La “Piramide” di Bomarzo

Profilo laterale della Piramide

La “Piramide di Bomarzo”
Studio su una monumentale testimonianza di cultura rupestre di Roberto Giordano

Nei fitti boschi che circondano l’abitato di Bomarzo si trova la cosiddetta “Piramide”, un grande masso in pietra vulcanica, il Lapis Ciminus, che presenta evidenti segni di lavorazione da parte dell’uomo. Per raggiungere questo suggestivo sito sono utilizzabili diversi itinerari; uno di questi inizia da “via del Fossatello”, una stradina che si distacca dalla strada provinciale “Bomarzese” e, poco dopo, incrocia sulla sinistra un viale delimitato da cipressi che conduce al cimitero del paese. Si prosegue sempre su via del Fossatello, in direzione sud-est, per immettersi sulla strada sterrata, detta “delle Rocchette”, un percorso che ricalca lunghi tratti di un’antica viabilità e costeggia il bordo di una forra, sul fondo della quale scorre un torrente. Proseguendo nel cammino si incontrano dei grandi blocchi di tufo che delimitano la strada, dalla loro struttura si intuisce che furono realizzati in tempi antichi. La sterrata prosegue fino in località “Macinara” dove incrocia un sentiero appena visibile sulla destra, indicato da un segno bianco e rosso tracciato in terra sulla roccia. Questo percorso arriva, in breve, alla “Tagliata delle Rocchette”, un sentiero in discesa all’interno di una via cava, lungo circa 70 metri e largo 3 metri, dove in alcuni tratti l’altezza della parete sfiora i 20 metri.

Rilievo dell’epigrafe (da Gasperini 1989)

La “Tagliata delle Rocchette” doveva essere un importante asse viario di raccordo con la sottostante “Valle del Tacchiolo”. Quasi alla fine della via cava si trova un grosso masso precipitato dall’alto; oltrepassato questo ostacolo e guardando in alto a sinistra, sul bordo superiore della parete, si individuano due epigrafi incise nel tufo[1]: nella prima si legge “TER”, abbreviazione di “Terminus”, interpretabile come “Linea di confine”, a destra di questa, poco più in alto, si legge “ITER PRIVATVM DVORVM DOMITIORVM (CIL XI 3042), cioè “Strada privata dei due Domizi”. I personaggi indicati nell’epigrafe dovrebbero essere i fratelli Tullus e Lucanus della gens Domitia, un’antica famiglia romana[2] proprietaria di alcune fornaci per laterizi, attive dalla tarda età repubblicana fino al IV-V sec. d. C., situate nel territorio tra Mugnano in Teverina e Bomarzo. In queste fornaci si fabbricavano i laterizi impiegati in numerosi monumenti di Roma antica, tra i quali il Pantheon, il Colosseo, le Terme di Caracalla e di Diocleziano. Il probabile periodo di pertinenza dell’iscrizione è da collocarsi tra il 59 ed il 94 d. C. Questa iscrizione è riportata in un libro del 1846 dell’arciprete Luigi Vittori[3]: “Ancora quivi si veggono strade consolari solcate da linee parallele per l’attrito dei carri per dove eran tratti, ed in questa istessa via ricavata nel sasso a qualche profondità tra dirupi e burroni leggesi in caratteri romani scolpiti nella sommità della rupe e contornata di minio questa vaghissima terminale o di servitù fondiaria”; dopo aver riportato l’epigrafe così continua: “La quale interessante iscrizione ci avverte il proprietario di essa strada, cioè due personaggi dell’illustre famiglia Domizia di cui abbiamo ancora un mattone con l’iscrizione: CALLISTI . DV . DOMITIORUM. Quali due Domizj oltre le posessioni aveano ancora una officina figulina, e spesse volte nei bolli di mattoni troviamo ripetuto il nome dei Domizj”. Grazie a questa preziosa testimonianza di Luigi Vittori sappiamo che ai suoi tempi era ancora visibile una decorazione di colore rosso intorno a questa iscrizione.
Tornando al nostro percorso e dopo aver superato la tagliata, ci troveremo in località “Tacchiolo”; ancora pochi passi in discesa e, sulla destra, si incontra un sentiero che si inoltra nel folto del bosco. Si cammina ancora per 10-15 minuti fino a incrociare sulla destra un sentiero in decisa salita caratterizzato da alcuni gradini abbozzati nella terra, che conduce all’obiettivo del nostro studio: la cosiddetta “Piramide di Bomarzo”, conosciuta anche come “Piramide Etrusca”, in virtù della sua struttura che richiama una forma piramidale e per le lavorazioni da parte dell’uomo.

