La musica, e non solo. Giovanni di Salisbury, 1158-1160

La musica, e non solo. Giovanni di Salisbury, 1158-1160[1]
di Glauco Maria Cantarella

Frontespizio del Policraticus

Giovanni di Salisbury fu uno dei maggiori literati e filosofi del secolo XII. Segretario di Thomas Becket dal 1161, gli aveva appena dedicato un trattato sul governo e sull’uomo di governo, il Policraticus, ricco di riflessioni e di informazioni per noi importantissime. Fra le altre, la rappresentazione della vita sociale della corte plantageneta. Vita sociale e divertimenti, diciamolo subito, tutti al maschile. Per chi pensa che la vita fra cavalieri fosse fatta solo di rudi esercitazioni fisiche per tenersi in forma per la guerra (la caccia, in primo luogo) la sorpresa è assicurata. Un passaggio lunghissimo è riservato agli intrattenimenti musicali e ai modi di svago:
«Cercano di rammollire le tremule anime stupite con il lusso della voce lasciviente, con una certa ostentazione di sé, con modi muliebri di noterelle e continue sincopature. Quando senti le più che molli modulazioni di costoro che precantano, subcantano, cantano, decantano, intercantano, obcantano (praecinentium et succinentium, canentium et decinentium, intercinentium et occinentium) credi che sia un concento di sirene, non di uomini, e ti meravigli della facilità delle voci, con le quali non sono in grado di stare a pari l’usignolo o il pappagallo o qualunque altro ci sia di più sonoro. Tale è la facilità di salire e di scendere, tale è l’arte di dividere e raddoppiare anche le note più brevi, tale è la capacità di ripetere ogni inciso, di rafforzare le singole unità melodiche, così le note acute e acutissime son temperate da note gravi e subgravi, che l’autorità quasi è sottratta alle orecchie che sono sede del suo giudizio, e l’animo, che è stato accarezzato dalla grazia di tanta soavità, non basta ad esaminare i meriti di quanto ha ascoltato. E se queste cose superano la misura potranno più facilmente eccitare la prurigine dei lombi piuttosto che la devozione dell’animo».
Bellissima rappresentazione, sembra di sentire la musica dei divini castrati. Ma è una satira. Parossistica? No: tecnica. Giovanni di Salisbury, che aspira a fare carriera, mette in evidenza tutte le sue conoscenze: il suo vocabolario è tecnico e corrisponde alle ricerche musicali del pieno Medioevo, il pappagallo ricorre in quanto animale esotico e preziosissimo e che perciò stesso doveva essere dotato di ogni armonia; cent’anni prima nel medesimo errore erano incorsi a Toul scrivendo una vita di Leone IX. Ma procediamo:
«Fa vergogna dire che anche gli uomini più elevati d’età e di sentire non si sottraggono a tanta turpitudine e, benché la natura li abbia creati nel sesso più nobile, scivolano per quanto loro è possibile in quello deteriore per innata malizia, per vizio effeminato e corruttela dei costumi, per quanto tuttava non possano essere donne per beneficio della natura. Mentre la lussuria del ricco in calore apparecchia i suoi voti alla libidine, il ricciolone che si è acconciato con il ferro caldo prende fuori i piedi di colui che giace a mensa, invidiando alla meretrice il suo splendore, all’istrione il suo modo di fare, il fisico ai Proci, l’ornato alle vergini, e persino l’apparato trionfale ai principi, e al cospetto degli altri si mette a trattare i piedi e, a tacer d’altro, le gambe con le sue teneri mani; giacché a lungo incedette inguantato, per rendere morbide, per l’uso del ricco, le mani sottratte al sole. Poi, procedendo a poco a poco la licenza, errando per tutto il corpo con tocco impudico gratta il prurito che ha provocato, e infiamma i fuochi di Venere languente».[2]
Satira? Nel senso di composizione […] che evidenzia e mette in ridicolo passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizî o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore, secondo la definizione del termine?[3] Già.
Dunque: è un lungo esercizio di stile, complesso e con un duplice aspetto. Vediamo di affrontarlo parte per parte.
