La crociata, la ragione, la nazione

di Alessandro Vanoli.

I Maomettani, secondo i principi della loro fede, sono obbligati ad impiegare la violenza per abbattere le altre religioni; e ciò nonostante essi le tollerano da svariati secoli. I cristiani non hanno ricevuto altro ordine che quello di predicare ed istruire; e ciò nonostante da tempo immemore essi sterminano col ferro e col fuoco quelli che non appartengono alla loro religione [1].

Questo giudizio decisamente severo è posto da Bayle in una nota alla voce Mahomet del suo celeberrimo Dictionnaire. Volendo precisare, il riferimento è alla legge ottomana che prevedeva la tutela delle comunità religiose o etniche, in turco chiamate millet. La notizia gli giungeva tramite la polemica opera sul calvinismo di Pierre Jurieu [2] e la Storia dell’Impero ottomano del diplomatico inglese Ricaut [3]. E’ chiaro che dietro tali considerazioni dell’ugonotto Bayle si celava una più ampia riflessione sulla tolleranza e sul problema degli scontri confessionali che da tempo avevano investito l’Europa; è vero però che questo accenno alla violenza cristiana contro i musulmani ci offre un punto di vista privilegiato anche sul problema della crociata. Ci dice appunto che, al di là delle fantasticherie letterarie, attorno alla metà del secolo XVIII non era quasi più possibile parlare delle spedizioni d’oltremare senza tenere conto della critica all’ideologia religiosa e alle azioni dei crociati che era giunta soprattutto da parte protestante. Il che non vuol dire, ovviamente, che non si levassero voci entusiastiche e cariche di nostalgia per quelle antiche spedizioni. Soprattutto in ambito cattolico, infatti, la crociata fu riletta anche con ammirazione, guardando sempre più spesso a motivi di orgoglio nazionale, piuttosto che religioso. Era questo, per fare un esempio importante, che si poteva leggere nella Histoire de Croisade del gesuita Louis Maimbourg: la storia di un’impresa meravigliosa, dove «i più valorosi prìncipi del loro tempo, principi di sangue regale, che avevano acquistato in mille belle azioni un’immortale gloria» [4]. Non ci si stupisca troppo per questi toni esaltati: l’autore sta parlando in realtà a Luigi XIV e quei prìncipi eroici altri non sono che gli avi del Re Sole: era questo il legame che permetteva di congiungere tali fatti lontani tanto al presente francese quanto agli scontri con l’impero ottomano. Il filone ebbe successo e lo ritroviamo ancora vivo nel secolo successivo, in opere come quella di Schoeplin, il De sacris Galliae Regum in Orientem Expeditionibus (1726), dove, come già anticipava il titolo, si esaltavano – piuttosto acriticamente, va detto – le imprese dei Francesi e del loro re, senza dimenticare i tristi fatti contemporanei e auspicare così, una nuova lega dei principi cristiani capace di vincere definitivamente la minaccia turca [5].

I tempi però stavano cambiando e sempre meno era possibile prescindere da quella critica nei confronti del proprio passato che già aveva attraversato le pagine di Bayle. Giunti più o meno a metà del secolo dei lumi, questa tendenza avrebbe trovato egregi continuatori:

I frequenti pellegrinaggi che i cristiani fecero in Terra Santa, dopo che vi ebbero ritrovato la croce sulla quale era morto il figlio dell’uomo, dettero luogo a queste guerre sanguinose. I pellegrini, testimoni del duro servaggio sotto il quale gemevano i loro fratelli d’Oriente, non mancavano di farne, al loro ritorno, dei tristi quadri e di ricordare ai popoli d’Occidente il lassismo con cui essi abbandonavano i luoghi bagnati dal sangue di Gesù Cristo proprio nelle mani dei nemici del suo culto e del suo nome.

Per lungo tempo i proclami di questa buona gente furono trattati con l’indifferenza che meritavano, ed è davvero difficile credere che sarebbero potuti giungere tempi di tenebre tanto profonde, di così profondo stordimento tra i popoli e tra i loro sovrani, rispetto ai loro veri interessi, da trascinare una parte del mondo in una infelice e piccola contrada, al fine di sgozzarne gli abitanti e di impadronirsi di uno spuntone di roccia che non vale certo neppure una goccia di sangue e che essi avrebbero potuto venerare in spirito da lontano come da vicino e che il cui possesso era così estraneo all’onore della religione.

