La cavalleria nella storia: usi e tecniche di una cultura cavalleresca non solo feudale

La cavalleria nella storia: usi e tecniche di una cultura cavalleresca non solo feudale di Luca Berdini & Riccardo Renzi
L’uomo montato a cavallo non è un’immagine come tante.
Nella cultura occidentale, egli è prima di tutto un simbolo e un’icona, anche pop nell’antonomasia della sua definizione: “il cavaliere”.
Poche figure sono altrettanto dense e pregnanti: nobiltà, forza, giustizia e coraggio sono qualità che ad essa attribuiamo spontaneamente, immaginando un guerriero in sella, sgargiante in quei colori araldici, che ne erano l’unico elemento di identificazione, quando tutta una persona fosse celata dentro armatura ed elmo.
Protagonista di opere letterarie sin dall’età feudale, il cavaliere era – e resta anche al giorno d’oggi – un archetipo etico e sociale.
Eppure, appena si indaghi l’etimologia del termine, si realizza che nessuno sarebbe potuto diventare tale senza quel necessario complemento che è il cavallo.
Nonostante nel corso delle epoche questo compagno sia stato declassato da co-protagonista a mera comparsa della storia umana, esso assurge al rango di metafora del feudalesimo, al punto che i cosiddetti “secoli bui” hanno visto risplendere quella elitaria forza speciale, data dall’unione dell’uomo con la sua cavalcatura, con maggior fulgore di quanto nell’antichità ebbe il mitico centauro: alla forza selvaggia e irrazionale del bimorfismo mitologico, nel lungo millennio dell’età di mezzo il cavaliere passò dal costituire un’arma tecnologicamente avanzata all’incarnare la totalità dei valori della cultura aristocratica dell’epoca, sublimando la forza nell’etica, grazie anche all’intervento della Chiesa, che trasformò un requisito fisico in una virtù morale.
Nello scarto tra l’Alto e il Basso Medioevo si struttura questo mito occidentale del doppio unitario: il binomio equestre, dato dal conduttore e dalla monta cioè, fonda nell’equitazione le radici della cavalleria in senso lato e tale particolarissimo rapporto, finalizzato ad un impiego strumentale, è all’origine di questa riflessione, in quanto la cavalcatura non è semplicemente un mezzo di trasporto, ma è un animale e deve, pertanto, esser riscoperta in questa sua essenza, anche a livello storico.
Conoscerne i gesti, capirne come condurre significa, quindi, comprendere la cavalleria dalla sua primigenia prospettiva, quella funzionale.
Fatta tale premessa, è bene, come si conviene, cominciare dalle basi, che, nel caso del nostro cavallo, sono letteralmente tali: le sue zampe. I quattro arti del cavallo, infatti, possono esser appaiati in base alla relazione motoria che tra loro si instauri, originando, pertanto, sei bipedi, ovvero accoppiamenti di zampe coordinate durante la locomozione (cfr. fig. 1).

FIGURA 1 – DISTRIBUZIONE DEI BIPEDI EQUINI

Dal tipo di sincronismo del loro spostamento e dalla frequenza nella falcata, si determina l’andatura equina, cioè lo spostamento vero e proprio. Delle tre andature naturali di un cavallo, è il galoppo quella che in questa analisi si presenta cruciale, perché cardine di ogni impostazione che voglia essere ippica.
Il galoppo, che è l’andatura più veloce che un cavallo possa avere, mostra un ciclo degli arti talmente celere da non essere nitidamente osservabile ad occhio nudo nelle sue fasi: fu solo nella seconda metà del XIX secolo grazie agli studi cronofotografici di Eadweard Muybridge, che si poterono cogliere per la prima volta i vari istanti del galoppo equino, così da averne un’accurata analisi.
Nella sequenza prodotta da varie macchine fotografiche azionate in successione (progenitrice della moderno rallenty), Muybridge identificò, nei singoli fotogrammi, la successione dell’impulso articolare e il riorientamento di base del moto corporeo da un piede (o zoccolo) all’altro, per cui il galoppo risulta saltato (cioè con una fase di sospensione in aria di tutti e quattro i piedi contemporaneamente), ma in modo asimmetrico (cioè con predominanza di uno dei due arti anteriori nell’andatura che si presenta perciò basculante), così da strutturarsi in tre tempi. C’è di più.
