La gestualità della Tenerezza – note di iconografia bizantina dal X al XIV secolo

13di Giulia Fasiello

La tenerezza è, secondo una definizione da vocabolario, delicatezza e dolcezza, ma anche atti e parole dolci, carezze, la cedevolezza al tatto, percezione sensoriale leggera e delicata, mai invadente. In senso figurato, la tenerezza è “sentimento di dolce commozione, di profonda, delicata dolcezza che nasce dall’amore, l’affetto, la compassione, il rimpianto.” È un sentimento assoluto, che si nutre di momenti di felicità e di situazioni drammatiche, nelle quali diventa respiro e dolcezza incondizionata.
In questa breve analisi ci soffermeremo sulla gestualità della tenerezza nella vasta area ed epoca chiamata bizantina, considerando in particolare il passaggio che ha portato uno dei fenomeni artistici che meno tendeva ad esprimere l’umanità e i sentimenti a trasformarsi, producendo opere di grande slancio emotivo.
E’ necessario per questo motivo un breve preambolo che contestualizzi l’arte figurativa bizantina, e in particolare il culto delle icone, all’interno della lunga e complessa diatriba che lo vide protagonista, la cosiddetta lotta iconoclasta. All’origine di questo conflitto si poneva la controversia teologica fra iconofili e iconoclasti sulla questione dell’indescrivibilità di Dio e la realtà dell’Incarnazione che lo aveva reso visibile. Di conseguenza la venerazione dell’icona, in particolare quelle di Cristo e della Madonna, implicava una professione di fede nell’Incarnazione.
Già nel Concilio di Efeso del 431 la questione era stata dibattuta e si concluse con l’affermarsi del concetto di Cristo che diventa uomo attraverso l’umanità della Vergine. Il tema, lungamente dibattuto, si andò articolando nel corso dei secoli, e durante il secondo Concilio di Nicea, nel 787, le omelie di Giovanni Damasceno chiarirono il passaggio della circoscrivibilità in immagine del Cristo – uomo.
Nella chiesa bizantina dopo l’iconoclasmo l’arte diviene quindi inseparabile dalla teologia. Proprio alla luce dell’Incarnazione si dimostra l’impossibilità di una concezione neutrale dell’arte.L’icona diventa così un’espressione e una fonte di conoscenza divina.
Le dottrine degli iconoduli e i loro commentari sull’Incarnazione avevano avuto un effetto quasi immediato sulla elaborazione del programma iconografico delle chiese e sulla comparsa di alcuni soggetti e cicli, come l’Infanzia di Cristo e l’Infanzia di Maria. Dalla seconda metà del XII secolo esplode un fattore nuovo in rapporto ai valori dell’estetica bizantina tradizionale, che modifica il contenuto di numerosi soggetti e ne influenza lo stile. I personaggi sacri, fino a quel momento impassibili, si umanizzano e mostrano di provare dei sentimenti, iniziando ad agire in una realtà vissuta e non più una realtà assoluta, esistente al di là dell’uomo. Venuta meno la divina serenità ed istauratosi il dramma, con il movimento che esso esige, le figure bizantine perdono il loro aspetto atemporale e si immergono in un tempo storico, esplicitando il loro lato umano.
Uno dei tipi iconografici emblematici rispetto a questo radicale cambiamento è la Madonna Eleusa, o Madonna della Tenerezza, che compare in sporadiche rappresentazioni tra X e XI secolo e conosce una diffusione capillare nella prima parte del XII. La sua realizzazione più nota è l’icona della Madre di Dio detta di Vladimir, eseguita a Costantinopoli verso il 1130. Maria preme la gota del bambino contro la sua, mentre Gesù cinge il collo della madre, in un gesto tanto lieve quanto espressivo, naturale ed intimo. Il volto è una delle parti del corpo umano più delicate e allo stesso tempo esposte, il gesto di poggiare una guancia sull’altra abbatte ogni barriera difensiva in un atto che esprime infinito amore. Il tipo della Madonna della Tenerezza conoscerà larga fortuna anche in Occidente, in particolare in Italia, a cui verrà trasmessa all’inizio del XIII secolo ed assimilata nel repertorio sacro. Un esempio per tutti la Maestà trecentesca attualmente a Berna di Duccio di Buoninsegna, che innesta sul trono gotico in marmo intarsiato l’iconografia ormai classica della Madonna Eleusa.