La musica. Quasi negli stessi anni Idung, il polemista che vuol mettere in luce la sincerità del suo passaggio dall’osservanza cluniacense a quella cisterciense, è meno verboso ma altrettanto intenso:
«Quelle voci acute e evirate, che voi chiamate magre e solete rendere acute con il succo di liquerizia ed elettuari costosi, cosa sono se non diletto per le orecchie contro la proibizione della Regola? […] Fate uso di queste voci nelle vostre feste nuove e abusive con melodie nuove e lascive».[4]
Idung parla della psalmodia di Cluny. Ma la sostanza non cambia. Muliebri gli uni, quelli di cui parla Giovanni, evirati ed effeminati gli altri, i cluniacensi. Idung aggiunge un particolare prezioso per lo studioso di storia della musica, quello del succo di liquirizia e degli sciroppi rari e costosi (gli elettuari, una mescolanza di erbe ridotte in polvere impastate con miele) per migliorare la voce umana. Neanche per lui si tratta di licenze retoriche e polemiche. Ildegarda di Bingen, contemporanea di Idung e di Giovanni di Salisbury ed eccelsa musicista, trattava la liquirizia con queste parole: «La liquirizia è di calore temperato e schiarisce la voce all’uomo, in qualunque modo la assuma» («Liquiricium temperati coloris est, et homini claram vocem parat quomodocunmque comedatur»).[5] La liquirizia schiarisce la voce, cioè la rende più sottile – se non vado errato, ci troviamo di fronte a una delle prime testimonianze dell’uso della liquirizia nell’Europa medievale: un uso dispendiosissimo, senza dubbio. Dell’eccelsa polivocalità cluniacense, del canto corale e articolato in cui le voci chiare e chiarissime avevano tanta parte, non è rimasta nessuna descrizione imitativa: per questo il brano di Giovanni di Salisbury finisce per essere, anche se non inquadra precisamente il canto cluniacense, prezioso, un po’ come lo sarebbe il celebre pezzo dell’usignolo di Giovan Battista Marino se si fossero estinti gli usignoli («e vestito di penne un vivo fiato, / una piuma canora, un canto alato», Adone VII.37). Ricordiamo che Bernardo di Clairvaux pretese di restaurare il primigenio canto gregoriano e, sulla base del grande lavoro preliminare fatto da Guido di Pomposa (o d’Arezzo) che aveva reso egemone in Italia la scrittura della nota romana, vi riuscì: o meglio, riuscì ad imporre la propria egemonia anche sul canto, riuscì nell’impresa di rendere uniforme il canto sotto il segno dei cisterciensi o per meglio dire sotto il suo segno. La liturgia cluniacense, come si sa, era corale per eccellenza: «Il modello tradizionale della salmodia nei versi dei responsori lascia spazio alla fantasia dei cantori delle singole comunità, nel momento in cui il testo, più lungo del normale, permette l’inserzione di fioriture nella formula salmodica», come ha scritto ottimamente Giacomo Baroffio a proposito di San Benedetto di Polirone:[6] insomma, un cantare non pre-definito, o meglio definito solo secondo le regole generali dell’armonia, un cantare che lascia scandaloso spazio all’individualità, sia pure di un corpo mistico ed esclusivo come quello dei monaci di ciascuna comunità. Ecco il senso della satira di Idung: quella liturgia, segnalata e contrassegnata come contraria alla Regola, eversiva (nova) e lasciva e organica alle feste inventate dei cluniacensi che si opponevano alla tradizione veneranda e dunque erano eversive in sé, doveva essere ben riconoscibile nelle sue parole. La musica riempiva circa il 94% dell’opera manuale dei cluniacensi, lo stesso sistema dell’autorità, per dir così, era istituito e inculcato a colpi di musica, perché il responsabile di tutta la liturgia era l’armarius, stava a lui e solo a lui decidere se cantare, quando cantare e cosa cantare, e quali letture fare in chiesa e nel refettorio, e solo lui poteva leggere se l’abate non avesse letto; di più, era il responsabile della biblioteca e del grande cero liturgico in cui, signore del tempo, marcava l’epatta, e fino ad Ugo di Semur era stato l’armario (Maiolo) e il custode dei pueri (Odilone), e non il maggior priore, a succedere agli abati defunti; aveva a sua volta un subordinato