In accordo alla spinta delle zampe posteriori che determina la guida preferenziale (ovvero l’asimmetria) degli anteriori, identifichiamo due tipi di galoppo: il galoppo destro (durante il quale la sequenza di spinta comincia con l’appoggio a terra della posteriore sinistra, quindi dell’altra posteriore nel bipede diagonale sinistro, infine dell’anteriore destro) e il galoppo sinistro (in cui le fasi sono rovesciate specularmente). Un cavallo che conduca con l’anteriore destro, pertanto, in realtà riceve l’impulso dalla posteriore sinistra, la quale spinge in fuori diagonalmente, mentre le altre due gambelavorano come bipede diagonale opposto, con l’appoggio dell’altra posteriore e, quindi, dell’anteriore sinistra.
L’illustrazione e la comprensione di questa sequenza meccanica delle fasi del movimento equino risulteranno fondamentali per il proseguo della nostra analisi, nella quale osserveremo come un’andatura naturale debba diventare qualcosa di artificioso perché vincolata a dei comandi, a causa dell’addomesticamento prima e dell’addestramento poi.
Quando il cavallo, infatti, da animale selvatico divenne domestico mutò sia la sua storia, sia quella del genere umano: tale rapporto, simbiotico fino all’avvento del motore a scoppio – e sopravvissuto anche oggi nella pratica sportiva -, si trasformò nelle varie epoche, contribuendo sia all’evoluzione dell’umanità, sia a quella della specie equina stessa, con la selezione genetica di nuove sottospecie.
La caratterizzazione funzionale del cavallo, quindi, si associa a quel processo di ammaestramento che storicamente è alla base di questo rapporto biunivoco, ma che appare ancor più peculiare nella monta militare prima che lavorativa (ovvero la cavalleria propriamente detta). La disciplina che da ciò ha avuto origine è l’equitazione, altresì l’ippica, per definirla con quel termine greco con il quale Senofonte la rese antonomastica nel titolo del proprio scritto.
Nonostante così antichi natali, vi è un problema filologico nell’approccio a questo sapere.
Se lo storico greco compose un’opera per certi versi inaugurale di un topos e di una tradizione letteraria già nella metà del IV secolo a.C., come mai i trattati omologhi scomparvero fino a quel lavoro – capitale per la moderna pratica equestre – che fu Gli ordini di cavalcare di Federico Grisone nella metà del XVI secolo? C’è da pensare che in quasi due millenni, soprattutto durante quell’età feudale, epoca di grande impiego e considerazione del cavallo (sebbene di limitata, perché costosissima, circolazione libraria), il capostipite ellenistico sia rimasto un apax legomenon?
Per l’estensione della periodizzazione, ma soprattutto per quella gamma di tecnologie che nel corso del tempo sarebbe stata introdotta per cavalcare e che, specie nel Medioevo, avrebbe caratterizzato l’equitazione, la domanda appare tanto aperta quanto legittima. Per rispondere, occorre cominciare da una premessa.
L’ippica, quantunque al giorno d’oggi sia considerata uno sport, risulta probabilmente tra i pochi saperi umani a conservare il carattere originario della conoscenza, ovvero la tradizione orale: cavalcare, infatti, tradizionalmente si impara da un maestro e l’insegnamento pratico è ancora il corso normale nonché migliore per l’apprendimento, fondandosi sulla condivisione di esperienze personali e conoscenze generali. Come arte, essa può assimilarsi alla musica, non solo per il particolare senso del ritmo, ma proprio perché incentrata sull’interpretazione, tant’è che nessuno che voglia avviarsi a tale disciplina considererebbe come prima opzione quella dell’autodidattica tramite lo studio di un manuale, sebbene, ancora al giorno d’oggi, i trattati equestri siano numerosi, discendenti diretti del best seller grisoniano che assurge ad archetipo moderno.
L’equitazione si svela, quindi, come arte e come disciplina, fondandosi su una raffinatissima istruzione, basata a sua volta su una prassi e su di un continuo tirocinio, il cui impianto si conserva tutt’ora nel moderno dressage. Nonostante l’assoluta diversità di condizioni ambientali tra un campo di battaglia o di torneo e l’area di gara perfettamente piana e curata contemporanea, nel dressage ritroviamo quanto un destriero montato avrebbe eseguito, sia in destrezza sia in prestanza atletica.
Nell’ippica, la pratica e l’istruzione risultano costanti e quasi quotidiane, sia per l’animale sia per il suo cavaliere. Esse duravano – come durano ancora oggi – anni, in pratica non terminando mai, così da trasformare l’addestramento in una simbiosi basata sulla comunicazione non verbale.