La “Piramide” di Bomarzo

Questo grande masso è rimasto celato dal bosco fino agli inizi degli anni ’90 del ‘900, quando fu individuato da alcuni ricercatori appartenenti ad associazioni archeologiche locali. La struttura rupestre è stata resa fruibile, fin dal 2008, grazie all’impegnativa e generosa attività di ripulitura e manutenzione effettuata da Salvatore Fosci, residente a Bomarzo.
Le molteplici lavorazioni della Piramide
Il complesso rupestre, che raggiunge un’altezza massima di circa 16 metri, è stato lavorato nel lato rivolto verso nord-est, quello che presenta il declivio più accessibile. In esso sono identificabili almeno tre livelli, collegati tra loro da scalini. I primi due livelli sono raggiunti da una scalinata ricavata nella parte sinistra, poiché gli antichi costruttori hanno seguito la naturale conformazione del masso.

Dettaglio della scalinata principale

Tra le caratteristiche della Piramide, oltre alle scalinate e ai due grandi vani aperti in prossimità della cima, si impone all’attenzione una lunga e profonda incisione che inizia dall’estremità destra, segue il margine di frattura del masso fino a raggiungere un incavo, dove si suddivide in due parti; una parte si sposta leggermente più in alto, rimanendo affiancata alla prima e intercetta l’estremità destra di un gradino, uno di quelli larghi quattro metri; l’altra parte procede più in basso entrando in quelle che sembrano delle coppelle di raccolta o di decantazione.
Dal piano di calpestio si raggiunge il primo livello situato a circa un metro; in realtà l’inizio della scalinata deve trovarsi a una quota più bassa dell’attuale; il notevole interro della struttura, reso evidente da un grande albero che affonda le proprie radici proprio davanti al masso, porta a supporre che il piano originario è situato a maggiore profondità. Il secondo livello è raggiunto con 14 gradini; i primi cinque sono larghi circa un metro; mentre dal sesto fino al decimo gradino sono stati effettuati degli allargamenti verso destra che hanno portato la larghezza dei gradini a circa quattro metri. Gli ultimi scalini di questa rampa tornano ad avere una larghezza di circa un metro. Sulla sinistra di questo tratto di scalinata si trovano dei fori che servivano, presumibilmente, per ospitare delle strutture lignee con funzione di parapetto o di corrimano o forse anche di copertura della scalinata stessa. Al termine di questo secondo tratto di scalinata si aprono due grandi ambienti ricavati nel masso. Il vano di sinistra è di forma all’incirca rettangolare e misura 2,60 m x 1,80 metri, con un altezza di 2,30 metri e sulla sua parete di fondo è stata ricavata una banchina. Sulla soglia di quest’ambiente si trovano una decina di piccoli buchi rettangolari posizionati su un’unica fila, quasi a delimitare una parte dell’ingresso. Dietro questa serie di buchi (quindi verso l’interno dell’ambiente) c’è una canalina incisa nella roccia, non molto profonda che confluisce in un incavo, più grande e profondo, anch’esso di forma rettangolare. In questo ambiente sono stati ritrovati alcuni frammenti fittili non datati[4]. Il vano adiacente è di maggiori dimensioni e non presenta banchine. È abbastanza evidente che per realizzarlo venne “sacrificata” una larga parte dell’ultimo tratto di scalinata che conduce alla sommità del complesso rupestre. A testimoniare questa escavazione sono rimasti, a destra di questo vano, dei gradini che non sembrano avere alcuna utilità pratica. Da alcuni articoli si apprende[5] che durante le attività di ripulitura fu rinvenuto una sorta di scalino mobile, quindi non ricavato nel masso, situato all’inizio del tratto di scalinata situata al centro dei due ambienti. La funzione di questo particolare scalino, oggi non presente in loco, si presta a varie interpretazioni: era un appoggio utilizzato in alcune specifiche e, ad oggi, non definite circostanze? Oppure veniva spostato solo per aumentare lo spazio a disposizione? Al momento non ci sono spiegazioni a questa particolarità.