Altra voce da dizionario. Sono le parole di Diderot poste al principio del lemma Croisades nel quarto volume dell’Encyclopédie. Nella ventata razionalista che l’illuminismo conduceva con sé era ormai impossibile comprendere i motivi che avevano potuto animare una cosa come la crociata: più che di campioni della cristianità si trattava, agli occhi di Diderot, di imbecilli, spinti da uno zelo falso o da egoistici interessi politici, oltre che dall’intolleranza, dall’ignoranza e dalla violenza che aveva animato la Chiesa di quei secoli [6]. E naturalmente Diderot in quegli anni fu in buona compagnia: lo stesso disprezzo razionale, a cui si accompagnava un esplicito anticlericalismo, mosse, pur con accenti diversi, anche le interpretazioni di Gibbon, Voltaire e Hume [7].

Con questo pareva chiudersi ogni ulteriore discorso sulla crociata e, soprattutto ogni nuovo possibile spazio istituzionale e genericamente politico legato a tale tema. Di fatto, però, le cose non finirono così. Certo, tanta della successiva analisi storica contribuì a demolire il mito eroico legato alla crociata, avviando una grande stagione di ritorno ai testi originali (si pensi all’opera di Michaud [8]), che in un certo modo avrebbe anticipato il rigore critico e l’analisi filologica con cui, cominciare da Von Ranke, si è proceduto sino ad oggi nell’analisi scientifica del passato [9]. E’ vero però che il XIX secolo, nella sua complicata sovrapposizione di recupero del passato e di nazionalismo oltre che nell’espansione geografica e politica dell’età coloniale e imperialistica, aprì un nuovo, insospettato, spazio alla memoria della crociata.

A molti verranno forse in mente i cavalieri fedeli, altruisti e galanti disegnati dalla penna un po’ stucchevole di Sir Walter Scott: soprattutto i crociati inglesi del XII secolo, l’epoca di Riccardo Cuor di Leone, in Ivanhoe (1819) e in The Talisman (1825). Scott, si sa, non sempre scrisse capolavori, ma se è vero che la sua opera contribuì all’imborghesimento del romanticismo [10] è vero altrettanto che essa alimentò enormemente l’immaginario sulla crociata come parte determinante di un medioevo eroico in cui si erano fondati i valori delle nazioni europee [11]. Questo connubio di nazionalismo e riscoperta di un passato di intrepidi scontri con i mori avrebbe fatto scuola. Il romanzo storico, come è noto, si diffuse in tutta Europa, ma l’immaginario si alimentò anche a fonti diverse: ricordo – volutamente a caso – le litografie di Hayez per l’Ivanhoe o il ciclo di Doré sulla crociata ma anche opere musicali come come il famoso dramma lirico di Verdi I lombardi alla prima crociata, dove il libretto di Solera guardava, certo, a Tasso, ma era imbevuto delle idee dominanti in Italia prima del 1848, quando Gioberti si richiamava alla potenza di “incivilimento” del cattolicesimo unita al fondamentale genio italico [12]. Non è certo un caso, a tale proposito, che lo stile, il linguaggio e i materiali usati da Verdi per i Lombardi fossero pressoché gli stessi del Nabucco, opera dove il riferimento patriottico era altrettanto evidente.

Gli scontri passati come figura del presente, la crociata come immagine del destino delle nuove nascenti nazioni. Queste cose non restarono solo sulla tela, nel buio dei teatri o tra le pagine di libri d’avventura: era l’aria del tempo e le crociate segnarono, talvolta un legame più profondo con quelle supposte origini nazionali che da tante parti in Europa si andavano costruendo. Uno stimolo non irrilevante era venuto inevitabilmente dalle imprese di Napoleone in Egitto e in Siria nel 1798; lo aveva ricordato molto chiaramente un testimone di quella campagna, Vivan Denon, al momento di descrivere l’avvenuta presa di Alessandria:

Alessandria, questo punto così importante nella storia, dove i monumenti di tutte le epoche, dove i resti delle arti di tante nazioni sono ammassati alla rinfusa, e dove le devastazioni delle guerre, dei secoli e di un clima umido e salino, hanno apportato più cambiamenti e distruzioni che in qualsiasi altra parte dell’Egitto.