La naturale propensione per talune movenze spontanee equine è il fondamento didattico dell’esercizio: i gesti sono, perciò, “inquadrati” in un canone così da creare messaggi codificati di impulso – i segnali – finalizzati a strutturarsi in figure di maneggio, cioè l’insieme dei movimenti indotti dal cavaliere che l’animale apprende per corrisponderne la volontà.
Stando a quanto finora appreso, occorre parecchio tempo per istruire un cavallo e ancor più ne occorreva nel Medioevo quando le razze erano più “fredde” di quelle selezionate nella modernità, sicché la lunga pratica di coordinamento nei gesti della cavalcatura corrispondeva ad una sintonia tra l’istruttore e l’istruito, che li avrebbe portati a muoversi in solido e all’unisono.
Fulcro di tutto il training sarà il cambio di galoppo (o cambio di guida), ovvero la variazione di appoggio degli zoccoli durante tale andatura così da condurla con un’anteriore rispetto all’altra. Replicare una movenza che il cavallo compie istintivamente allo stato brado è, invece, assai arduo nella coordinazione tra volontà umana ed esecuzione animale: cogliere l’attimo esatto in cui impartirlo rimane ancor’oggi la pietra miliare della prassi equestre
Tra i più fini aspetti dell’addestramento, tale variazione si presenta cruciale per la performance. Il momento ideale per essa si ha durante la sospensione (il salto), quando tutti e quattro gli zoccoli sono sollevati dal terreno: in questo frangente, il cavallo può invertire il suo galoppo, ovvero l’ordine in cui i piedi posteriori atterrino, facendo rovesciare la sequenza anche di quelli anteriori. Tale variazione avviene con un minimo segnale, fornito con il tallone e amplificato dallo sperone (l’aiuto), per innescarlo. Un galoppo corretto rende l’andatura ritmica e regolare, favorendo la solidità dell’assetto, sicché il perfezionamento di tale manovra appare essenziale per l’equilibrio dinamico del binomio e un veloce cambio di direzione.
Approfondendo l’analisi della sequenza del galoppo (cfr. figura 4), la spinta del bipede diagonale da dietro è la vera forza (in senso fisico) che muove il cavallo. Si spiega così perché il mutamento di guida dall’arto posteriore sia insegnamento imprescindibile: il segnale è verso la zampa che spinge, sicché, ad esempio, per indurre un galoppo sinistro, il cavaliere muoverà la sua gamba destra appena dietro il sottopancia sul fianco destro dell’animale durante la fase di sospensione.
Tale capacità di maneggio si connota, pertanto, come decisiva nelle pratiche belliche (fossero esse vere e proprie azioni di guerra, fossero giochi militari come i tornei), poiché un cavallo può voltare più velocemente se conduce con la zampa dello stesso lato.
Se l’importanza avuta nell’età di mezzo dall’istruzione del palafreno a non impaurirsi per il rumore e a galoppare a testa alta fosse stata già resa paradigmatica da Senofonte, al contrario, il significato del maneggio e della condotta nelle pratiche belliche rimane ancora scarsamente considerato: un palafreno in battaglia era sia un mezzo di trasporto sia un’arma esso stesso – a condizione, però, che entrambi i componenti del binomio fossero altamente perfezionati in tale arte. Nell’equitazione, ai gesti evidenti che il cavaliere compie con mani e piedi, se ne affiancano altri, meno appariscenti perché impartiti con appositi dispositivi (gli aiuti, ovvero tutti gli elementi della bardatura, includendo briglie, speroni e staffe, perché parte integrante della sella), con i quali si enfatizza il comando, si conduce maneggiando. Condurre un cavallo, insomma, non era – come non è – semplice e condurlo in combattimento ancor meno: nessun cavaliere medievale, infatti, sarebbe sceso in lizza o entrato sul campo di battaglia senza aver prima trascorso quel lungo periodo necessario ad addestrare la propria cavalcatura, affinché non rispondesse solamente a semplici comandi, impartiti con briglie (le volte e l’arresto) o gli speroni (partenze e cambi di velocità), ma connaturasse l’intento della guida.
Ma da dove hanno origine questi dettami?
La tradizione cavalleresca occidentale, come anticipato, trova il suo archetipo letterario, quasi 2.500 anni fa, nell’opera antonomastica di Senofonte, la quale non solo raccolse per prima tale patrimonio, ma diede ad esso anche un nome, ancora in uso: ippica. Con il titolo Περὶ ἱππικῆς (dal gr. L’ippica), infatti, lo storico greco compose, attorno al 350 a.C., un trattato didascalico riconosciuto, ad oggi, come il primo sull’argomento, ma anche il solo, fino all’omologo di Grisone.
