La corona ferrea

La corona ferrea, propriamente ‘del ferro’

La corona ferrea di Valeriana Maspero

La corona ferrea è un oggetto bellissimo: un corpo di sei piastre d’oro incernierate tra loro, tempestate di pietre smeraldine, rubini, ametiste e zaffiri, ricoperte di smalti in forma di fiori blu lapislazzulo, viola, bianco avorio su fondo verde, disegnati da filetti dorati. Un gioiello di un fascino straordinario, che né le parole e neppure le riproduzioni fotografiche più fedeli possono rendere. Bisogna vederla. È custodita nel duomo barocco di Monza, a pochi chilometri da Milano. Il suo vero nome sarebbe propriamente corona del ferro. È molto antica, ha quasi duemila anni. Se potesse parlare, racconterebbe storie romanzesche, stupefacenti, sontuose, incredibili. È stata sul capo di re e imperatori per venti secoli.
Usata dai Berengari e dagli Ottoni di Sassonia come corona del primo regno italico nei secoli IX e X, essa rappresenta il più antico simbolo civile della unità nazionale. Essendo poi stata l’insegna dell’impero sacroromano-germanico, resta ancora oggi il segno dell’antica aspirazione all’unità dell’Europa, allora piano autoritario di re e imperatori, oggi obiettivo democratico e progressista che il vecchio continente sta ancora lottando per difendere.
Antesignano di questo progetto, Carlo Magno la volle sul capo nel 776 dopo avere sconfitto i Longobardi, ancor prima di cingere quella che papa Leone III gli impose a Roma la note di Natale dell’anno 800. Napoleone, che sognava di unificare l’Europa sotto il suo dominio, la cinse minacciando guai a chi l’avesse toccata quando, mille anni dopo, si incoronò re d’Italia nel Duomo di Milano nel 1805.