che doveva istruire i pueri. Insomma a Cluny i pueri erano addestrati a riconoscere le gerarchie delle autorità attraverso la musica: la figura del vicario-del-vicario-dell’abate rimanda all’abate. i bambini sono abituati a vederlo e a riconoscerlo attraverso l’apprendimento musicale… Compito duro, quello del suffraganeus che ha anche un ruolo di maestro: e ingrato, visto che la preparazione di una voce bianca è molto impegnativa e dà dei risultati di necessità sempre provvisori, per quanto eccellenti possano essere, perché nel giro di un paio d’anni la voce cambia e tutto va ricominciato daccapo (a questo problema, com’è noto, si porrà soluzione secoli dopo con i castrati). E le  voci bianche sono una necessità per Cluny, perché solo esse permettono la liturgia angelica, il canto davidico, il canto di intercessione e di lode del Signore, «di speranza nell’attesa, di amore sino alla morte, di fede allo stato puro» (Gian Franco Freguglia);[7] la liquirizia non garantirà il permanere del colore della voce, ma cercherà di intervenire fin dove sarà possibile… Tutta la vita di Cluny è organizzata da una liturgia musicale ferrea e complessa, da sistemi di segni intricati e precisi che richiedono un duro apprendimento e che comunque si acquisiscono «non auditu quantum visu» (insomma attraverso la partecipazione attiva e l’uso, e che visu entrano nell’abito quotidiano del monaco) ed è scandita dai segnali come il cembalo:
«Se al signor abate pare opportuno che dopo l’opus manuum i monaci bevano, dopo l’orazione del vespro, percosso il cembalo, vanno in refettorio, e sia distribuita una bevanda fatta di miele, vino e assenzio».
Bevanda ricca di principi antinfiammatori, energetica e di conforto, corroborante, cui vengono comandati tutti – potrebbe anche ricordare gli electuaria di cui parla Idung, ma soprattutto apre prospettive e interrogativi interessanti, se si vogliono prendere in considerazione i possibili effetti collaterali su uno stato di stanchezza e (questo non va dimenticato mai!) di ossigenazione forzata seppure ordinata e di possibile perdita-di-sé nella purtuttavia coordinata collettività canora. Tanto più che tutto avviene nel silenzio più profondo, solo rotto dal suono del cimbalo. L’abate Pietro il Venerabile (1122-1156) scrive nel primo dei suoi Statuta che aveva ritenuto necessario istituire mediocrem repausationem per ridare ordine al canto: cantare stanca, la testa si confonde – vogliamo immaginare, a questo punto, gli effetti di una bevanda come quella? Aggiungiamo quanto scrive ancora Ildegarda di Bingen: la liquiriza «addolcisce lo spirito… schiarisce la vista […] spegne il furore»; allora si potrebbe pensare che i succhi di liquirizia potessero essere intesi come utili per mantenere la chiarezza non soltanto nella voce ma anche nel cervello, per bilanciare insomma l’iperventilazione e la saturazione fisiologica ed evitare lo stato patologico di perdita-di-sé e mantenere la lucidità nel canto… E aggiungiamo che immagini e musica si corrispondono: «Nec mirum si varietate sonorum delectatur auditus, cum varietate colorum gratuletur visus […] Quae tamen vis solum divinae sapientiae ad plenum patet, nos verum quae in aenigmate ab inde percepimus». Comunicano in aenigmate: è l’enigma supremo della dimensione (anzi della perfezione) estetica, perché «videmus nunc per speculum in enigmate», secondo la parola di san Paolo (I Cor. 13.12). Non è un cluniacense a dirlo: è Guido d’Arezzo.[8]
Il passaggio attraverso Cluny era indispensabile per capire il quadro e i perché delle polemiche sulla musica fatta di voci chiare, vocalizzi, acciaccature, appoggiature. Proprio perché Cluny era il regno della musica. E comunque mezzo secolo più tardi «la Chanson di Guglielmo il Maresciallo (†1219) racconta che nell’attesa del torneo i cavalieri cantavano e danzavano per intrattenere le dame e rendersi attraenti ai loro occhi: era cortesia farlo, era buona educazione saperlo fare. Le fioriture del canto variavano e impreziosivano le melodie più semplici: un canto soprattutto giovanilmente tenorile e contraltile, per giovani guerrieri, per voci fresche ancora capaci di modulare temerariamente “le note acute e acutissime”».[9]