Paradigmatico al punto da risultare ancora attuale, il canone presenta, nelle sue 12 sezioni, i vari aspetti della convivenza con il cavallo, dalla scelta all’accudimento (il governo), dall’addestramento all’impiego sia militare sia lavorativo. Con stupefacente modernità nell’approccio tecnico, Senofonte precisa altresì gli elementi basilari del cosiddetto maneggio, precorrendo quello che è il moderno dressage.
La pratica sportiva attuale, però, trova la sua filologica origine nell’altro trattato menzionato, ovvero Gli ordini di cavalcare, scritti da un academico del XVI secolo, Federico Grisone. Dopo lo storico ellenico, dopo quasi due millenni cioè, il maestro napoletano formalizzava un nuovo codice equestre, il quale avrebbe avuto stupefacente fortuna, perché dal capoluogo partenopeo si sarebbe diffuso in tuta l’Europa settentrionale, come un best sellers dalle molteplici edizioni e traduzioni. Da tale pluralismo editoriale nacque la tendenza al particolarismo che l’ippica vive tutt’ora, anche per la parallela e costante selezione equina.
La soluzione di continuità letteraria tra il trattato ellenistico e quello napoletano suggerisce, dunque, che in Europa occidentale dovette sussistere una sostanziale continuità nelle pratiche e nelle tecniche ippiche, se si sottolinea come il secondo, seppur rinascimentale, prospetti un contenuto analogo al primo, mentre questa interruzione induce a ricostruire – con più probabilità che certezza–la maniera in cui figure di maneggio e manovre venissero eseguite.
Una prima concretizzazione di quest’ultimo intento la si ottiene attraverso le parole di Liutprando di Cremona, (vescovo e diplomatico del X secolo), che, nella sua Antapodosis, offre una testimonianza tanto preziosa quanto involontaria, descrivendo un duello della fine del X secolo:
«… e [il bavarese] cominciò ora a spingere avanti con vigore il cavallo addestrato a voltare, ora a trattenerlo con forza. … E quando furono in modo tale che si sarebbero potuti ferire l’un l’altro, come al solito il bavarese cominciò a muoversi, con il cavallo che gira con facilità, secondo curve mutevoli ed ingannevoli, in modo che potesse confondere Ubaldo con tali manovre. In verità, allorché con quest’arte voltava le spalle [a Ubaldo], in modo da colpire, tornando indietro all’improvviso, Ubaldo girato di lato, il cavallo, su cui Ubaldo montava, fu colpito vigorosamente con gli speroni e attraverso le scapole, prima che il bavarese potesse voltarsi, dalla lancia fu perforato fino al cuore. Ubaldo, allora, prendendo il cavallo bavarese per la briglia…». (Liutprando di Cremona, Antapodosis, libro 1, cap. 21)
Nel sintetico, ma drammatico quadro che la narrazione di Liutprando dipingeva, addestrato a voltare e che gira con facilità sono attributi equini non ordinari, perché propri di un cavallo addestrato con tale maestria da esser preda di guerra del vincitore, l’attendista Ubaldo. Questo passaggio induce a considerare, di conseguenza, l’avvicinamento, fatto di finte e volte che il bavarese poté eseguire solo grazie a un destriero perfezionato in tale maneggio: l’aggettivazione che ne rappresenta la facilità di esecuzione permette di apprezzare il grado di istruzione a cui l’animale era arrivato, prassi impossibile senza un accurato e costante training al cambio di guida e di direzione.
Altri dettagli del testo, inoltre, catturano l’attenzione, denotando un livello sofisticato di equitazione anche nel X secolo. Seppur il bavarese, infatti, orchestrasse una tattica diversiva di avvicinamento fatta di finte e di volte, la base della sua condotta stava nel richiamo dell’attenzione della cavalcatura, ovvero la cosiddetta raccolta: il tirare indietro ed il tendere le redini testimoniano tale tecnica, con la quale il cavaliere rende l’animale attento a ricevere un comando.
Se la cronaca definisce i giri compiuti dal germanico mutevoli ed ingannevoli al fine di non presentare al nemico un’avanzata prevedibile – strategia che denota timore nei suoi confronti – grazie ad un numero variabile (variabili) di passi, viene parimenti rivelato che il cavallo dovesse essere ben pronto alla ricezione dei segnali che ne stabilivano il tragitto, quasi anticipando tali impulsi, oppure, semplicemente, predisponendosi ad essi con estrema sensibilità.