All’estremità opposta e complementare della serena e dolce Madonna della Tenerezza, lo stesso posare la guancia della madre contro quella del figlio si ripropone in alcuni episodi dei cicli istoriati delle chiese bizantine dal XII secolo in poi.
Si tratta della scena della Deposizione dalla croce e del Lamento sul Cristo morto, in cui la Vergine straziata e trasfigurata dal dolore si abbandona agli ultimi gesti d’amore nei confronti del figlio. Ne troviamo pregevoli esempi a Nerezi, in Macedonia, e a Pskov in Russia. È interessante osservare come si riproponga lo stesso gesto che caratterizza l’affetto e il legame tra madre e bambino nell’icona: di nuovo, la gota della Madonna preme contro quella del figlio con la stessa intensità, ma se nell’icona il piccolo cingeva il collo della madre, forse per aggrapparvisi, in questo caso è la mano della Vergine che sostiene la testa del Cristo ormai esangue. Nell’ora della morte, la cura e la tenerezza restano identiche: Cristo che è Dio, il Salvatore del mondo, in questo momento è uomo e “figlio” senza lettera maiuscola, vita che muore, e la Santa Vergine ne è madre, e tocca e accarezza il corpo con la dolcezza di tutte le madri della storia dell’umanità. Per uno spettatore più consapevole viene ribadita ed esaltata la natura umana del Cristo, una professione di fede verso il dogma dell’Incarnazione.
Sulla scia di questa affermazione teologica attraverso i cicli pittorici, come abbiamo già detto, le chiese bizantine si riempiono di episodi dell’infanzia di Cristo e della Madonna, che ancora una volta ne sottolineano la natura umana. Di questi argomenti però i vangeli canonici risultano essere abbastanza poveri, e per questo motivo le fonti più ricche a cui i pittori attingeranno saranno i numerosi vangeli apocrifi, in particolare il Vangelo dello pseudo Matteo, risalente almeno in parte ai secoli VII e VIII, e il Protovangelo di Giacomo, redatto probabilmente in Egitto verso la metà del II secolo e che influenzò fortemente la liturgia del culto mariano nella chiesa orientale e occidentale.
Soffermiamoci ad osservare celebre episodio della fuga in Egitto realizzato in mosaico sulla parete meridionale della Cappella Palatina a Palermo. La scena acquista dagli Apocrifi un personaggio particolare, Giacomo, il figlio che Giuseppe doveva aver avuto dall’unione precedente e che segue l’asino su cui è assisa Maria, di cui i Vangeli Canonici non fanno menzione. Ma un altro è il dato che più ci preme analizzare: al contrario della iconografia classica della Fuga in Egitto, che vede il bambino in braccio alla Madonna, in questo rara rappresentazione del tema troviamo Gesù sulle spalle di San Giuseppe, con una mano posata sul capo del padre, che gli tiene stretta una gamba con entrambe le mani, per non farlo cadere. Di nuovo, ci troviamo di fronte alla volontà di voler rappresentare, attraverso un gesto naturale e dolce, la cura e la tenerezza di un padre per il proprio figlio tralasciando, se escludessimo l’aureola sul capo di Gesù, la natura divina dei personaggi per rimarcare la loro relazione affettiva.
