questo tipo di emissioni, particolarmente considerate negli ultimi decenni negli approcci scientifici multidisciplinari in ambito biogeologico e geobiofisico, della bioedilizia, terapeutico alternativo, ecc..
Tornando alla leggenda tramandata in loco, l’apparizione della figura in tunica bianca era sempre preceduta e seguita da una luminescenza potente e perdurante, che si rendeva visibile in tutta la valle e che terrorizzava gli abitanti che si guardavano bene dal curiosare ulteriormente, limitandosi ad osservare il fenomeno da debita distanza. Ci fossero stati in loco degli “ufologi” ante litteram, avrebbero interpretato il fenomeno ben diversamente. Motivo per cui occorrerebbe essere sempre cauti nelle interpretazioni dei fenomeni e degli eventi su cui si indaga, controllando l’emotività.
Ovviamente il racconto è stato tramandato oralmente di generazione in generazione e con garanzia incorporata di assoluta veridicità, suffragata dal timore reverenziale con il quale fino a qualche decennio fa gli anziani raccontavano tali avvenimenti, reminiscenze di quanto a loro volta ascoltato dagli anziani di famiglia e delle borgate confinanti.
Qualche perplessità potrebbe suscitare il riferimento alla luminescenza, in quanto alcuni testimoni locali piuttosto attendibili, negli anni ’50, penetrati nelle grotte per una quarantina di metri e rimasti al buio per esaurimento del combustibile della lampada, hanno assistito ad una lieve ma ben visibile luminescenza sul soffitto della cavità in cui si trovarono, che nessun sondaggio, con prelievi di roccia e test effettuati all’epoca ha potuto spiegare.
Tra gli studiosi che si sono dedicati alle Grotte dei Saraceni, spicca su tutti, per l’esaustività ed accuratezza dei suoi studi, lo storico ed erudito conte Aldo di Ricaldone, che per oltre trent’anni nel dopo guerra condusse scrupolose ricerche in merito, sia documentarie che con sopralluoghi e sondaggi in loco, favorito dall’aver a lungo abitato nei pressi del luogo.
Alla luce di quanto sopra riferito ritengo che semplificare e forzare la mano sia comprensibilmente una tentazione forte nella quale cadiamo facilmente, ma scrivere di Storia (anche a scopo divulgativo), affinché il contenuto sia credibile ed attendibile, richiede molto impegno, prudenza e soprattutto obiettività, per poter pervenire quantomeno a proporre ipotesi verosimili di interpretazione degli eventi e delle circostanze sulle quali si effettuano ricerche, che devono essere il più possibile rigorose. E non sempre chi si dedica a scrivere di Storia assume questi atteggiamenti, caratterizzati da un approccio scientifico o quantomeno improntato ad un minimo di autodisciplina ed autocritica.
Ad esempio sull’epopea antisaracena del marchese Aleramo di storicamente accertato non c’è assolutamente nulla, e quindi tutto quello che si legge del suo eventuale eroismo in battaglia contro i Saraceni è pura immaginazione e/o frutto di invenzioni strumentali e letterarie molto postume (prevalentemente ad opera di cronisti e ricercatori di molti secoli successivi) ed a scopo nobilitante della casata e delle località interessate dagli eventi storici presunti.
Eppure in moltissime pubblicazioni locali, anche di elevata qualità editoriale, siano esse divulgative, sintetiche, promozionali, ecc., si leggono molteplici castronerie sui presunti comportamenti e meriti di Aleramo e sulle origini del Monferrato, che con supponenza fideistica si perpetuano da un autore all’altro, favoriti dalla tecnologia che consente rapidi e deleteri “copia ed incolla”.
L’unica fonte disponibile che mette in relazione gli Aleramici con i Saraceni è nell’atto di fondazione dell’Abbazia di San Quintino di Spigno Monferrato nel quale si accenna all’Abbazia di San Salvatore di Giusvalla “a perfida gente Saracenorum destructa”, in quanto completamente distrutta dai Saraceni verso la metà del X secolo e di cui si sono perse le tracce, ed i beni e diritti furono trasferiti all’Abbazia di Spigno. Nello stesso atto si evince che gli Aleramici vennero in possesso di quelle terre avendole scambiate con l’arcivescovo di Milano.