I gradini dell’ultima scalinata

Sulla sommità del monolite si trova un piano incassato, di modeste dimensioni, che presenta una forma all’incirca rettangolare, profondo 25 cm, largo 1,70 metri e lungo 3 metri, con un basso parapetto rivolto a ovest. Il lato rivolto a est è stato lavorato in modo da formare un angolo orientato precisamente verso questo punto cardinale, dal quale è possibile osservare un vasto panorama sulla valle del Tevere.
Le teorie sull’utilizzo della Piramide
Le incognite che caratterizzano la Piramide hanno contribuito, subito dopo la scoperta, a far nascere diverse ipotesi legate al suo presunto utilizzo in antico. La loro molteplicità è stato determinato anche dalla carenza di indagini scientifiche multidisciplinari, di scavi archeologici, di testimonianze epigrafiche e documentali. A parte i frammenti fittili rinvenuti nell’ambiente di destra, è noto il ritrovamento di altri reperti avvenuto alcuni anni fa, all’altezza dell’angolo sud-ovest del masso[6]. Furono trovati dei frammenti di tegole a impasto chiaro, di ceramica a vernice nera lucente e ceramica grezza. Gli esami di questi reperti hanno confermato la frequentazione del luogo a partire almeno dal II secolo a. C., e di un suo utilizzo in fasi successive, ma non sono sufficienti per chiarire completamente la storia del sito. Anche per gli studiosi non è affatto semplice comprendere cosa ha rappresentato la Piramide per le antiche genti del luogo; infatti fin dai primi rilievi eseguiti sulle lavorazioni presenti nel masso si è riscontrata la presenza di interventi dell’uomo effettuati in epoche diverse; una fase più antica e accurata[7] nella quale sono state realizzate le scalinate, l’ambiente di sinistra e la piattaforma sommitale, e una fase successiva durante la quale è stato scavato l’ambiente di destra e allargati alcuni gradini delle scale. Per questi motivi ma anche per la monumentalità del masso, che rappresenta un unicum nel panorama dell’architettura rupestre, sono state elaborate diverse ipotesi di studio, che hanno costituito la premessa per questo studio.
Altare rupestre del periodo etrusco
Per quanto riguarda la teoria dell’altare rupestre è necessario premettere che, rispetto ai sistemi divinatori in uso presso altre civiltà del mondo antico, confermati da numerosi documenti diretti e, quindi, sufficientemente conosciuti anche nei dettagli, la cosiddetta “disciplina etrusca” è nota in maniera decisamente incompleta. Sono scarsi i documenti originali di quel periodo e la nostra conoscenza deve basarsi fondamentalmente sulla tradizione indiretta, sulle notizie spesso incoerenti e alquanto succinte, di scrittori greci e latini, lontani nel tempo dalle fonti originali.[8] Per riassumere le attuali conoscenze acquisite dalla ricerca storica, ci affidiamo alle dettagliate descrizioni dell’archeologa Silvia Menichelli[9]: “Nel mondo etrusco, in cui era marcata l’esigenza di scrutare a fondo ogni fenomeno naturale e di svelare il destino privato e collettivo dell’uomo, assunse un ruolo fondamentale lo svolgersi di rituali complessi, sacrifici ed atti cultuali, che avevano come cornice architettonica gli altari. L’altare era presenza indiscussa nei riti per entrare in contatto con gli dèi, assumendo forme diverse a seconda della sfera di pertinenza delle divinità. La presenza di altari nel mondo etrusco è stata suddivisa con la seguente classificazione: in associazione a pozzi votivi, bóthroi, per culti di tipo ctonio; legati ai riti di fondazione di città; alla celebrazione di mitici eroi eponimi; ospitati all’interno delle tombe, o all’esterno, dove assumevano forma di terrazza su cui svolgere la cerimonia funebre. La ricerca condotta su tale tipologia architettonica, basata su circa quaranta esemplari datati tra il VII ed il IV sec. a. C., ha permesso di quantificare l’incidenza degli altari sul territorio etrusco, osservandone la diffusione, la destinazione cultuale, gli aspetti propriamente tecnici relativi alla costruzione ed all’orientamento e l’eventuale consacrazione. Tale fenomeno architettonico non esula, poi, dal panorama dell’Etruria rupestre: San Giuliano, Blera, Grotta Porcina, Manziana e Tolfa, annoverano notevoli testimonianze di altari che, accomunati dalla destinazione cultuale legata alla sfera funeraria, presentano un’interessante varietà di forme”. In queste parole non si riscontrano gli elementi fondamentali che potrebbero associare indiscutibilmente la Piramide a un altare rupestre di epoca etrusca; nelle sue vicinanze, infatti, non sono stati trovati pozzi votivi, non sono presenti necropoli o tombe monumentali, non vi sono insediamenti umani di grandi dimensioni, non ci sono importanti strade di comunicazione ma una discreta presenza di viabilità locale. Si riporta anche l’autorevole voce di Massimo Pallottino, un “maestro” della storia etrusca, che dal passato, così descrive i rituali etruschi: “La concretezza degli atti cultuali si manifesta nella precisa determinazione dei luoghi, dei tempi, delle persone e delle modalità entro i quali e attraverso i quali si compie l’azione stessa, volta ad invocare o a placare le divinità. Essa si svolge nei luoghi consacrati: recinti con altari ed edifici sacri contenenti immagini delle divinità. Spesso questi edifici sono orientati a sud e sud-est[10].
Oltre a quanto finora descritto c’è da considerare un elemento non trascurabile, rappresentato dall’inusitata grandezza del masso rispetto agli altari conosciuti, caratterizzati da dimensioni decisamente più modeste. Le conoscenze acquisite in seguito agli studi e alle ricerche disegnano un quadro completamente diverso da quello presentato dalla Piramide, in quanto i sacerdoti etruschi non praticavano le cerimonie rituali su strutture alte decine di metri, ma su manufatti decisamente più bassi e accessibili, che consentivano ai devoti, ieri come oggi, di seguire e partecipare allo svolgersi delle cerimonie. Per il sito della Piramide questa possibilità era ostacolata, inoltre, anche dall’esiguo spazio presente intorno al masso, segnato dal dirupo che delimita il fosso e dall’incombente parete rocciosa dalla quale, in tempi remoti, lo stesso masso si è staccato. È uno spazio relativamente ridotto che non facilita la presenza di un elevato numero di persone. [11]