Questa maestria nel volteggio equestre, tuttavia, non è una rappresentazione isolata nelle fonti letterarie: a fronte di un’attenta ricerca, affiorano, di tanto in tanto, analoghi cammei sia in testi latini – limitatamente, però, a manovre di gruppo-, sia in quelli mediolatini, come nel caso del magistrale bretone tratteggiato da Ermoldo Nigello.
Nel distico:
«Veloce monta a cavallo, incita con pungoli acuti
Tenendo i freni; il quadrupede compie volte variabili»

(Ermold Le Noir, Poème sur Louis le Pieux et épitres au roi Pépin, III, 1630-31)
Veloce ci sottolinea la destrezza del cavaliere nel montare in sella: quest’azione preliminare, che può eseguirsi in varie modalità, resta cruciale durante un combattimento, soprattutto per un uomo armato e corazzato, il quale, pertanto, compiva la salita zavorrato e intralciato. L’aggettivo appare, quindi, indice non solo di prestanza fisica, ma anche di addestramento equestre da parte del conduttore, prassi questa già stabilita come parallela a quella della cavalcatura.
Nei due emistichi di fine primo ed inizio secondo verso, invece, la tecnica della raccolta viene associata al segnale: il tenere a freno l’animale, in concomitanza della stimolazione con gli speroni (trattandosi di stimoli acuti), descrive un’acme dell’attenzione del binomio equestre, pronto a scattare il cavallo, ma altrettanto attento a cogliere l’attimo il cavaliere. Il quadro icastico di un’eccellente arte equestre si completa, infine, nella porzione conclusiva del distico quando viene presentata la capacità della cavalcatura di performare figure di maneggio in maniera quasi indipendente. Si può sostenere ciò perché, logicamente, risulta avere maggiore rilevanza non il complemento oggetto della frase (i giri mutevoli), quanto il soggetto, ovvero l’animale (il quadrupedes): il cavallo è, perciò, diventato protagonista dell’azione, punto di riferimento del predicato verbale, condizione che mostra un’autonomia forse non solo grammaticale, ma anche rispetto all’uomo che era soggetto implicito del verso iniziale.
In questa prospettiva “ippo-centrica”, Nigello permette di cogliere come le cosiddette basi dell’equitazione, sin dal canone di Senofonte, fossero rimaste pressoché cristallizzate. Il cambio di guida rimaneva fondamentale nel combattimento, eppure non va dimenticato il contributo determinante dei dispositivi tecnologici a questa prassi.
Il cavallo poteva voltare con facilità e rapidità, ma il cavaliere doveva pur esser in grado di farlo esprimere con tale destrezza, avendo altrettanta perizia. L’uomo in sella doveva inoltre mantenere l’assetto, in una solidità dinamica che garantisse la cura della conduzione della cavalcatura prima che del mero mantenimento in groppa.
Sebbene le selle si fossero nel tempo evolute così da fornire una maggiore sicurezza e stabilità del guerriero montato, vi è un dettaglio invisibile, non rappresentato né da Liutprando né da Ermoldo, che era pur presente in quanto indispensabile, ovvero le staffe.
Le evoluzioni, che sia il bavarese sia il bretone potevano eseguire – come le false ritirate che sanciscono l’epilogo del primo -, dipendevano dall’appoggio che veniva garantito ai piedi: scaricare il peso delle gambe durante le andature meno veloci, fornire stabilità nelle volte, prima che favorire la monta in arcione sono le funzioni principali di queste due semplici strisce di cuoio, penzolanti ai lati della sella, della quale, dall’Alto Medioevo, divennero parte integrante.

Gli aiuti al piede del conte Friedrich von Leiningen, ovvero staffa e sperone. (F, 26R – Codex Manesse)

Questo accessorio, tanto semplice quanto efficace, costituisce il vero fulcro della monta, consentendo il costante allineamento del baricentro umano sul ritmo delle falcate equine. Il peso del tronco del cavaliere ricade sulla sella durante l’incedere, sebbene con un sobbalzo ritmico che asseconda l’andatura, mentre le staffe, sostenendo le gambe, diventano trait d’union tra l’impulso animale e la volontà umana.
Nonostante sia da tenere in dovuta considerazione che le razze equine dell’epoca fossero notevolmente difformi dalle attuali per dimensioni e taglia – specialmente palafreni o cavalli da guerra in genere -, la lunghezza delle staffe per un cavaliere medievale prescindeva dalle misure del cavallo, perché stabilita sulla distanza che avrebbe lasciato il tallone in linea con il sottopancia equino – e quindi basata essenzialmente, come ai giorni nostri, sulla proporzione umana.