È tempo di riprendere la questione dell’effeminatezza. Torniamo a Giovanni di Salisbury, la musica ci accompagna verso i conviti. Ricordiamo il passo:
«Fa vergogna dire che anche gli uomini più elevati d’età e di sentire non si sottraggono a tanta turpitudine e, benché la natura li abbia creati nel sesso più nobile, scivolano per quanto loro è possibile in quello deteriore per innata malizia, per vizio effeminato e corruttela dei costumi, per quanto tuttavia non possano essere donne per beneficio della natura. Mentre la lussuria del ricco in calore apparecchia i suoi voti alla libidine, il ricciolone che si è acconciato con il ferro caldo prende fuori i piedi di colui che giace a mensa, invidiando alla meretrice il suo splendore, all’istrione il suo modo di fare, il fisico ai Proci, l’ornato alle vergini, e persino l’apparato trionfale ai principi, e al cospetto degli altri si mette a trattare i piedi e, a tacer d’altro, le gambe con le sue teneri mani; giacché a lungo incedette inguantato, per rendere morbide, per l’uso del ricco, le mani sottratte al sole. Poi, procedendo a poco a poco la licenza, errando per tutto il corpo con tocco impudico gratta il prurito che ha provocato, e infiamma i fuochi di Venere languente».
È una scena magistrale, una miscela di termini e riferimenti che rinviano alla letteratura classica, alle satire di Persio e di Giovenale, fino al testo di san Gerolamo (alla vedova romana Furia: cui si ispirò lo stesso san Bernardo in certe sue rampogne contro certi cardinali) per l’immagine del giovane boccoluto: riconosciamo che è una costruzione letteraria autonoma e innovatrice. E paradossale. Dobbiamo prestar fede a Giovanni? Se vogliamo, si. Magari non alla lettera come è stato fatto negli anni ’80 del secolo scorso all’epoca della cosiddetta sexual revolution; non dimentichiamo che la sua è l’opera di un moralista. Dunque possiamo dubitare, se vogliamo, dell’attendibilità della scena che rappresenta e delle immagini con cui la rappresenta: ma non della relazione fra convivialità, musica e perdita delle inibizioni (se vogliamo pensare che inibizioni ci fossero), perché il binomio convivialità-musica si sposa con la lussuria e non conduce a nulla di buono: «Qual è infatti la fine delle confabulazioni dei convivii e della libidine soddisfatta se non un rogo acceso e che sparge gli incendi della desolazione nei cittadini?», scrive Giovanni di Salisbury, e si riferisce a Didone.
«Ora la sapienza dei nobili si dichiara in ciò: se conoscono l’arte di cacciare, se sono stati molto condannabilmente istruiti nel gioco, se hanno infranto il vigore (robur) della natura negli articoli di una voce effeminata, se con i modi e gli strumenti musicali immemori del valore dimentichino a che son nati».[10]
I nobili sono cavalieri, i cavalieri sono uomini e dovrebbero essere virili, ma non lo sono. Lo diceva anche Bernardo di Clairvaux «Coprite i cavalli di seta e sopra le armature indossate non so quali tessuti leggeri e fluttuanti […] Ornate con oro, argento e gemme le redini e gli speroni […] Son queste insegne di cavalieri, o piuttosto ornamenti di donne? Forse che la spada del nemico avrà rispetto per l’oro, risparmierà le gemme, non potrà penetrare le sete? […] Lasciate crescere i capelli alla maniera delle femmine, perché sia un ostacolo per i vostri occhi; ostacolate i vostri passi con vesti lunghe e abbondanti; seppellite le vostre mani delicate e tenere in maniche ampie e straripanti».[11] Pietro di Blois, seppur eccellente polemista, non arriva a tanto: «portano scudi ottimamente indorati, desiderando la preda dei nemici piuttosto che la lotta da parte loro, e riportandoli indietro (per così dire) vergini e intatti. Tuttavia fanno dipingere guerre e scontri equestri sulle selle e sugli scudi, sí da dilettarsi con un’immaginaria visione di battaglie che non osano di fatto né ingaggiare né vedere».[12] Gli uomini sono maschi e sono tenuti a comportamenti virili, nel senso di maschili: guai a coloro che pervertono questa realtà.