Una caratteristica che è stato portata a sostegno dell’ipotesi altare rupestre è rappresentata dai solchi presenti nel masso, che sono stati definiti “un sistema di canalizzazioni per la raccolta di liquidi sacrificali[12]. Un’affermazione tutta da verificare, soprattutto se con “liquidi sacrificali” si intende il sangue scaturito in seguito all’uccisione di qualche animale. I sacerdoti etruschi, in effetti, sacrificavano pecore o capre alle quali si estraevano alcuni organi interni, come fegato e milza, per leggere e interpretare in essi i segni che potevano rivelare il volere degli dei, ma nelle testimonianze di autori latini non troviamo descrizioni di cerimonie o liturgie etrusche nel corso delle quali si sacrificavano innumerevoli capi di bestiame al fine di esaminare lo scorrere del sangue. Nel caso della Piramide, inoltre, questi solchi non iniziano da uno spazio ben definito, tale da poter essere interpretato come un’area preposta ai sacrifici, ma seguono il ciglio del masso, senza alcuna connessione logica con possibili attività rituali. Vedremo più avanti quale poteva essere stato il loro impiego.
Templum o piattaforma elevata per l’osservazione del cielo
Suscita qualche dubbio anche l’ipotesi che vede nella Piramide una sorta di Templum utilizzato dai sacerdoti etruschi, i cosiddetti Aùguri o Auruspici, depositari dell’arte divinatoria, per interpretare la volontà degli dèi tramite l’osservazione del volo degli uccelli e in genere dei fenomeni celesti. La perplessità nasce dalla constatazione che, da quanto conosciamo, il tempio degli Etruschi era un edificio realizzato rispettando un allineamento rigoroso con i punti cardinali, con la finalità di riprodurre sulla Terra le coordinate dell’universo, nel tentativo di dominarlo e comprenderlo. La fondazione di un tempio, inoltre, comportava un certo numero di scelte, quasi tutte legate alla topografia dei luoghi nei quali doveva sorgere. Gli Aùruspici cercavano un luogo sopraelevato dal quale la vista potesse spaziare sui quattro punti cardinali, quindi tracciavano una croce a terra con due assi orientati da est a ovest e da nord a sud. La sua costruzione, inoltre, non doveva essere troppo grande, costruita in legno e posta su un basamento di pietra. Il tempio era un punto di riferimento ben preciso, un caposaldo dal quale effettuare le osservazioni astronomiche. Si scrutava il cielo e cercava corrispondenze nelle viscere degli animali sacrificati, secondo il principio “microcosmo e macrocosmo si equivalgono”. La tipologia classica di un tempio etrusco, quindi, era ben lontana dalle caratteristiche della nostra Piramide, sulla quale gli Auruspici non avrebbero avuto una visibilità completa dell’orizzonte e della volta celeste. Dalla sua piattaforma sommitale, infatti, la visuale è aperta solo verso nord-est, mentre il resto dell’orizzonte è limitato dall’alta corona di roccia che circonda questo sito come un anfiteatro naturale. Per un Auruspice etrusco, quindi, osservare e interpretare i segni del cielo dalla sommità di questa struttura non rappresentava di certo la soluzione ottimale, quando poteva ottenere una visuale completa della volta celeste posizionandosi proprio sulla sommità dell’altopiano di roccia posto intorno al masso.
Monumento funebre di epoca romana
Un’altra teoria interpreta la Piramide come un monumento funebre di epoca romana, analogamente a molti altri presenti nel territorio, da Corviano, al bosco del Serraglio, alla Selva di Malano. Anche in questo caso, però, esistono sostanziali differenze con tali monumenti; ancora una volta per le rilevanti dimensioni della Piramide, inconsuete per un monumento funebre, e per le sue modalità di lavorazione, non rispondenti a una struttura che doveva svolgere il ruolo di glorificare il defunto e testimoniare, di conseguenza, la potenza della sua gens nei confronti delle popolazioni del territorio. I monumenti funerari romani, inoltre, erano realizzati con grande attenzione nei dettagli, dalle scalinate di accesso, ai ripiani, alle fossette per alloggiare le ceneri, fino alla precisa geometria del masso nel quale sono ricavati e presentano, in gran parte dei casi, delle epigrafi o iscrizioni dedicatorie.
Un enorme “palmento”
Tra le altre ipotesi esaminate si trova anche quella che identifica la Piramide come una struttura destinata a ospitare delle “pestarole” o “palmenti”, cioè delle vasche ricavate nella roccia dove, anticamente, si pigiavano i grappoli di uva al fine di produrre il mosto. In effetti dopo aver esaminato l’immagine di figura 5 si rimane alquanto colpiti dall’estrema somiglianza di questo palmento, situato a Pietranico in provincia di Pescara, con alcune caratteristiche della nostra Piramide. Le similitudini sono notevoli; la scalinata ricavata nella parte sinistra del masso, l’identica geometria delle vasche, la posizione del manufatto, isolata e lontano da contesti abitativi. Ma esaminando nel dettaglio i due manufatti si evidenziano notevoli differenze; i palmenti per la lavorazione dell’uva erano costituiti da vasche comunicanti situate a quote differenti dove l’uva era prima depositata nella superiore, quindi pigiata e lasciata riposare. In seguito, si apriva l’apposito canale posto nel tramezzo e si lasciava defluire il mosto nella vasca inferiore di fermentazione[13].