In questa breve analisi dell’implicazione equestre delle tecnologie medievali per il combattimento in sella, va pure menzionato l’altro aiuto al piede del guerriero, ovvero lo sperone.
Elemento distintivo già alla nomina a cavaliere, perché facente parte del corredo del nuovo status, questa coppia di forcelle veniva indiscutibilmente reputata di notevole importanza, al punto da esser oggetto di dibattito da parte di tutti gli autori di trattati equestri sin dal Rinascimento.
Anticipando il moderno dressage – di cui gli Ordini di cavalcare, lo ricordiamo, costituiscono l’archetipo -, già Grisone puntualizzava che gli speroni non debbano agire da meri pungoli per accelerare l’andatura, ma debbano comunicare – sottilmente – gli impulsi del cavaliere, enfatizzando i segnali per l’esecuzione del maneggio. Lo stimolo dato dietro al sottopancia equino, infatti, è il segnale per innescare il cambio di passo sulla spalla opposta del cavallo, alla quale si appoggia l’altro piede del conduttore. Mentre inizia la manovra, già con la torsione del busto, l’uomo l’asseconda con le gambe, sforbiciando.
Anche nell’ippica moderna l’aiuto al cambio di guida viene dato con questo dispositivo: durante la sospensione del cavallo al galoppo, il gesto del tallone del cavaliere, che induce la zampa posteriore ad innescare la guida sull’anteriore opposta, viene enfatizzato proprio dall’acutezza del pungolo, che sollecita il sottopancia equino.
Se, nella meccanica umana, il movimento del tallone sia naturalmente preceduto dall’irrigidimento del polpaccio, l’ipersensibilità di un cavallo addestrato ai semplici e minimi scorrimenti delle gambe del cavaliere sul suo torace determina un anticipo della risposta, precorrendo lo stimolo (il pungolo) vero e proprio. Un destriero associa prontamente un movimento con un altro così che ogni minimo aiuto si faccia precedere dai gesti introduttivi del cavaliere.
È pur vero, però, che nello sport moderno vi sia una sostanziale differenza dal combattimento equestre medievale: nell’ippica contemporanea l’attenzione del cavaliere volge tutta all’equitazione, mentre quella del guerriero montato doveva esser necessariamente rivolta agli eventi circostanti, al fine di analizzarli, prevederli e corrisponderli. Inoltre, gli elementi di armatura applicati su gambe e stinchi rendevano impercettibile l’anticipo da contrazione muscolare.
Questa riflessione evidenzia, tuttavia, come fosse lo stesso costume d’arme dell’uomo in sella a enfatizzare i suoi gesti di preannuncio, poiché ogni minimo movimento delle gambe risultava in tal modo più “ruvido”, mentre lo sperone confermava questo spostamento preliminare: per un combattente che rivestisse schinieri posticci o armatura di piastre, al momento dello scontro, con le mani impegnate a brandire un’arma e a reggere uno scudo, la conduzione del cavallo avveniva con le sole gambe, grazie alla flessibilità e alla stabilità delle staffe, le quali, infatti, per la loro elasticità, consentono ai piedi dell’uomo quel movimento “a forbice” già descritto.
La scomposizione quasi procedurale delle fasi del maneggio permette, allora, di cogliere, nuovamente, la complessità dell’arte di condurre un cavallo, così da fornire ulteriore consapevolezza dell’elevato grado di istruzione che ogni elemento del binomio equestre doveva – come ancora oggi deve – ricevere: costanza e metodicità sono alla base di un processo finalizzato ad interiorizzare e, quindi, eseguire al meglio non solo le figure di base, ma anche quelle più complesse o collettive, come le finte ritirate.
Se, poi, questa mossa diversiva – sia a livello individuale sia in formazioni di cavalleria – venne praticata usualmente nell’antichità come nei secoli IX e X, dovette di certo avvenire tanto per l’impiego di cavalcature addestrate ai cambi e alla manovra collettiva, quanto per l’adozione di dispositivi tecnologici sempre più idonei alla sua accelerazione, permettendo un livello maggiore di sicurezza nella monta che, di conseguenza, consentisse migliore precisione dei comandi.
Ma mentre, per scatti, il progresso tecnologico supportava con nuovi ritrovati l’arte equestre, questa restava  “canonizzata” in modo assoluto nella sua prassi dogmatica. Il caso del mosgermanicum di cavalcare, di cui parla pure Tacito, basata sulla manovra e la svolta a destra, appare esemplare perché attestato non solo a livello letterario già nel I secolo d.C., ma comprovato a livello archeologico, nella cultura materiale di oltre mezzo millennio dopo.