Ma Giovanni di Salisbury va ben oltre lo stesso Bernardo di Clairvaux. Prima di quel Quattrocento in cui Bernardino da Siena strepitava contro i genitori senesi che lasciavano uscire i loro bei figlioli pur sapendo che sarebbero stati violentati in strada (meglio far uscire le figlie: se fosse capitato a loro sarebbe stato «un male minore»), o del Rinascimento a Roma e a Firenze, o delle corti di Enrico III di Guisa in Polonia e in Francia, o dell’età elisabettiana, Giovanni nel ruolo di moralista forse rappresenta i vizi segreti degli uomini? Anche questo va collocato, o rischiamo di non capire molto.[13]
La sodomia non era un tabù, e fino a quando non venne considerata un problema di ordine pubblico che, ça va sans dire, era estraneo ai luoghi del privilegio (le corti, le aristocrazie, gli artisti non in quanto geni ma perché protetti), all’inizio dell’Età Moderna, non era neppure considerata una faccenda tanto grave a giudicare dalla risposta che Leone IX fece avere a Pier Damiani quando questi gli aveva mandato il Liber Gomorrhianus;[14] si sapeva che c’era, fu registrata ad esempio nel Decretum di Burcardo di Worms, era un peccato: ma come gli altri, gli incesti, i baci alla francese, la masturbazione individuale e collettiva, i riti di fecondazione degli alberi, i rapporti con gli animali.[15] Di più, era una tentazione irresistibile, se vediamo la letteratura e la normativa monastica: per tornare all’universo cluniacense, Odone aveva elogiato la prudenza di Geraldo d’Aurillac nel momento pericoloso in cui «l’adolescente, deponendo la somiglianza con la voce e l’aspetto della madre, comincia ad assumere la voce ed il volto del padre»; dell’abate Odilone (†1049) «amava […] i ragazzini» aveva scritto il suo biografo cluniacense, Jotsaldo, «non perché seguisse la lascivia, ma perché piamente abbracciava in loro l’innocenza dell’età»; passa un altro secolo, e l’abate Pietro il Venerabile (1122-1156) elenca, tra le gesta notturne di un paio di dèmoni, l’aver fatto «fornicare il maestro della scuola con uno dei ragazzi». Era un’ossessione cluniacense? no, semmai una ossessione monastica, vale a dire di comunità tutte maschili e chiuse al mondo esterno. Le misure adottate a Cluny sono molto vicine alle punizioni menzionate dal penitenziale di Reginone di Prüm verso la fine del secolo X: per esempio, «il chierico o il monaco che insidiava adolescenti o ragazzini, che fosse stato colto a baciarli, o comunque in circostanze turpi», doveva rimanere, dopo le umiliazioni e le penitenze di rito, «sempre sotto la sorveglianza di due fratelli» ed essere privato di qualsiasi possibilità di «colloquio o consiglio privato» con i giovani; alle origini della vita monastica: Cassiano (IV-V secolo) raccomandava «di evitare che qualcuno si trattenesse, specialmente se giovani, assieme ad altri anche per poco tempo, o che si ritirassero in disparte, o che fossero sorpresi con le mani l’uno in quelle dell’altro», pena l’esser tenuti «responsabili di colpa certo non leggera […] di intrighi e di intenzioni perverse».[16] Ma se torniamo nell’Inghilterra del secolo XII, ecco Gauthier Map: racconta di essersi trovato a corte mentre due abati cistercensi stavano magnificando di fronte di Gilbert Foliot, vescovo di Londra, la potenza nei miracoli di Bernardo di Clairvaux, temutissimo ma ormai defunto; uno di loro raccontava però di come il santo non aveva potuto resuscitare un un ragazzo borgognone perché non era riuscito a raggiungerlo prima che morisse.