Bonaparte, che si era impadronito di Alessandria con la stessa rapidità con cui San Luigi aveva preso Damietta, non vi commise lo stesso errore: senza lasciare il tempo al nemico di raccapezzarsi, e alle sue truppe quello di vedere la penuria di Alessandria e l’asprezza del suo territorio, fece mettere in marcia le sue divisioni man mano che sbarcavano [13].

Quello che segue è di un certo interesse, ma noi possiamo fermarci qui. L’accenno a San Luigi e alla presa di Damietta stabilisce un’esplicita continuità, tanto nel ruolo di Napoleone, quanto nel destino della Francia intera. E’ stato ampiamente studiato come a partire dalla Rivoluzione Francese il tema di una politica universalista coincida ideologicamente con la liberazione dei popoli e l’estirpazione dell’errore, perché proprio “l’errore prosterna tutti i musulmani verso la Mecca, mentre la verità solleverà la fronte di tutti gli uomini che fissano lo sguardo verso Parigi” [14]. Nel successivo periodo coloniale questi elementi avrebbero inevitabilmente giocato un ruolo importante e anche il già citato Michaud avrebbe contribuito a rinsaldare tale immaginaria continuità, ricordando con preoccupante sicurezza che i crociati avevano in realtà fondato “colonie cristiane” [15]. La cosa può apparire eccessiva, forse. Lo è meno se si pensa che quando il re Carlo X dovette annunciare alla Camera dei Deputati l’intervento francese in Algeria, disse che doveva essere fatto «per il beneficio del cristianesimo». E non si trattò di un caso isolato, se è vero che ancora nel 1919, alla conferenza di pace di Versailles, i Francesi avrebbero reclamato un mandato in Siria in nome dei loro diritti medievali…

Ma il caso della Francia non è certo unico. Anzi, verrebbe da dire che si inserisce in una tendenza che attraversa in più modi l’Europa mediterranea. Si è parlato molto della Spagna e forse non stupirà troppo scoprire che quella curiosa parola, reconquista, fa la sua prima apparizione soltanto sul finire del secolo XIX. Per essere proprio precisi è solo nel 1843 che un dizionario spagnolo registra per la prima volta il termine, peraltro senza alcun preciso riferimento storico [16]. E non si tratta, per giunta, di un utilizzo molto diffuso: la ritroviamo qua e là in autori romantici come Gaspar Melchor de Jovellanos, Leandro Moratín, spesso assieme alla più semplice (e antica) idea di conquista, come si vede ad esempio, in questo passo di Mariano José de Larra:

Si narrava nel paese che in tempi antichi, un moro, un mago, fosse stato fondatore del castello la cui costruzione si perdeva nei tempi remoti della conquista e della riconquista (los tiempos remotos de la conquista y reconquista), opinione, questa, che pareva confermata dal colore scuro della pietra e dall’aspetto venerabile e misterioso delle sue antichissime mura [17].

Chiunque venga da letture più note, come la celeberrima Notre Dame de Paris, ci si ritroverà un po’ in questo castello sberciato e nelle solite oscure maledizioni che lo circondano. Senza avventurarmi troppo in considerazioni ulteriori, i lettori tengano presente che un autore come Larra guardava con estrema ammirazione all’Europa, a quell’Europa del nazionalismo nascente, che aveva in Parigi il suo centro ideale e proprio in scrittori come Victor Hugo i suoi principali riferimenti intellettuali. Per molti versi il medioevo dei romantici spagnoli è lo stesso dei loro colleghi ultrapirenaici: il luogo in cui gli uomini seppero dispiegare virtù eroiche e il momento irripetibile della genesi di un popolo. Solo, qui c’è una differenza: il medioevo iberico era inevitabilmente quello della lotta contro i mori, quello della favolosa (e favolistica) resistenza del principe goto Pelayo contro l’avanzata musulmana, quello del Cid Campeador. E se il medioevo iberico doveva generare un popolo, esso non poteva che essere forgiato in questo scontro secolare che per otto secoli aveva segnato la terra di Spagna.