Tacito scrive infatti:
«I cavalli non si distinguono né per bellezza né per velocità. Tuttavia non sono abituati a fare diverse evoluzioni come è nostro uso: li spingono o davanti o a girare a destra, in un modo così compatto che nessuno rimane indietro»
(Tacito, Germania, 6, 3:)
Ritrovamenti archeologici altomedievali, infatti, confermano la preferenza a svoltare a destra, assecondando cioè non solo la naturale tendenza umana ad esser destrimane, ma anche la conseguente disposizione in mano dell’equipaggiamento, che, solitamente, vedeva il guerriero tenere con la sinistra lo scudo e con la destra l’arma, così che il cambiamento di direzione destrorso ne lasciasse coperto il fianco rispetto al nemico.
In un catalogo dei corredi funerari di oltre 700 guerrieri, tumulati tra la fine del VII e l’inizio del IX secolo nella Francia orientale, appare tale conferma: delle 85 tombe sicuramente equestri, 62 avevano almeno uno sperone; quando fosse singolo, lo sperone era sul piede sinistro. Questa apparente anomalia testimonia, invece, la pratica della svolta a destra con relativo cambio di guida, perché il solo aiuto di cui il cavaliere disponeva era rivolto a sollecitare il galoppo destro.
Anche nell’erudizione tardo Ottocentesca venne già data una spiegazione analoga a simile ricorrenza, laddove gli stessi guerrieri Germani portavano solo uno sperone – e sul piede sinistro.
Considerando anche la testimonianza latina, l’oggetto doveva essere spaiato per la predilezione di far manovrare il cavallo a destra, visto «che porta la mano armata per prima al nemico».
Lo stesso Grisone, alla metà del XVI secolo, insegnava ancora al cavaliere a indurre il cambio di passo sulla zampa destra, tenendo il piede destro contro la spalla del cavallo e il piede sinistro un po’ dietro il sottopancia. Questa modalità di girare continuava, quindi, ad essere basilare per il compiuto cavaliere nonostante i secoli trascorsi, se l’autore napoletano ne codificava un uso strumentale nella giostra.

Frontespizio de “Gli ordini del cavalcare” nell’edizione veneziana del 1571

All’epoca de Gli ordini di cavalcare, le giostre ed i tornei erano gli ultimi contesti in cui praticare – ma soprattutto esibire – un’arte equestre che della cavalleria primigenia – cioè della guerra montata – conservava le forme senza più alcun impiego pratico. L’opera di Grisone corrispondeva in questo ad una lunga tradizione letteraria nella quale si inseriva, pur nella novità del suo taglio.
La letteratura, infatti, principalmente quella cortese, aveva prolissamente descritto tornei sin dal XII secolo, formalizzando infine una sorta di protocollo delle modalità di svolgimento. In questa propaganda di ideali e di costumi aristocratico-feudali, la pagina scritta aveva reso l’evento para-militare un cardine dell’epopea cavalleresca, tant’è che il fascino che queste riunioni suscitavano interessava ogni classe sociale (aristocratici, borghesi, popolani, tutti senza distinzioni).
Dalla primissima descrizione, apparsa nel XII secolo nel Romanzodi Tebe, il racconto di torneamenti divenne una sorta di topos letterario che accomunò i testi francesi di Chrétien de Troyes, come  quelli tedeschi di Wolfram von Eschenbach, passando per l’inglese Chaucher, senza però acquisire quell’uguaglianza di contenuti e di caratteri che sarebbero arrivati solo quasi quattro secoli più tardi, attraverso l’opera dell’accademico partenopeo, il quale della cavalleria avrebbe codificato, insieme alle tecniche, anche le forme sociali,.
Nelle indicazioni per rendere animosa una cavalcatura, proponendo esercizi in forma di giostra ne Gliordini, i due cavalieri dovevano prima percorrere la lunghezza del repolone per dieci passi uno di fronte all’altro, quindi trottare dolcemente in direzioni opposte fino a raggiungere la linea di partenza, infine ognuno di essi, fatto un giro sulla pista destra, correva incontro all’opposto cavallo. Quando essi arrivavano in fondo al divisorio, i cavalieri facevano un giro sulla pista sinistra.
