La battaglia di Muret e le conseguenze del tramonto occitano

Miniatura che raffigura la battaglia, ripresa da Grandes Chroniques de France.

La battaglia di Muret e le conseguenze del tramonto occitano di Andrea Moneti

Nel corso della storia assistiamo a fatti che apparentemente sembrano avere conseguenze limitate perché si ritiene che appartengono a contesti per lo più regionali. Solo dopo ci accorgiamo della loro reale portata. Uno di questi, a mio modesto parere, è la battaglia di Muret svoltasi il 12 settembre 1213. A molti questo nome non dice nulla, salvo trovare su Google Maps che si tratta di una modesta località occitana ad una dozzina di chilometri da Tolosa. Gli appassionati, e meglio informati, sanno invece che fu uno scontro campale decisivo nella Crociata Albigese. Non è mia intenzione ripercorrere qui i fatti che portarono allo scontro tra la Corona d’Aragona e i suoi alleati, i conti di Tolosa, Raimondo VI, e di Foix, Raimondo Ruggero, con Simon IV de Montfort, né i vari eventi della crociata Albigese che, dal 1209 al 1229, sconvolsero e insanguinarono il Midi francese.
Prima di Muret erano successe molte cose: Béziers era stata annientata e la sua popolazione massacrata (le stime variano da 7000 a 15000 abitanti uccisi, senza distinzione di età, religione e sesso), Carcassonne era caduta e con lei numerosi castelli e città, la maggior parte senza colpo ferire come Narbonne. I francesi, e i mercenari al loro seguito, si comportarono come una forza di occupazione vera e propria, procurando alla popolazione meridionale vessazioni di ogni genere. Simon de Montfort e i nobili che erano scesi con lui si resero protagonisti di una repressione dura, che in molti casi sfociò un regime di terrore. Ai difensori del castello di Bram furono tagliati il naso, il labbro superiore e gli occhi, a Minerve vennero bruciati 150 eretici e a Lavaur, in un unico rogo gigantesco, 400 persone e la castellana, dama Guiraude, gettata in un pozzo e lapidata. Prima di Muret, l’Occitania era in ginocchio e volgeva lo sguardo all’unico sovrano che poteva accorrere in soccorso: Pietro II d’Aragona. Il re spagnolo era cognato del conte di Tolosa e molti nobili della Linguadoca, compreso lo stesso Raimondo VI, erano suoi vassalli. L’occasione arrivò dopo la battaglia di Las Navas, avvenuta nell’anno precedente, con la vittoria schiacciante dei regni cristiani sugli arabi, un episodio decisivo nella “Reconquista” spagnola. Il re aragonese era finalmente libero di intervenire. Mise in piedi un esercito, attraversò i Pirenei e il 10 settembre si ricongiunse a Muret con la milizia tolosana e i contingenti guidati da Raimondo e altri signori meridionali.
Perché proprio Muret? Si trattava di una modesta fortificazione circondata da un piccolo borgo a poche miglia a sud da Tolosa, che Simon de Montfort aveva occupato nell’autunno dell’anno precedente. Difesa da poco più di una trentina di cavalieri e qualche decina di fanti, era l’obiettivo ideale per un assedio rapido e veloce. Essendo situata lungo la Garonne, i meridionali potevano facilmente trasportare i rifornimenti e le macchine di assedio lungo il fiume. La sua conquista non era decisiva per le sorti della guerra, ma utile per minare la reputazione di Simon de Montfort e attirarlo in una trappola. Pietro II e Raimondo VI sapevano che i francesi non erano in grado di mettere in piedi un esercito paragonabile a quello occitano, che poteva contare su 2300-2500 uomini a cavallo, tra cavalieri e sergenti, e migliaia di fanti della milizia tolosana. Era settembre e i rinforzi non sarebbero giunti prima della primavera seguente. Contro ogni logica, Montfort giunse a Muret la sera prima della battaglia, con 900 cavalieri e qualche centinaio di fanti.
Successe l’imprevedibile, ciò che non sembrava possibile, neppure agli occhi del più inguaribile ottimista nelle file francesi. Montfort vinse, dimostrando che non aveva eguali sul campo di battaglia. Accettò lo scontro in campo aperto e, dopo aver disposto la cavalleria su tre linee, si abbatté su quella di Pietro II d’Aragona, che, sicuro della superiorità numerica delle sue forze, aveva organizzato i suoi uomini nella stessa formazione, con il conte di Foix al comando della prima schiera e lui, con un’armatura anonima, nella seconda. La prima carica dei francesi fu dirompente e spezzò il centro della prima linea guidata dal conte di Foix. Subito dietro arrivò la seconda linea che si abbatté sulla seconda linea aragonese. Montfort, che guidava la terza linea, aggirò la cavalleria della coalizione aragonese-occitana da sinistra e si schiantò contro di loro. Probabilmente fu in questo frangente che Pietro II venne ucciso. Confusi e disorganizzati, i cavalieri meridionali iniziarono a ritirarsi e a darsi alla fuga. Montfort radunò i suoi cavalieri e tornò alle mura Muret, dove la milizia tolosana teneva sotto assedio la guarnigione francese. Alla vista dei cavalieri di Montfort, i fanti tolosani si dettero alla fuga verso la Garonna e iniziò la mattanza. Fu un massacro terribile: i morti si contarono a centinaia, migliaia. Praticamente ogni famiglia a Tolosa dovette piangere la perdita di un qualcuno. Questa in sintesi la descrizione della battaglia.