Il Palmento di Pietranico (dal sito web “Lafilossera.com)

La destinazione d’uso dei palmenti, inoltre, riguardava altri prodotti oltre al vino; l’olio, le pelli e la canapa e, in alcuni casi, avevano una valenza rituale e religiosa. Nella Piramide non si riscontrano, però, le classiche caratteristiche del palmento; i due grandi ambienti presenti sono affiancati alla stessa altezza e non esiste alcun collegamento o canale tra essi. Non ci sono, inoltre, tracce evidenti dell’alloggio per il torchio. Da considerare, inoltre, che l’altezza a cui si trovano e il numero di gradini necessario per raggiungerli, avrebbe reso decisamente problematico e faticoso il trasporto di pesanti recipienti contenenti uva o altri materiali.
Un manufatto dalle molteplici funzioni
In considerazione del fatto che le teorie descritte non mi sembravano rispondere adeguatamente alle incognite presentate dalla Piramide, ho cercato di delineare un quadro storico-archeologico, più accurato possibile, esaminando la maggior parte degli studi e delle ricerche realizzate. Per ampliare e diversificare l’ambito di ricerca, inoltre, ho approfondito l’esame di alcuni tra gli aspetti più rilevanti della struttura. L’ambito principale delle mie ricerche, però, si è focalizzato sulle articolate, complesse e, in parte, poco comprensibili lavorazioni presenti nella Piramide; gli interventi dell’uomo non mostrano il segno distintivo e inconfondibile di un progetto unitario, sono stati realizzati in tempi diversi, si sono intrecciati, sovrapposti e alcuni, probabilmente, sono rimasti incompiuti. Considerando, inoltre, che in antico non si faceva nulla a caso, soprattutto quando era necessario un notevole impegno fisico, si può affermare con una certa sicurezza che la Piramide non può essere ritenuta un manufatto realizzato per un compito specifico, bensì come una struttura che è stata continuamente modificata e adattata nel corso dei secoli, al fine di svolgere compiti diversi, iniziando dal periodo repubblicano romano fino ad arrivare al medioevo.
Pietra sacra di confine
Durante il periodo romano, nelle immediate vicinanze della Piramide, si transitava per una “via cava” nella quale, come abbiamo visto, sono incise almeno due epigrafi; una di queste recita “TER”, risolto come “terminus”, cioè linea di confine, ma Terminus è anche un antico appellativo di Giove, inteso come protettore di ogni diritto e di ogni impegno.

Il dio Terminus

Nel tempo Terminus divenne una divinità indipendente che vegliava sui confini dei poderi e sulle pietre terminali. Scrive Dionigi di Alicarnasso che il re Numa Pompilio ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che “se qualcuno avesse tolto o spostato i confini (horoi) fosse sacrificato al dio”. Il 23 febbraio, ultimo mese dell’anno del calendario romano, si celebravano le Terminalia, festa dei termini, cioè delle pietre terminali, su cui si ponevano una corona e una focaccia come offerte al dio. Il confine separa e unisce al tempo stesso, in quanto elemento di separazione, è anche condizione di possibilità di ogni dialogo, che deve essere fra differenti e non tra uguali. Sul fondo dell’ambiente di sinistra della Piramide, quello lavorato in maniera più accurata, si trova una banchina realizzata “a risparmio”, ciò significa che per ottenerla è stata tolta dalla parete di fondo una considerevole quantità di materiale (fig. 7). Un lavoro imponente visto che per disporre di un sedile o un ripiano si potevano utilizzare metodi meno onerosi. Questa banchina, pertanto, doveva rivestire un significato piuttosto rilevante; e cosa c’è di più importante di un altare sul quale depositare le offerte per la divinità?
È suggestivo ipotizzare, pertanto, che il grande masso della Piramide, poteva svolgere il compito di “Pietra di Confine”, un luogo sacro nel quale, durante alcune specifiche festività, si incontravano i proprietari dei terreni confinanti per effettuare dei riti propiziatori. A tal proposito nel “Dizionario Mitologico” dell’abate Declaustre, scritto alla fine del XVIII secolo si trova un passaggio molto interessante: “Il Dio Termine veniva a principio rappresentato sotto la figura di una grossa pietra quadrata, ovvero di un ceppo; in seguito gli fu data una testa umana, posta sopra un confine piramidale, ma sempre senza braccia, e senza piedi, acciochè, come dicevano, non potesse cangiar situazione[14].
Postazione di osservazione e avvistamento
La Piramide è situata in un fitto bosco, accanto al ciglio di un fosso, contornata da alte rupi e vicino a una sorgente. Le sue principali caratteristiche sono la verticalità e l’altezza ma, essendo celata alla vista da alberi e dalla parete rocciosa, non è facilmente individuabile. Gli antichi abitanti del luogo “sfruttarono”, pertanto, una posizione naturale grazie alla quale è possibile osservare un orizzonte che spazia su gran parte della valle del Tevere e che consente, eventualmente, di comunicare con altre postazioni situate nelle alture circostanti.