Per molto tempo, con strascichi ancora attuali, molti sono stati convinti che le origini del marchesato di Monferrato fossero da collocare ad Acqui, dove presumevano Aleramo si fosse coperto di gloria contro i Saraceni, e ritenevano con interpretazioni faziosamente forzate, che le parti omesse, in quanto illeggibili, in un documento storico rinvenuto (il diploma dei re Ugo e Lotario del 933 d.c.) si riferissero proprio alle corti di Acqui, a lui concesse per presunti meriti militari antisaraceni e per questo motivo si riteneva che Aleramo fosse conte di Acqui, oltreché un coraggioso condottiero.
La storiografia ha smentito totalmente queste convinzioni, fin dal 1924 grazie ad un’esatta revisione del documento compiuta dallo Schiapparelli, ma pervicacemente alcuni si arroccano ancora ad esse. Del resto ancora recentemente alcuni politici locali in ambito provinciale hanno fatto affermazioni fideistiche sulle origini acquesi del marchesato e sulla validità della cavalcata aleramica con la quale il capostipite avrebbe determinato i confini del suo vasto feudo, che è pura leggenda priva di qualsiasi fondamento, sulle cui origini tardo medievali con rimaneggiamenti in epoca romantica ho già scritto diverse volte in precedenti articoli. L’alibi pretestuoso di costoro è che ci sia sempre un fondo di verità nelle leggende, almeno finché fa comodo ai loro scopi.
Capisco che a scopo turistico culturale si debba ricorrere a qualsiasi espediente per destare interesse e suscitare fascino nel potenziale turista, ma personalmente ritengo che la faziosità ed il campanilismo storico siano solo deleteri ed irrispettosi verso i potenziali fruitori e residenti di un territorio, in quanto lo studio serio ed approfondito della Storia è di per sé più che sufficiente per potervi attingere notizie interessanti ed efficaci per promuoverne l’immagine, oltre a favorire il senso di appartenenza ed identità di una comunità locale, senza per tanto dover inventare inutili orpelli.
Certo occorre come presupposto dedicarsi a leggere e studiare libri di storia, possibilmente di una pluralità di autori, tenendosi sempre aggiornati, attività che richiede qualche sacrificio ed impegno, ma ben ripagato.

Coglierei l’occasione per intervenire anche sull’equivoco diffusosi e divenuto ormai consolidato nell’immaginario collettivo delle genti monferrine, che il marchesato di Monferrato inizi storicamente nel marzo del 967 d.c., facendo riferimento al diploma dell’imperatore del Sacro Romano Impero Ottone I di Sassonia, che a Ravenna, per intercessione dell’imperatrice Adelaide, confermò le corti già in possesso di Aleramo e gliene assegnò altre sedici espandendo i suoi possedimenti ben oltre i confini dell’attuale Piemonte, ma prevalentemente inserite nel “quadrilatero” geografico strategico cui ho già fatto precedentemente riferimento.
Argomento che spesso nelle semplificazioni mediatiche viene ancora perpetuato, infatti l’ho letto ancora di recente sulla pubblicazione ufficiale della Regione Piemonte, riferendosi ad una rievocazione storica celebrativa avvenuta nella ricorrenza dei mille anni dalla presunta fondazione, cioè nel 1967. Da allora sono trascorsi quasi cinquant’anni, mezzo secolo, e gli studi e pubblicazioni sulla storia del Monferrato sono nel frattempo aumentate in modo esponenziale, soprattutto negli ultimi anni (anche se nella quantità alcune difettano per qualità e scarso aggiornamento dei contenuti, soprattutto i “compendi”, che pretenderebbero di riassumere in un solo volume l’intera complessa e vastissima Storia del Monferrato), e sappiamo per certo che la prima volta che il marchesato di Monferrato viene citato in un documento storico reperito è solo nel 1111 d.c. a proposito dell’allora marchese Ranieri.
Storici autorevoli, alcuni compianti perché deceduti recentemente, reputano abbastanza plasubile che il marchesato esistesse già da alcuni decenni prima del documento rinvenuto, facendolo risalire come minimo al marchese Guglielmo IV (1084-1100 d.c., gli anni in cui ha governato il suo “principato”), altri attribuiscono le origini del marchesato fin dai tempi del marchese Oddone II (1042-1084 d.c.), ma nessuno varca queste date, prima il marchesato non esisteva, faceva parte dei possedimenti della dinastia aleramica gestita in forma consortile, con decine e decine di corti, sparse per tutta l’allora Lombardia.