Fu uno scontro decisivo? No, nel senso che la guerra, tra alterne vicende, si protrasse fino al 1229, con la discesa in campo della corona francese. Sì, se guardiamo il lungo termine perché decretò il definitivo arresto dell’espansionismo aragonese in Occitania, lasciando la Linguadoca isolata, indebolita e disgregata (dopo le sconfitte nel Poitou e la battaglia di Bouvines, anche gli inglesi in Aquitania non erano più in grado di essere della partita). L’Occitania poteva fare ben poco per opporsi alla politica espansionistica del regno di Francia, era solo questione di tempo. E qui torniamo al punto di partenza, ovvero: quali conseguenze ebbe l’episodio di Muret sulla vita europea? Perché se le cose fossero andate diversamente, probabilmente avremmo conosciuto una storia diversa?
Per provare a rispondere a questa domanda, prima di tutto, bisogna capire cosa era l’Occitania: non era una nazione (non aveva, infatti, un confine tracciato), ma, piuttosto, una cultura. Era, cioè, l’insieme delle terre in cui si parlava la lingua d’Oc, la lingua dei trovatori. Di fatto, si trattava di un territorio vasto e variegato, che si estendeva dalle Alpi ai Pirenei, dal Mediterraneo all’Atlantico. Occitania era, infatti, parte dell’Aquitania, della Guascogna, della Catalogna, andava dalla contea di Tolosa e la Linguadoca alla Provenza, dal Quercy fino al Monferrato e parte del Nord Italia. Aveva mari e montagne, colline, pianure e ricche città al centro di importanti vie e di campagne rigogliose. Le antiche tradizioni della civiltà gallo-romana, influenzate dalla vicina cultura araba spagnola, si fusero con lo spirito di iniziativa dei suoi abitanti che, attraverso intense relazioni commerciali con gli altri popoli del Mediterraneo, dettero origine, fra il secolo XII e XIII, a una società tra le più avanzate nel panorama medievale europeo, con importanti conseguenze nella letteratura, nel costume e nelle istanze religiose. In Occitania non esisteva la servitù della gleba, il contadino era libero di andare a vivere in città. Alle città erano riconosciute libertà e privilegi e, in molti casi, godevano di autogoverni (o consolati) analoghi ai Comuni dell’Italia centro-settentrionale (che, non a caso, insieme alla Provenza e alla Linguadoca, era l’altra area più sviluppata nell’Europa dei secoli XII-XIII). Cerniera culturale tra l’Europa cristiana e la Spagna ancora in parte musulmana, l’Occitania conobbe lo sviluppo dei commerci e grande ricchezza (basti pensare che il leggendario “paese della cuccagna”, dove benessere, abbondanza e piacere facevano da padrone, esisteva davvero ed era proprio il territorio compreso tra Tolosa, Albi e Carcassonne che conobbe prosperità grazie alla coltivazione del pastel, un vegetale da cui si ricavava una pallina blu, denominata la cocagne, che permetteva di estrarre un pigmento blu utilizzato per la colorazione dei tessuti). Questo significò un maggior grado di istruzione e gusti più raffinati per quanto riguarda l’arte e il vivere elegante. I castelli cessarono di essere centri a vocazione unicamente militare e di potere, per trasformarsi in corti eleganti e brillanti, in cui si incontravano signori, nobildonne, poeti e cavalieri e si diffondevano idee e saperi non solo in ambito letterario ma anche medico e filosofico.
Conseguenza diretta fu la nascita dell’arte trobadorica (dal verbo “trobar”, cioè ideare, inventare) e l’elaborazione dell’amore cortese. La vera innovazione dei trovatori occitani fu quella di comporre per la prima volta dei testi in volgare, scritti per essere accompagnati da uno strumento musicale. La lingua del popolo, della gente, entrava a pieno diritto nella cultura; le canzoni e le poesie non erano più scritte in latino, una lingua per pochi, ma nella lingua di tutti. Unito al fatto che i trovatori erano autori itineranti e andavano di corte in corte, cantando le loro canzoni, questo permise una rapida diffusione della cultura e delle idee. Si può senz’altro dire che, prima di allora, mai nessuno aveva avuto una libertà di parola simile. Dopo secoli di paure e incertezze, impaziente di rinascere, la poesia conobbe un rinnovamento dinamico e gioioso (tanto per fare esempi, senza questi poeti itineranti non avremmo avuto lo Stil Novo toscano, nè la Scuola siciliana).