«”Il signor Bernardo allora ordinò che il corpo fosse traslato in una stanza appartata, fece uscire tutti, si chinò (incubuit) sopra il fanciullo, pregò e si rialzò; il fanciullo però non si rialzò e continuò a giacere morto”. Allora io: ”Fu il più sfortunato (infelicissimus) dei monaci. Non ho mai sentito che un monaco si sia chinato su un fanciullo, senza trovare subito dietro di lui il fanciullo eretto”. L’abate arrossì, e molti lasciarono la stanza per ridere».
Il verbo che usa Map, incumbere, è trasparente come il senso dell’aneddoto. San Bernardo si sarebbe giaciuto sopra il ragazzo; la sua infelicitas sarebbe da rinvenire nella mancanza di reciprocità. Il santo, e con lui tutti i monaci, veniva accusato di pratiche pederastiche nell’accezione più completa. E’ una facezia di corte, quindi non siamo nell’universo della satira quanto piuttosto del sarcasmo: «Ironia amara e pungente, ispirata da animosità e quindi intesa a offendere e umiliare» (e comunque ricordiamo che ironia e sarcasmo sono dati come sinonimi dal Dizionario dei sinonimi e contrari 2003, quindi in pratica la definizione è autoreferenziale).[17]
Giovanni di Salisbury esibisce la sua indignazione. Che sia chiaro: più la esibisce, più meriterà l’attenzione del suo eccellentissimo patrono, il Becket. E il Becket, che non è meno colto di lui ed è compartecipe del medesimo plafond di letture, capirà benissimo che si tratta di una satira condotta a un livello avanzato e apprezzerà ancor di più le abilità letterarie e le conoscenze culturali del suo autore e, ancor più importante, la sua grande utilità come polemista duro e spietato: un elemento indispensabile nell’arena di conflitti, manovre, intrighi, camarillas della corte. Ma, visto che la satira non può non avere un obbiettivo riconoscibile o è inefficace, il Becket, complice di giovinezza del re e ancora cavaliere eccellente come aveva dimostrato combattendo in singolar tenzone con un cavaliere francese al ritorno dalla campagna militare di Enrico II contro Tolosa, sicuramente potrà percepire e intuire qualcosa. Le relazioni di compagni d’arme, la convivenza gomito a gomito fra maschi fin dall’inizio dell’adolescenza, l’ignoranza e la sostanziale paura delle donne come ci ha insegnato ormai molti anni fa Georges Duby dando un gran colpo allo stereotipo del maschio guerriero e predatore («Immaginiamoci il cavaliere dell’XI secolo, sospettoso e tremante, accanto a un’Eva che tutte le sere lo raggiunge nel letto, di cui non è sicuro di saper soddisfare l’insaziabile concupiscenza, che sicuramente lo inganna e che forse, stanotte stessa, lo soffocherà sotto le coltri durante il sonno»:[18] e se ricordiamo il fatto che le donne erano solo oggetti nel mercato matrimoniale e non avevano nessuna ragione per provare almeno affetto per mariti non solo mai desiderati ma troppe volte repulsivi per fisico e per comportamento – si pensi al primo marito di Matilde di Canossa, Goffredo il Gobbo -, diciamo che l’uomo poteva avere qualche motivo per temerle, al di là dell’ansia da prestazione), potevano  dar luogo a a comportamenti non virili, non maschili, relazioni occasionali praticate tacitamente sotto il vincolo e l’impegno mutuo del silenzio, segrete, mute: i vizi segreti, inconfessabili e censurati di una comunità soltanto di uomini che fra uomini si lasciavano trasportare in orge segrete perdendo ogni forma di moderazione e inibizione. Le scene fra i cavalieri di corte immaginate (ma solo immaginate e solo di fantasia? satira, o parodia? Non dimentichiamo che di Alfonso il Battagliero, re d’Aragona fra il 1104 e il 1134, si diceva che predilgesse di gran lunga i suoi cavalieri piuttosto che la compagnia femminile e che anche questo fosse tra le cause del naufragio del suo tempestoso matrimonio con Urraca regina di Castiglia, una delle grandi donne del secolo XII)[19] da Giovanni di Salisbury si inseriscono perfettamente nel quadro delle testimonianze e ancor più delle allusioni del Medioevo.