Sebbene non infrequente fosse il venir meno del rispetto di “codici di condotta” analoghi a questo, nel protocollo strutturato dall’accademico partenopeo come nell’analisi delle manovre dei protagonisti dei testi mediolatini esaminati, se il cambio di passo avviene durante il balzo, doveva esserci sintonia in ogni fase del maneggio dei binomi equestri, ma doveva pure esserci un retroterra culturale che fosse comune ed universalmente condiviso, almeno fino a Grisone.
Questa assunzione si può, da un lato, dedurre dal sostrato letterario e dall’impianto pedagogico greco che la tradizione ippica occidentale annoverava allora più di oggi, dall’altro, argomentare attraverso eventi come l’atto conclusivo dello scontro di un Ubaldo vittorioso, ovvero la cattura del cavallo come bottino di guerra.
Tale condotta appariva consolidata già all’epoca di Liutprando di Cremona, come visto, ma addirittura funzionale e lucrosa nel XIII secolo, in un’epoca già profondamente cavalleresca negli ideali da vederne condizionati i costumi, come le manifestazioni, soprattutto riferendoci ai tornei. Durante queste forme di “combattimento sportivo” i partecipanti avevano non solo l’occasione di far mostra di sé nel più alto consesso feudale ed aristocratico di un territorio, ma anche di poter provvedere alle proprie necessità economiche con il riscatto di avversari prigionieri e con il ratto delle cavalcature, il cui valore poteva esser estremamente cospicuo. L’alto prezzo per un singolo palafreno si comprende meglio nel lungo processo di addestramento a cui l’animale veniva sottoposto per esser funzionale al torneamento, prima che nell’intrinseca qualità fisica che esso possedesse:  i cavalieri, per questi eventi, necessitavano di cavalcature particolarmente performanti e, pertanto, sottoposte ad un distinto regime di alimentazione e di allenamento funzionale, il quale occupava gran parte della giornata – più nella brutta stagione che nella bella, quando l’esercizio diventava pratica – per assicurare un buon livello di prestazione non solo della cavalcatura – in verità cavalcature, dato che raramente si disponeva di una sola -, ma anche del cavaliere, con una notevole influenza sullo stile di vita cavalleresco, che risultava pertanto economicamente molto gravoso.
Se l’addestramento ippico fosse stato eterogeneo nella sua didattica, non avrebbe avuto particolare valore la requisizione di un animale non “immediatamente utilizzabile” fuorché dal proprietario (il solo, cioè, a conoscerne i giusti segnali onde comandarlo, per via della variabilità dei metodi di addestramento). Di certo, invece, un’arte che fosse tale dovette essere ecumenica, permettendo così la monta a chiunque avesse maturato le dovute competenze.
Poiché, quindi, l’equitazione, come disciplina, si fonda su una prassi che assecondi la naturale propensione del cavallo a compiere certi movimenti, ne deriva la sussistenza di un’identità del patrimonio di conoscenze ippiche nella tradizione occidentale su cui si fondava una didattica omogenea: uniformità metodologica nell’ammaestramento dovette esservi almeno fino all’età di Grisone, quando, per via delle tante edizioni nelle lingue nazionali del suo canone, derivo un relativismo equestre mai sperimentato nelle epoche precedenti, perché strutturate sull’ipse dixit di Senofonte.
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Riccardo RENZI (1994). Dopo la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino, discutendo una tesi recante titolo “La nobiltà in Francia nei primi due secoli dell’età moderna” (febbraio 2017), ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Macerata discutendo una tesi dal titolo “Latin historian’s manuscripts and incunabola preserved at Fermo Public Library Romolo Spezioli” (ottobre 2020). Ha inoltre conseguito una Summer school in metrica e ritmica greca presso la Scuola di metrica dell’Università di Urbino (2016), il percorso psico-pedagogico per l’insegnamento (24 CFU) presso l’Università di Macerata (2019) e i diplomi in LIM e Tablet. Nell’ottobre 2022 consegue il Master di primo livello in “Operatore delle biblioteche”. Ha insegnato materie letterarie presso l’Istituto di Formazione Professionale Artigianelli di Fermo dall’ottobre 2021 al marzo 2023, attualmente, dopo la vittoria del concorso pubblico di categoria D1 presso il IV settore del Comune di Fermo, lavora come Istruttore Direttivo presso la Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo. È membro dei comitati scientifici e di redazione delle riviste Scholia e Il Polo, è inoltre vicedirettore della rivista Scholia (Didattica) e membro del comitato scientifico del Centro Studi Sallustiani. È inoltre socio dell’Aib, della Società Dantesca Fermana, dell’Unipop di Fermo e dell’Associazione teste di Rapa di Rapagnano. Per contattare l’autore clicca qui !

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