Costantino con l’elmo diademato

Ma come dimenticare la tradizione che ci tramanda come essa fu sull’elmo dell’imperatore Costantino, e sul barbaro kamelaukion dell’ostrogoto Teoderico, e nelle mani della regina Teodelinda che la donò al duomo di Monza dove volle essere sepolta, e poi in capo di volta in volta ai Sassonia e ai Franconia tedeschi. E come ignorare i documenti storici che la descrivono e la raffigurano sulla chioma leonina del Barbarossa, sulla testa geniale di Federico II di Svevia, cinta nel trecento da Carlo di Boemia, l’imperatore della Bolla d’Oro, e nel cinquecento da Carlo V, il monarca sui domini del quale il sole non tramontava mai…
Nonostante questo illustre passato, fu per colpa degli Asburgo – che la presero in capo molte volte, dal 1291 con Rodolfo I a Ferdinando II nel 1838, e che la requisirono portandola a Vienna al tempo delle lotte risorgimentali – che la corona venne in odio ai patrioti italiani e conobbe quella damnatio memoriae che l’ha fatta purtroppo scomparire dai nostri libri di storia.
Ma di più. La corona ferrea non è solo un oggetto d’arte e un cimelio civile, è anche una delle più famose reliquie cristiane.
Secondo Cesare Baronio e altri autori – che si rifanno a quanto disse sant’Ambrogio al funerale dell’imperatore Teodosio (tenutosi a Milano nel 384) e lasciò scritto nelle sue opere – essa conterrebbe un chiodo della passione di Cristo in forma del cerchio metallico che mostra all’interno. La santa regina Elena, madre dell’imperatore Costantino, recuperati i resti della crocifissione in un pellegrinaggio a Gerusalemme nel 527, fece inserire un frammento del legno nel prezioso diadema che donò al figlio imperatore, il quale lo pose come bordo dell’elmo agganciato con gli archi di ferro ricavati da un chiodo, perché, come reliquia, lo proteggesse e lo guidasse nell’espletamento della sua carica. E da qui il diadema avrebbe preso in seguito il nome di corona del ferro.
Nel corso dei secoli la corona avrebbe dunque prodotto dei miracoli: oltre ad avere protetto i longobardi dalle incursioni dei bizantini, i re carolingi dalle invasioni degli arabi, il santuario dove è custodita dai ladri sacrileghi, pare abbia lenito le sofferenze di Ariberto d’Intimiano, il vescovo del Carroccio, e più recentemente preservato dalla peste Carlo Borromeo e suo nipote Federigo che nel seicento se la misero devotamente in capo. E si tramanda che essa avesse anche il potere di castigare i malvagi, per effetto di una antica maledizione lanciata da Teodelinda, colei che l’ebbe in dono da papa Gregorio Magno per aver convertito i Longobardi al cattolicesimo e la lasciò in eredità al duomo di Monza. Scrive infatti Paolo Diacono nella Historia Langobardorum che la regina maledisse chi in ogni tempo avesse attentato al suo dono, che sarebbe stato perseguitato come Giuda fino al giorno del giudizio. In effetti il ladro che nel trecento rubò la corona dal palazzo papale di Avignone venne scoperto e giustiziato, e quello che nel settecento trafugò da Parigi l’intero tesoro di Monza venne rintracciato e morì in carcere soffocato dalle esalazioni di una stufa. Alcuni imperatori, poi, tra quelli che vollero incoronarsi a forza, fecero una misera fine – come il Barbarossa annegato in un torrente durante la crociata, Enrico IV spodestato e imprigionato dal proprio figlio, o Carlo V che abdicò al trono per debolezza mentale, per finire con Napoleone relegato a Sant’Elena dagli inglesi a tradimento, e dulcis in fundo Adolf Hitler, il quale aveva mandato le sue SS a Roma per predarla verso la fine della seconda guerra mondiale, morto suicida nel bunker di Berlino.
Nei secoli questa corona è stata pure massacrata: al tempo di Teoderico i bizantini la espunsero dall’elmo originario e le tolsero la placca centrale prima di rimandarla in Italia all’ostrogoto. Tra il nono e l’undicesimo secolo perse gli archi di ferro soprastanti che in passato l’avevano tenuta agganciata all’elmo (in realtà il ferro del chiodo della regina Elena), e che avevano fornito il modello delle corone ad archi incrociati di tutti i regnanti europei. Tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo, data in pegno dai guelfi Torriani di Milano ai frati banchieri Umiliati per le loro spese di guerra contro i ghibellini Visconti, perse due delle sue piastre d’oro e nel 1319, al riscatto, ricomparve mutilata. Eppure conserva ancora il suo fascino nelle sei placche rimaste, che mostra in tutto il loro splendore quando su di lei si riaccendono le luci che la illuminano per visitatori.

Sigillo del Barbarossa con corona con gli archi

Incredibile, vero? Ma più incredibile che la sua storia sia stata dimenticata negli ultimi decenni. Oggi la corona se ne sta acciambellata sul suo cuscino di velluto rosso nella teca di cristallo blindata del duomo di Monza. È un gioiello di non altissimo valore venale, una reliquia contestata (il ferro è scomparso) in un secolo poco devoto per non dire ateo, un cimelio regale in tempo di repubblica. Sembra svegliarsi solo quando si accendono i fari e viene tolta dalla sua cassaforte per essere mostrata a qualche vecchio studioso, a una comitiva di turisti tedeschi o a una scolaresca distratta. Eppure meriterebbe di tornare alla ribalta.

Valeriana Maspero

Laureata in storia e filosofia, ex docente, pubblicista, autrice di testi scolastici, ha scritto testi di storia e narrativa. Fa parte di associazioni culturali e tiene incontri e conferenze per promuovere la conoscenza della storia della corona ferrea e del periodo medievale in Lombardia. Tra le pubblicazioni: Percorsi visivi, corso di educazione artistica, Ghisetti&Corvi, Milano, 2001, Homo, corso di storia, Immedia, Milano, 2004, La corona ferrea, storia del più celebre simbolo del potere in Europa, Vittone, Monza, 2004/2008, Il gioco della corona ferrea, Immedia, Milano, 2005, Bonincontro e il Chronicon modoetiense, EiP, 2010, Geostoria della civiltà lombarda, Mursia, Milano, 2013, Il ghibellino di Modoezia, Libraccioeditore, Milano 2014, Memorie di una millenaria, Libraccioeditore, Milano, 2016.

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