[20] Così la rappresentazione della musica. C’è un filo rosso che collega tutto, quello dell’abdicazione alla mascolinità. Che si traduce in cessazione dallo stato di legittimità: un messaggio dirompente che può permettersi un monaco antagonista come Idung, ma che è troppo dirompente per un literatus che voglia fare carriera perché possa esprimerlo in modo esplicito. Per usare le impareggiabili categorie di un grande troppo in fretta dimenticato per accodarsi alle mode del sedicente linguistic turn, Roland Barthes, il connotativo è di gran lunga più potente del denotativo.
La satira può essere parossistica ma non è mai gratuita, non può e non deve essere incredibile perché si deve riconoscere il suo oggetto: è paradossale, perché usa lo strumento logico del paradosso, portare al limite gli argomenti per renderne evidenti gli attributi.
È l’insegnamento di Wittgenstein. Non sarebbe male recepirlo nella definizione del Vocabolario Treccani…

[1] Per evitare di appesantire le note, laddove possibile si farà soprattutto riferimento ai testi nei quali si possano reperire i brani esaminati e citati.
[2] Cito da G.M. Cantarella, Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 109-112: Ioannis Saresberiensis Policraticus, I-IV, ed. K.S.B. Keats-Rohan, CC Cont. Med. CXVIII, Turnhoulti, Brepols, 1993 I.6, pp. 48-49; I.8, p.54 ; e cfr. G.M. Cantarella, Gli animali  parlanti di Leone IX: l’Italia vista dai confini dell’Impero, in La Reliquia del Sangue di Cristo: Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX (Mantova 23-26 novembre 2011), a cura di A. Calzona e G.M. Cantarella, Verona, 2012, pp. 54-55 n. 46.
[3] Satira, https://www.treccani.it/vocabolario/satira/ consultato 3 maggio 2021
[4] Idung, Dialogus duorum monachorum, ed. R.B.C. Huygens, Le moine Idung et ses deux ouvrages: «Argumentum super quatuor questionibus» et «Dialogus duorum monachorum», Spoleto, CISAM, 1980,  I.1.40-41, p. 107.
[5] Liber beatae Hildegardis subtilitatum diversarum creaturarum libri novem (Physica), PL 197, I.19, coll. 1138D-1139A); il brano procede: «et mentem ejus suavem facit, et oculos ejus clarificat, et stomachum ejus ad digestionem mollificat. Sed et frenetico multum prodest, si illud saepe comedat, quia furorem qui in cerebro ejus est extinguit»; riporto tutto il passo perché lo ritroveremo. Ho usato la trad. italiana di A. Campanini, Ildegarda di Bingen, Libro delle creature. Differenze sottili delle nature diverse, Roma, Carocci, 2011, p. 53. Cfr. S.J. Van Dijk, Medieval Terminology and Methods of Psalm Singing, in «Musica Disciplina», VI (1952), p. 11.
[6] G. Baroffio, San Benedetto Po-Polirone: una tradizione cluniacense in Italta, in «Vox Antiqua» I (2012), p. 40.
[7] G.F. Freguglia, Maria Maddalena, la «magnificata» a Cluny, in «Vox Antiqua» I (2012), p. 171.
[8] Cfr. G.M. Cantarella, «Inutile et ociosum opus»: il labor a Cluny, in Teoria e pratica e pratica de lavoro nel monachesimo altomedievale, a cura di Letizia Ermini-Pani, Spoleto, CISAM, 2015, pp. 39-40, 44-46, 49.
