Testo e immagini di Francesco Venturini
Capita, svagatamente viaggiando per monti e colli e boschi, che appaia una chiesa antica di prepotente fascino, risparmiata dal progresso industriale come dal furore propagandistico e decorativo del barocco in grazia della solitudine e dello spopolamento. Così la pieve di Codiponte.
La pianta basilicale a tre navate con doppio saliente la apparenta a tante sorelle sparse per l’Italia, e per esempio la vicinissima pieve di San Paolo a Vendaso, mentre i reperti archeologici contenuti (anzitutto il fondo del fonte battesimale) e alcune decorazioni scultoree raccontano una storia più antica di quella certificata in documenti, dalla metà del sec. XII. D’altro canto, la chiesa non è sfuggita a qualche ritocco, probabilmente necessario: il portale in facciata, il campanile e la capriata riccamente dipinta appaiono cinquecenteschi.
C’è un altro portale, al centro della navata sud, in posizione accessibile a un ginnasta. Le sculture sull’architrave e sulle mensole, poco più che incise, sono certamente più vecchie dei documenti di cui si diceva. Chi volesse indulgere a suggestive ipotesi (e con questi sacri monumenti spesso non si può fare molto di più), potrebbe immaginare che un tempo questo fosse il portale in facciata, prima che la chiesa prendesse l’aspetto attuale.
Altrettanto antichi o quasi sono i capitelli scolpiti, che rappresentano l’elemento più interessante del romanico, per chi coltivi la frustrante ambizione di penetrare i segreti di quella cultura. Non la parte colta, non i Maestri come Wiligelmo o l’Antelami, ma gli scalpellini analfabeti che riproducevano forme per le quali ci mancano i codici di accesso, dato che gli analfabeti non lasciano scritti. Forme che rimandano a credenze e riti cancellati progressivamente dalla cultura alta, e definitivamente dalla Controriforma. Non solo le affascinanti ma stereotipe sirene bicaudate, ma gli animali reali e fantastici, e gli omini nudi, qualche volta crudelmente mutilati, a Codiponte anche arrostiti dalle stufette elettriche appese in posizioni strategiche. Gli studiosi, in genere, liquidano queste impudicizie parlando di apotropaico, perché trovano rassicurante appoggiarsi a un repertorio documentato e museale, quindi colto. Altri studiosi, e per esempio Carlo Ginzburg, hanno documentato la sopravvivenza, ancora nel Cinquecento, di culti della fertilità diffusi nelle campagne fin dai tempi della Venere di Willendorf. Quella che è stata definita, molto riduttivamente, scultura decorativa, cioè l’opera dei poveri lapicidi popolani, tutto l’esuberante contenuto dei capitelli e dei tralci abitati, tutto ciò è la testimonianza di un mondo che non riusciremo mai a conoscere.
Per i cultori dei misteri fantascientifici si segnala invece il pannello sinistro del trittico che sta sopra lo scavo. Il piede destro della figura episcopale, e indubbiamente santa, si libra sopra un calice. Potrebbe essere il Graal? Non assomiglia alla coppa in vetro che si trova nella chiesa di San Moderanno a Berceto, dove molti vanno in caccia dello stesso mito.
Nato nel 1950. Per molti lunghi anni docente di materie letterarie in un liceo. Ora dedito a interessi vari e per la maggior parte innocenti, come l’esplorazione di chiese romaniche, delle quali parlo ai miei coetanei nelle Unitre.
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