L’amore cortese, o, come lo chiamavano loro, il fin’amor, era un amore quasi contemplativo, dove la donna era la protagonista assoluta, oggetto di un rispetto ed un’idealizzazione senza precedenti. Tutto questo rappresentava un salto enorme rispetto all’atteggiamento nei confronti dell’universo femminile dei secoli precedenti e di larga parte dell’Europa medievale contemporanea, che risentiva molto degli insegnamenti della Chiesa che considerava la donna responsabile della caduta dell’uomo nel peccato e della sua cacciata dal Paradiso. Fino ad allora, infatti, la donna era una tentatrice, uno strumento del Diavolo, un male necessario. Considerata inferiore all’uomo, il diritto canonico consentiva di picchiare la moglie e di ripudiarla. Non così nelle corti del Midi francese, dove le donne di corte dovevano essere in grado di cantare, suonare strumenti, essere erudite. Alcune di loro iniziarono a scrivere poesie, diventando loro stesse autrici e creatrici di canzone, dette trobairitz. Non crediamo però che l’amore cortese cantato dai trovatori fosse solo spirituale e platonico. Spesso aveva anche componenti sensuali, se non vere e proprie erotiche. E questo amore, erotico e spirituale insieme, era un amore che faceva sentire vivi, un amore gratuito e libero, necessariamente extra-coniugale e contrapposto al vincolo coniugale perché al di fuori di ogni considerazione utilitaristica (la maggior parte dei matrimoni, come sappiamo, il più delle volte erano dei contratti stipulati tra le famiglie per interessi politici e di successione dinastica).
Il fin’amor trobadorico ebbe importanti conseguenze sociali perché richiedeva un’elevazione dei rapporti interpersonali, imponendo il controllo degli impulsi e degli istinti secondo le regole della “convivencia” e le virtù della “mezura”. Tutto questo ispirò parole chiave come la “Jòi” (la gioia di vivere con gaiezza la vita), “Jovent” (la gioventù), il “Paratge” (la lealtà e la nobiltà di cuore), “Pretz” (il valore dei prodi), la “Larguesa” (la generosità, la capacità di donare senza nulla pretendere in cambio) e la “Mercés” (la tolleranza). Questi ideali implicavano apertura mentale e culturale, facendo della Linguadoca una regione tollerante che concedeva alla gente libertà di religione. Una larga fetta della nobiltà occitana aveva abbracciato l’eresia e non è un caso se tra la diffusione della poesia dei trovatori e quella dell’eresia catara ci fosse una sovrapposizione cronologica e geografica: trovatori e perfetti percorrevano le stesse strade e frequentavano le stesse corti, città e villaggi. Spesso accadeva che la propria figlia, la propria madre, o la propria moglie abbracciasse la fede catara: è il caso, ad esempio, della contessa di Foix, Philippa, o di Esclarmonde, sorella del conte di Foix, che divenne una perfetta, oppure della figlia, della madre e della moglie di Pierre Roger de Mirepoix.
Eccoci dunque al nocciolo della questione. Come noto, l’eresia catara è stata la più agguerrita eresia medievale che la Chiesa ha dovuto affrontare, arrivando a scatenare, dopo l’assassinio del legato papale Pierre de Castelnau, la “Crociata contro gli Albigesi”, una crociata inaudita in terre cristiane, che univa gli interessi di Innocenzo III con quelli del re Filippo Augusto, e di suo figlio Luigi VIII, che vedevano l’occasione propizia per impadronirsi di quelle terre fertili e ricche. Per vent’anni (ed oltre se consideriamo la vicenda di Montségur) la regione fu sconvolta dalla guerra, dalle ritorsioni e, poi, dalle persecuzioni ad opera dell’Inquisizione e dei siniscalchi reali. La terra dei trovatori, che alla fine del XII secolo era tra le regioni europee più prospere e avanzate, più libere e tolleranti in Europa, conobbe la rovina sociale, economica e culturale. Per mezzo di matrimoni o di conquiste militari le terre occitane passarono sotto la corona francese e buona parte della nobiltà locale decimata e sostituita da quella dei signori del Nord. Il declino e la fine della poesia trobadorica non tardò ad arrivare (anche perché l’Inquisizione non tardò a condannare il culto della donna del fin’amor arrivando a proibire di cantare le canzoni dei trovatori). Molti dei trovatori che furono accusati di essere eretici e faydits (cavalieri e piccoli nobili che avevano perso tutto e si erano organizzati in una guerriglia), abbandonarono l’Occitania per stabilirsi in Spagna e in Italia.