La banchina nell’ambiente di sinistra

Nel periodo alto-medievale l’area territoriale intorno alla Piramide, compresa tra Bomarzo, Soriano nel Cimino e Vitorchiano, era costellata da numerosi insediamenti umani a carattere rupestre, simili a quello situato in località Santa Cecilia. Gran parte di questi siti erano sorti nel periodo romano, alcuni su precedenti insediamenti di epoca etrusca, ed erano adibiti ad attività artigianali, in collegamento con le fornaci e fabbriche di materiali per edilizia presenti in zona, e dediti alla lavorazione dell’argilla e al trasporto, tramite il Tevere, del prodotto finito a Roma. In seguito al declino dell’autorità centrale di Roma, gli insediamenti rurali e quelli a vocazione artigianale conobbero un lungo periodo di instabilità. I loro abitanti, per sfuggire a invasori e altre calamità, si distribuirono nel territorio in maniera non omogenea ma, dopo qualche tempo, molti di loro tornarono ad occupare i precedenti siti che erano posti, di solito, vicino a fiumi o torrenti e distanti dalle strade di maggior collegamento; in altri casi le genti trovarono riparo accanto ai resti di ville rustiche di età romana. I siti rupestri, di nuovo frequentati, tornarono alla originaria vocazione artigianale. Questi insediamenti non avevano strutture difensive e non si trovavano in posizioni naturalmente difendibili, in quanto la loro difesa consisteva nel “non apparire”: erano piccoli nuclei che cercavano di sfuggire a un osservatore interessato[15]. L’assenza di strutture difensive e di una valida organizzazione militare, fece divenire di fondamentale necessità l’avvistamento preventivo di eventuali pericoli in arrivo. Non si può escludere, quindi, che la Piramide, in questo tormentato periodo storico, fosse utilizzata come posto di osservazione e avvistamento di eventuali minacce provenienti dal Tevere e dall’ampia valle nella quale esso scorre. La posizione elevata consentiva, inoltre, di effettuare delle segnalazioni ottiche (con fuochi o fumo) ad altri siti posizionati sulle alture vicine, velocizzando in tal modo il diffondersi delle notizie, così come avvenne, poco tempo dopo, con la realizzazione dell’articolato sistema di torri di segnalazione, definite semaforiche, presenti dalla costa del mare fino all’interno del territorio.
Sito per lavorazione di piante tintorie
Nel territorio intorno alla Piramide, disposti lungo i torrenti che scorrono nelle forre, sono ancora visibili i resti di numerosi mulini e delle loro attrezzature. Questi mulini, nel corso del tempo, furono utilizzati per lavorare grano, frumento e altro, fornendo così occupazione e una discreta stabilità economica alle comunità umane presenti in zona. In alcune di queste strutture si rinvengono ancora delle grandi pietre da macina che presentano delle scanalature particolari, il cui disegno ricorda molto quelle delle macine utilizzate nelle pratiche di lavorazione di alcune piante da cui si estraevano coloranti per fibre tessili. Una tra le più utilizzate era la “isatis tinctoria”, pianta spontanea, molto diffusa, più conosciuta come “Guado”. Dalla lavorazione della Isatis tinctoria si ottiene un colorante per tessuti. Le proprietà coloranti del guado sulla lana erano già citate negli scritti di Galeno, Dioscoride e Plinio. Dopo la macerazione e fermentazione in acqua si ottiene una soluzione colorata, utilizzabile nella tintura della lana, seta, cotone, lino e juta, ma anche in cosmetica e colori pittorici. Fu coltivata in Italia almeno dal XIII secolo fino alla seconda metà del XVIII, quando la concorrenza dell’indaco asiatico e americano ne ridusse drasticamente la produzione. Le macine riducevano in poltiglia le foglie fresche di questa pianta e la pasta così ottenuta era lasciata riposare per un paio di settimane su graticci o su un piano inclinato, per consentire la fermentazione; era necessario controllare costantemente la presenza di eventuali incrinature o crepe della superficie, che dovevano essere chiuse per evitare il proliferare di insetti o parassiti. In un secondo tempo la pasta veniva modellava in pani che si lasciavano stazionare, rigirandoli spesso, in luoghi ariosi e ombreggiati. Dopo alcune settimane i pani così ottenuti erano consegnati al macero, dove si tritavano in acqua, urina e aceto (o vino) e lasciati macerare per almeno quindici giorni. È immaginabile come l’odore emanato dai maceri del guado non fosse dei migliori e, infatti, diversi documenti d’archivio testimoniano come loro ubicazione fosse il più delle volte dislocata fuori dalle mura cittadine. A fine macerazione, la pasta di guado era essiccata e ridotta in polvere, quindi venduta ai tintori.