Poi giunse il 1989, la guerra contro gli Stati Uniti e la perdita degli ultimi resti dell’impero coloniale. La Spagna reagì ricostruendo la propria identità nazionale a partire da ciò che tanti percepivano come la sua vocazione profonda: quella di trasmettere e perpetuare una civiltà superiore. L’immagine di un’autenticità nazionale fu così ricostruita a partire dalla radice castigliana, (supposto) nucleo storico dell’identità spagnola. Era questo, più o meno, che sostenne un giovane Sánchez Albornoz in una conferenza universitaria nel 1919, molto prima, cioè, di diventare il più celebrato storico del medioevo spagnolo: la Castiglia, che ora pagava lo sforzo gigantesco di tre secoli spesi a portare alla maggiore età le sue “figlie d’America”, era stata nel medioevo lo strumento di formazione della nazionalità spagnola; ora occorreva salvarla e strapparla dall’apatia, occorreva che tutti ingaggiassero una nuova cruzada de reconquista ancora più difficile di quella combattuta per il suolo della patria [18]. La sintesi tra riconquista, crociata e tema nazionalista è già tutta qui. Lo abbiamo visto: si poneva innanzi tutto l’immagine di un’originaria divisione politica altomedievale della Penisola iberica; due unità territoriali omogenee e ben differenziate. Questa immagine si legava poi, inevitabilmente all’assunto di una guerra, di fatto ininterrotta, intercorsa tra cristiani e musulmani; tale guerra si poneva, in termini dialettici, come il rapporto tra la conquista araba, avvenuta a partire dagli anni 710-711, e la conseguente reconquista cristiana, proseguita a fasi alterne – a partire da isolati moti di resistenza – sino a culminare nella vittoria epocale di Las Navas de Tolosa nel 1212. Al concetto di reconquista, intesa come espansione militare, si legava dunque, indissolubilmente, quello di repoblación, cioè la colonizzazione del territorio rurale da parte di una popolazione che avanza nella misura in cui si sviluppano i successi della guerra. Naturalmente tale modello si applicava allo stesso modo, seppure in senso contrario, ai musulmani, il cui potere era visto retrocedere progressivamente assieme ai loro confini politici.

Chi dei lettori ritenesse di intravedere in questo schema qualcosa di già noto, forse non si sbaglierebbe di tanto. Questa idea di una riconquista – o di una crociata – fatta da gruppi di «audaci uomini liberi» che partiti dalla Castiglia si spingeranno sempre più lontano [19], assomiglia sin troppo all’idea di frontiera che negli stessi anni evocava lo storico F.T. Turner a proposito degli Stati uniti. La tesi era chiarita sin dalle prime righe del suo famoso The frontier in American History (1893): “la peculiarità delle istituzioni americane deriva dal fatto che esse sono state costrette ad adattare se stesse ai cambiamenti di un popolo in espansione”, alla base stessa dei caratteri costitutivi della nazione americana, insomma, c’era la frontiera, intesa come movimento, espansione colonizzatrice verso l’ovest. Turner, peraltro, arrivava al termine di un lungo processo di costruzione nazionale che aveva occupato tutto il secolo precedente. Sono cose note e ci porterebbero troppo lontano dal Mediterraneo, ma quell’idea di frontiera che marcia verso Ovest, si sa, è impensabile senza la solida percezione di un’elezione divina, di un “destino manifesto”, che avrebbe segnato profondamente la nascita degli Stati Uniti.

Una traccia, niente di più, che ci introduce però alle ultime, necessarie, considerazioni sulla fortuna novecentesca e ancora tristemente attuale di queste parole di conflitto.

Bibliografia

Su molti dei temi trattati si può fare riferimento a F. Cardini, Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Jouvence, Roma 1993; inoltre l’importante contributo di E. Siberry, Images of the Crusades in the Nineteenth and Twentieth Centuries, in J. Riley-Smith (a cura di), Oxford illustrated History of Crusades, Oxford University Press, Oxford 1995, pp. 365-85.

In generale, sulla nascita delle identità nazionali ad esso legati si veda A.M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna 2001 (ed. fr. Paris 1999).

Sull’eredità ideologica e culturale della rivoluzione francese la bibliografia è sterminata. Per una introduzione il lettore si guardi il secondo volume dell’ancora interessante opera di F. Châtelet (a cura di), Storia delle ideologie, Rizzoli, Milano 1978 (ed. fr. Paris 1978), in particolare pp. 175-82; inoltre i più recenti F. Furet (a cura di), L’eredità della rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 1989 e M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Laterza, Roma-Bari 1999 (ed. fr. Paris 1985).

Ho studiato la nascita del concetto di Reconquista in A. Vanoli, Alle origini della Reconquista, Aragno, Torino 2003 (si vedano in particolare pp. 383-99).