Pietro II d’Aragona

Tutto questo per tornare al punto di partenza: che Europa sarebbe oggi se a Muret le cose fossero andate diversamente, se Pietro II avesse sconfitto Simon de Montfort? Il tramonto della cultura occitana sarebbe stato altrettanto irreversibile? Il regno di Francia avrebbe conosciuto l’espansionismo e protagonismo nella storia europea dei secoli XIII-XIV? E sarebbe nata l’Inquisizione, I cui primi vagiti si ebbero nel concilio di Tolosa del 1229 in cui si arrivò a proibire ai laici di possedere in casa una copia della Bibbia? Personalmente sono propenso a credere di sì, perché l’eredità che i trovatori (e le corti raffinate che li accoglievano e proteggevano) si lasciano dietro di loro, era davvero moderna. Pensiamo al concetto dell’amore non basato sul possesso, ma fatto di rispetto, di sentimento, di edificazione. Oppure al ruolo della donna, o alla diffusione della conoscenza attraverso l’uso del volgare tramite le canzoni e i sirventesi. Ma più di tutto, la tolleranza che ammetteva apertamente e concretamente la possibilità di professare una fede distinta da quella del clero cattolico. Aggiungiamo. Agli inizi del Duecento, a Tolosa, così come, in pratica, in ogni altro luogo tra il Rodano e i Pirenei, poteva capitare di assistere, nelle chiese e nelle piazza a dispute teologiche tra preti cattolici e perfetti catari di fronte a una platea dei fedeli. La Crociata Albigese mise fine a tutto questo (e Muret è senz’altro uno dei principali episodi di quella tragica vicenda, un vero e proprio spartiacque). Dopo la crociata, i rapporti fra eresia e religione, così come quelli fra istituzioni civili ed ecclesiastiche, non furono più gli stessi, per lasciare spazio al pensiero unico e al dogma imposto che teme le domande e il pensiero. Rappresenta davvero un evento fondamentale nella storia d’Europa, che andrebbe approfondito nelle classi dei nostri ragazzi perché se a Muret le cose fossero andate diversamente, può darsi che l’Europa non avrebbe conosciuto tutto questo. E magari il Rinascimento sarebbe esploso con un anticipo di due secoli.

Andrea Moneti

Nato ad Arezzo. Ingegnere gestionale (quadro aziendale) e appassionato di storia (specialmente medievale) e trekking.
Libri pubblicati: Eretica Pravità (Firenze, 2004), 1527 – I lanzichenecchi a Roma (2005), Il mercante di eresie (2007).
Vincitori di vari premi letterari.
Contatto e-mail dell’autore: moneti.andrea@alice.it.

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