[16] In questa descrizione si riconoscono diverse caratteristiche della Piramide; infatti essa è situata relativamente vicino ai mulini disposti lungo il torrente, a cui è collegata da viabilità locale, è distante dai centri abitati, così che odori e scarti di lavorazione non potessero creare problemi, è situata accanto a una sorgente d’acqua e disponeva, inoltre, di un grande vano aperto, ricavato sulla parte superiore e non è escluso che, forse per un aumento dell’attività lavorativa, fu realizzato anche l’ambiente di destra. Questi due grandi vani non mostrano tracce di coperture per travi e, quindi, erano continuamente esposti all’aria e ai venti di nord-est, e rappresentavano la sede ideale per sistemare i graticci sui quali si depositavano i preziosi pani di guado.
Presidio di controllo
In virtù del fatto che presso la Piramide si lavoravano e conservavano materiali di una certa importanza e valore economico e che accanto ad essa transitava un tratto di viabilità che collegava la valle del Tacchiolo con il pianoro soprastante, si può ipotizzare l’esistenza di un presidio umano, preposto al controllo, situato in prossimità della strettoia esistente tra il masso e parete rocciosa. Uno tra gli indizi che possono far pensare alla presenza di tale presidio è rappresentato dalle lunghe incisioni che “corrono” lungo il ciglio del masso, le quali, come abbiamo visto, sono ritenute per alcune teorie delle “canalizzazioni per la raccolta di liquidi sacrificali”. Esaminando la disposizione di queste canalizzazioni si può ragionevolmente ipotizzare che esse, in realtà, non siano altro che dei “solchi di gronda”, realizzati per convogliare le acque piovane e di stillicidio. Osservando la parete destra del masso, sopra la quale corrono i solchi, si intuisce che può essere stata adibita come un solido appoggio al quale si appoggiava una rudimentale costruzione, sull’esempio di quelle esistenti nella vicina località di Santa Cecilia. La presenza di una struttura abitativa si può intuire anche dall’aggetto del masso, che serviva da copertura e da alcune nicchie quadrate, ricavate nella parete rocciosa, che potevano essere utilizzate per l’alloggio delle travi. È pertanto ipotizzabile che tali solchi, siano stati realizzati nel periodo medioevale al fine di raccogliere e utilizzare le acque, ma anche per evitare che penetrassero nel riparo sottostante. Non si può escludere che al compito di presidio possa essere collegata anche l’abitazione rupestre a due piani, definita localmente “La Finestraccia”, situata a poca distanza dalla Piramide.
Conclusioni
Le ipotesi proposte in questo studio rappresentano la sintesi tra le ricerche documentali e le numerose visite effettuate al sito della Piramide, e sono state originate, oltre che dal personale interesse scientifico per tale testimonianza di cultura rupestre, anche dalla constatazione che le fonti storiche o archivistiche consultate non riportano alcun cenno su questa monumentale struttura. È indubbio che il sito si trova relativamente distante da centri abitati, isolato e protetto da fitti boschi, ma è singolare la totale assenza di testimonianze documentali. Una sorte diversa rispetto, ad esempio, alla vicina e sicuramente meno appariscente epigrafe dei Domiti, descritta già da Baldassare Peruzzi[17] nella metà del XVI secolo e, come abbiamo visto, da Luigi Vittori nel XIX secolo. Le scienze etnografiche ci insegnano che una simile testimonianza del lavoro umano avrebbe dovuto lasciare una seppur minima traccia almeno nel toponimo, mentre l’analisi di quelli esistenti, “Sorgente del Tacchiolo” e “Valle del Tacchiolo”, porta a considerare questo termine derivante da “tacca”, ovvero “intacca”, “macchia”, una definizione che rivela la probabile destinazione d’uso della località; ovvero un territorio nel quale si tagliavano gli alberi per farne legname[18]. La gente del posto, che conosceva questo enorme masso, lo aveva definito “il Sasso del Predicatore”, accostandolo ad altri, più modesti nelle dimensioni, presenti nel territorio, oppure semplicemente “Il Sasso con le scale[19], una definizione ben precisa che testimonia l’assenza di un retaggio nel ricordo collettivo. Non è difficile ipotizzare, pertanto, che la maggior parte delle attività umane, svolte nel corso dei secoli presso la Piramide, furono finalizzate a lavorazioni manuali e artigianali, per le quali non è stata prodotta alcuna documentazione, e di esse, quando si conclusero, non rimase traccia nei testi e nella memoria delle genti.
Fonti Bibliografiche