Ultima nota (marginale, ne convengo). Il concetto di “destino manifesto”, coniato nel 1845 per definire la missione espansionistica degli Stati Uniti, è stato ampiamente studiato; per una sintesi e un approfondimento bibliografico il lettore italiano può vedere A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004 (ed. ingl New York 1995).

Note
[1] P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, I-IV, Basel 1741, III, p. 265.
[2] P. Jurieu, Histoire du Calvinisme & celle du Papisme mises en parallele: ou Apologie pour les Reformateurs, pour la Reformation, & pour les Reformez, Rotterdam 1683, II, p. 55.
[3] P. Ricaut, Histoire de l’état présent de l’Empire ottoman, Paris 1670, II, p. 318. Ricaut era giunto a Costantinopoli nel 1661 come segretario di Heneage Finch, ambasciatore presso la Sacra Porta. L’edizione originale della sua opera risale al 1668, Bayle utilizzò la traduzione francese di due anni successiva.
[4] L. Maimbourg, De l’Histoire de Croisades pour la deliverance de la Terre Sainte, Paris 1675, p. 2.
[5] J.D. Schoeplin, De sacris Galliae Regum in Orientem Expeditionibus, Strasburgo 1726.
[6] D. Diderot, Dictionnaire Encyclopédique, IV, Paris 1754, pp. 502-5.
[7] I riferimenti sono reciprocamente a E. Gibbon, Decline and Fall of the Roman Empire, London 1753; Voltaire, Essaie sur les moeurs et l’esprit des nations, Paris 1756, II: Histoire des croisades; D. Hume, History of England, London 1761.
[8] Quello di Joseph-François Michaud (m. 1839) è sicuramente il più importante contributo allo studio delle crociate che si sia avuto nella prima metà del XIX secolo: mi riferisco in particolare alla sua Histoire de Croisades (1817) e alla raccolta di testi con traduzione, intitolata Bibliothèque des croisades (1829).
[9] È a un allievo di Von Ranke, Heirich von Sybel, che dobbiamo probabilmente la prima opera sulle crociate in senso moderno: Geschichte des ersten Kreuzzuges, del 1841.
[10] M. Praz, La letteratura inglese dai romantici al novecento, Milano 1975, p. 68.
[11] La cosa in Ivanhoe è chiarissima: al termine del romanzo, Riccardo Cuor di Leone, che ha riconquistato il trono, annuncia la definitiva riconciliazione di sassoni e normanni, segnando la nascita della nazione inglese.
[12] A sua volta il libretto di Temistocle Solera era ricavato dal poema omonimo pubblicato da Tommaso Grossi nel 1826
[13] V. Denon, Voyages dans la Basse et la Haute Égypte pendant les campagnes de Bonaparte en 1798 et 1799, London 1817, pp. 36-37.
[14] Il passo è tratto da un’orazione in elogio della stampa come strumento civilizzatore, pronunciata al parlamento francese da Anacharis Cloots il 9 settembre 1792, in Archives Parlamentaires de 1787 a 1860, Preemière série (1787 à 1799), XLIX, Paris 1896, pp. 498-500.
[15] Michaud, Histoire des croisades, cit., p. 371.
[16] Diccionario de la Real Academia Española, Madrid 1843: “Reconquista f. La accion y efecto de reconquistar. Armis facta recuperatio. Reconquistar a. Volver á conquistar una plaza, provincia ó reino, despues de haberse perdido.” Un’esplicita indicazione cronologica si trova invece nei dizionari attuali, almeno a partire dagli anni ’80 del secolo XX.
[17] Mariano José de Larra, El doncel de Don Enrique el Doliente, in Obras Completas, Barcelona 1886, pp. 77-255, cap. XXXII.
[18] C. Sánchez Albornoz, Vindicacion historica de Castilla, Conferencia de extensión universitaria pronunciada al 5 de abril del 1919, Valladolid 1919, rip. in Id., Mis tres primeros Estudios Históricos, Valladolid 1974, pp. 138-42.
[19] C. Sánchez Albornoz, La frontera y las libertades castellanas, in Investigaciones y documentos sobre las istituciones hispanas, Santiago de Chile 1970, p. 45.

Altri articoli della serie >

Alessandro Vanoli

È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.

Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).

Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.

È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.

CATEGORIE
CONDIVIDI SU
Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest
WhatsApp
Email
Stampa
My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.