[9] Cito, e me ne scuso, dal mio Principie corti, cit., p. 113.
[10] Cfr. ancora Cantarella, Principi e corti, cit., p. 112.
[11]   De laude novae militiae, ii. De militia saeculari, in Sancti Bernardi Opera, edd. J. Leclercq- H. Rochais, III, Romae, Editiones Cistercienses, 1963, p. 216: «Operitis equos sericis, et pendulos nescio quos panniculos loricis superinduitis; depingitis hastas, clypeos et sellas; frena et calcaria auro et argento gemmisque circumornatis, et cum tanta pompa pudendo furore et impudenti stupore ad mortem promeratis. Militaria sunt haec insignia, an muliebria potius ornamenta? Numquid forte hostilis mucro reveribitur aurum, gemmis paret, serica penetrare non poterit? […] Vos, per contrarium oculorum gravamen, ritu femineo comam nutritis, longis ac profusiis camisiis propria vobis vestigia obvolvitis, delicatas ac teneras manus amplis et circumfluentibus manicis sepelitis».
[12] Cfr. ancora Cantarella, Principi e corti, cit., p. 230.
[13] Cfr. M. Rocke, Forbidden Friendships. Homosexuality and Male Culture in Renaissance Florence, Oxford, Oxford University Press, 1996, pp. 36-44; la citazione a p. 38.
[14] Cfr. G.M. Cantarella, Pier Damiani, il Liber Gomorrhianus e Leone IX, in Ovidio Capitani: quaranta anni per la storia medievale, a cura di Maria Consiglia De Matteis, I, Bologna, Pàtron, 2003, pp. 117-125.
[15] Rimando all’ottima traduzione italiana in A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo. Il Penitenziale di Burcardo di Worms, a cura di G. Picasso-G, Piana-G. Motta, Novara, Europía, 1986, pp. 92-93.
[16] Cfr. G.M. Cantarella, I monaci di Cluny , Torino, Einaudi, 20106, pp. 63-65.
[17] Cfr. ancora Cantarella, Principi e corti, cit., pp. 124-125. Sarcasmo, https://treccani.it/vocabolario/ironia_(Sinonimi-e-Contrari)/ consultato 8 maggio 2021.
[18] Cfr. G. Duby, Il cavaliere, la donna, il prete. Il matrimonio nella Francia feudale, trad. italiana Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 93
[19] Cfr. Parodia 1.b: «imitazione caricaturale di noti personaggi del mondo dello spettacolo, della politica, dello sport, ecc., del loro modo di parlare, di gesticolare e sim., fatta per suscitare ilarità, molto frequente nel teatro comico e negli spettacoli di varietà» (https://www.treccani.it/vocabolario/parodia/ consultato il 10 maggio 2021).
[20] Cfr. G.M. Cantarella, Luz, colores, artes, música. Voces desde la Plena Edad Media, in El mundo sensible de los eclésiasticos, Mar del Plata, ottobre 2021, di prossima pubblicazione.
Glauco Maria Cantarella ha insegnato Storia medievale presso l’Università di Bologna ed è membro del consiglio scientifico dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma. Ha dedicato le sue ricerche alla storia del potere secolare ed ecclesiastico nel Basso Medioevo, seguendo le trasformazioni delle istituzioni politiche e dei movimenti religiosi in Europa tra XI e XIII secolo. In particolare ha studiato la dominazione normanna nell’Italia meridionale, lo sviluppo del monachesimo cluniacense e le relazioni tra papato e impero. Tra le sue pubblicazioni: La Reliquia del Sangue di Cristo. Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX (a cura di, Verona 2012); Potere e violenza. Concezioni e pratiche dall’antichità all’età contemporanea (a cura di, Roma 2012); Manuale della fine del mondo. Il travaglio dell’Europa medievale (Torino 2015); Imprevisti e altre catastrofi. Perché la storia è andata come è andata (Torino 2017); Gregorio VII (Roma 2018).

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