  • Balsamini 2017= Balsamini, L’estrazione del colore blu dal guado: appunti di storia e tecnica, in Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi, 2017
  • Battistini 2011= Battistini, Il fenomeno delle “vasche” rupestri in Italia, in Moroni Lanfredini, Laurenzi, Pietralba. Indagine multidisciplinare su alcuni manufatti rupestri dell’Alta Valtiberina, 2011
  • Ceci, Fosci 2011= ceci, S. Fosci, Un’occasione da non perdere: le aree archeologiche di Santa Cecilia e del Tacchiolo tra Bomarzo e Soriano del Cimino, in Archeotuscia News, maggio 2011
  • CECI, FOSCI, PROIETTI 2019 = F. CECI, L. PROIETTI, S. FOSCI, I misteri della Piramide di Bomarzo, 2019
  • Coty 2013=K. Coty, A Dream of Etruria: The Sacro Bosco of Bomarzo and the Alternate Antiquity of Alto Lazio, 2013, fig. 85
  • Cristofani 2000 = Cristofani (a cura di), Etruschi, una nuova immagine, 2000
  • Declaustre 1785= Declaustre, Dizionario mitologico, ovvero della favola, storico, poetico, simbolico, ec., Tomo VI, 1785
  • De Minicis 2011= De Minicis, Aree rupestri del Lazio: una realtà insediativa poco conosciuta, in “Le aree rupestri dell’Italia centro-meridionale“, CISAM, 2011
  • Di Silvio 2011=P. Di Silvio, C’è una piramide nel bosco…, in Archeo, aprile 2011
  • Gasperoni 2003= Gasperoni, Le fornaci dei Domitii. Ricerche topografiche a Mugnano in Teverina, 2003
  • Gasperini 1989= Gasperini, Iscrizioni latine rupestri nel Lazio, Etruria meridionale, 1989
  • Menichelli 2010 = Menichelli, Architettura sacra nell’Etruria rupestre: il caso degli altari, dal convegno “L’Etruria rupestre dalla protostoria al medioevo. Insediamenti, necropoli, monumenti, confronti. Barbarano Romano – Blera, 2010
  • Menichino 2008= Menichino, Escursionismo d’Autore nella Terra degli Etruschi, 2008
  • Pallottino 1982 = Pallottino, Etruscologia, 1982
  • Proietti 2010= Proietti, La “Piramide di Bomarzo”: cifre, dati quantitativi ed ipotesi interpretative, in Archeotuscia News, maggio 2010
  • Pro Ferento 2006 = Società Archeologica Viterbese Pro Ferento, Tuscia nascosta. Guida ai luoghi antichi nella campagna viterbese, 2006
  • Sanna, Proietti 2007= Sanna, L. Proietti, Presenze archeologiche lungo la “Via Publica Ferentiensis” e le sue diramazioni, 2007
  • Tizi 2010=M. Tizi, Un’escursione con Archeotuscia attraverso i misteri della Piramide di Bomarzo, in Archeotuscia News, maggio 2010
  • Prayon, Steingraber 2011=S. Steingräber, F. Prayon, Monumenti etrusco-romani, 2011
  • Uberti 2012 = M. Uberti, Due passi nel mistero. Antiche civiltà, 2012
  • Vittori 1846 = L. Vittori, Memorie archeologico-storiche sulla città di Polimarzio oggi Bomarzo, 1846

Note
[1] In realtà le epigrafi incise in questo tratto di via cava dovrebbero essere tre; un’altra con “TER” è riportata in Pro Ferento 2006, p. 13
[2] Lucanus e Tullus erano i figli naturali di Curvius Tullus e figli adottivi dell’oratore Domitius Afer, vissuti in un periodo che va tra il regno di Nerone e quello di Traiano. Divennero proconsoli d’Africa sotto Domiziano
[3] Vittori 1846, p. 25
[4] Proietti 2010, p. 38
[5] Proietti 2010, p.37; Uberti 2012
[6] Gasperoni 2003, p. 124
[7] Prayon, Steingraber, 2011
[8] Cristofani 2000, p. 140
[9] Menichelli 2010, p. 168 e seg.
[10] Pallottino 1982, p.262
[11] Menichino 2008, p. 139
[12] Di Silvio 2011, p. 95
[13] Battistini 2011
[14] Delaclaustre 1785, p. 123
[15] De Minicis 2011, p. 19
[16] Balsamini 2017
[17] Coty 2013
[18] Nel medioevo il termine “macchia” era l’opposto di quello odierno; si definivano macchie le aree nelle quali il bosco era stato tagliato
[19] Ceci, Fosci, Proietti 2019

Roberto Giordano

Roberto Giordano è nato a Roma nel 1958 e lavora dal 1979 nel mondo dell’Information Technology. Con il Gruppo Archeologico Romano ha partecipato, dal 1981 al 2001, a numerosi cantieri di scavo archeologico e ricognizione del territorio, nel Lazio e in Toscana. Da tempo si dedica allo studio del periodo etrusco e alto-medievale e ha pubblicato diversi articoli e brevi saggi su riviste di settore, ha tenuto, inoltre, numerose conferenze su tematiche storiche. Collabora con diverse associazioni culturali e Comitati di Quartiere in qualità di esperto in storia e archeologia.Nel 2013 è stato pubblicato il suo libro “L’Enigma Perfetto, i luoghi del Sator in Italia”.
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