Nel 967 d.c. sappiamo solo che era una quindicina di anni che Aleramo dal rango di conte era stato elevato a quello di marchese assegnandogli una delle tre marche d’Occidente, la più piccola e centrale (vedi cartografia), il marchesato di Monferrato non esisteva ancora e probabilmente si formò molto tempo dopo, in seguito alla spartizione dei vari feudi in possesso del capostipite (molto probabilmente defunto prima del 991 d.c. e secondo tradizione, di cui storicamente si dubita, sepolto nell’abbazia di Grazzano da lui stesso fondata nel 961 d.c.) tra i due rami aleramici discendenti dei due figli superstiti, Oddone (Ottone) ed Anselmo (il primogenito Guglielmo, unico figlio della prima ed ignota moglie, era morto senza eredi), che si ritiene abbiano gestito in forma consortile i numerosi e vasti possedimenti dinastici fino verso la fine dell’XI secolo quando si accordarono per una divisione consensuale, in seguito alla quale i marchesi di Monferrato si attestarono nei territori più settentrionali.
Gli oddoniani quindi costituirono i marchesati di Monferrato e Occimiano, e gli anselmiani diverranno marchesi di Sezzè (Sezzadio), Incisa, Bosco, Ponzone, e i ben più famosi e potenti Del Vasto, che a loro volta si suddivisero nei Saluzzo, Busca, Clavesana, Ceva, Savona, Del Carretto (Carretto), Cortemilia.
In una delle poche mappe reperibili della situazione politico geografica italica medievale, che vi allego sotto, si può riscontrare la situazione estremamente frazionata dell’Italia del Nord in epoca tardo medievale. Si possono notare, sebbene non tutti indicati con la loro denominazione, i piccoli feudi ancora in possesso della dinastia aleramica nel Piemonte ed in Liguria, oltre ai ben visibili marchesati di Monferrato, Saluzzo e Del Carretto, vi sono quelli più frammentati e di piccole dimensioni contigui al marchesato di Saluzzo, attualmente in provincia di Cuneo.
Tenete conto che all’epoca della cartografia qui rappresentata, una parte della dozzina di marchesati aleramici “anselmiani” iniziali erano estinti e/o stati fagocitati dai vicini.

Interessante notare come il posizionamento del marchesato di Monferrato non abbia quasi nulla della conformazione originaria della Marca Aleramica del 950/51 d.c. (vedi altra cartina) con la quale non dovrebbe mai essere confuso, come invece avviene spesso in ambiente non storico ed in molte pubblicazioni che riportano maldestramente e pedissequamente accenni di storia del Monferrato.
Si può notare come il Monferrato si sia espanso in Pieno Medioevo a nord ovest, inglobando ad esempio il Canavese. Tenete conto che i confini variavano in continuazione secondo il marchese reggente, se più o meno abile condottiero e stratega, se politico e diplomatico accorto ed aggiungerei anche “fortunato”. Confini peraltro sempre contesi e sfumati, soggetti a frequenti variazioni.
La frammentazione o parcellizzazione della Marca Aleramica è probabilmente da imputare all’azione disgregatrice della legge longobarda che parificava tutti i discendenti, cioé attribuiva loro pari diritti successori, oltre che all’esaurimento delle funzioni consortili nobiliari interne alla dinastia, non più accettate dai suoi componenti, oltre alle forti ingerenze delle istituzioni ecclesiastiche che all’epoca condividevano il potere coi nobili. Rammentiamoci che alcuni vescovi erano principi reggenti nelle loro diocesi-feudi, come da noi il potente vescovo di Vercelli che esercitava giurisdizioni in ampie porzioni del marchesato di Monferrato nel corso del Medioevo.
Concludo riallacciandomi al concetto già espresso in precedenza: quella descritta era indubbiamente un’epoca di “ferro, fuoco e sangue”, di paura e di miseria, che contribuì a rendere ancora più cupa e deprimente l’attesa millenaristica, alimentata da superstizioso terrore popolare sulla temuta fine del mondo, cui paradossalmente seguì un periodo di espansione e prosperità dell’Occidente che venne definito il “rinascimento medievale”, nel quale nuove energie, idee ed invenzioni migliorarono le produzioni agrarie, i commerci e la qualità della vita, sempre ovviamente con le croniche differenze di status.

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