Ancora più inteso a livello emotivo, seppure di peggiore conservazione e fattura meno ricercata, è un altro dei rari esempi di questa iconografia, l’affresco nella grotta dedicata a S. Biagio a S. Vito dei Normanni, in Puglia. Qui il bambino è a cavalcioni con entrambe le gambe sulle spalle di S. Giuseppe e, invece che lievemente poggiate sulla testa come nella Palatina, si regge con le manine al volto del padre, accarezzandone la barba bianca, per non cadere. Anche in questo caso una delle mani del santo si cura di tenere saldamente il polpaccio del bambino. Una presa che svela una delle poche espressioni di tenerezza concessa all’uomo: se la madre può permettersi di accarezzare, abbracciare, stringere un bambino solo per il solo valore di quel gesto, la tenerezza paterna sarà tradotta in un contatto fisico dolce ma allo stesso tempo necessario, di sostegno, una tenerezza funzionale e “virile”. Rimarcando che gli stereotipi di genere, in ogni epoca, non incatenano e limitano solo le donne, ma ogni essere umano.
Ancora, ritroviamo un gesto di tenerezza e cura in un momento particolare riportato nella versione armena e siriana del Protovangelo di Giacomo, e assente in quella greca. L’episodio fa parte del racconto dell’Infanzia di Maria, comunemente conosciuto come La vergine coccolata da Gioacchino e Anna, scena conosciuta come la “Kolakeia” (la carezza). Poco frequenti sono le rappresentazioni di questo soggetto, di cui un pregevole esempio è il mosaico nella chiesa di S. Salvatore in Chora, della prima metà del XIV secolo.
Gioacchino e Anna sono seduti, rispettivamente a destra e a sinistra, chinati su Maria bambina al centro, tra di loro. La bimba, che sta per ricevere il bacio del padre, ha il viso rivolto verso l’alto, verso Gioacchino, e pone la mano sul volto della madre.
Il tema, molto raro, si ritrova in un’altra chiesa bizantina, a Creta, la Panagia Mesohoritisa a Males: in un affresco molto rovinato si possono ancora riconoscere i tre personaggi e la dolcezza dei loro gesti. Anche in questo caso il ruolo del padre è sì di tenera complicità e partecipazione, ma anche di protezione: S. Gioacchino, la cui testa è più alta delle altre, si piega verso le due figure femminili, mentre S. Anna tiene in braccio la piccola. Alle lacune dell’immagine supplisce la scritta in greco che sovrasta la scena e ne determina inequivocabilmente il soggetto.
Il desiderio di affermare e rappresentare la natura umana di Cristo, dal IX secolo in poi, in difesa del culto delle immagini, porta nell’arte cristiana un cambiamento epocale: il linguaggio pittorico dell’immaginario religioso si arricchisce dell’espressività umana, un terreno fino a quel momento non praticato dall’arte cristiana. Non stupisce che il veicolo di una svolta così profonda sia la figura della Madre di Cristo, e più in generale che il sentimento che rompe il velo di divina apatia nell’arte bizantino sia quello dell’amore. L’amore incondizionato che prova una madre quando si stringe a suo figlio, che abbia pochi giorni o sia adulto, per cullarlo o per piangerlo nella morte; quell’amore che si scorge sotto il gesto fermo e naturale di un padre che tiene il proprio bimbo sulle spalle; l’amore di due genitori che salutano la propria bambina. Gesti senza tempo e universali, che sviluppano empatia e condivisione nello spettatore a prescindere dall’epoca, dalla cultura e persino dalla religione e che segnano un filo conduttore che abbraccia l’intera storia dell’umanità.

Bibliografia

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Sitografia
www.grandidizionari.it
www.mosaicocidm.it

giulia_FasielloGiulia Fasiello consegue con lode la Laurea Triennale in Scienze dei Beni Culturali nel 2012 presso l’Università degli Studi di Bari, dopo un anno di studi in Francia, con una tesi sperimentale in Storia dell’Arte Medievale. Nel 2014 si laurea con lode nel corso Magistrale in Storia dell’Arte presso la stessa Università, con una tesi sperimentale in Storia delle Arti nel Medioevo. Innamorata del Mediterraneo, ama studiare le contaminazioni e interazioni tra il mondo bizantino, arabo e occidentale con un occhio di riguardo alla sua terra, la Puglia. Attualmente vive a Bologna.

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