La pratica della pittura infamante nel mondo comunale (parte seconda) di Filippo Basilico
Il Broletto di Brescia
Con il termine broletto si indica l’edificio dove, nei secoli XII e XIII, aveva sede la magistratura dei comuni lombardi e nel quale si svolgevano l’attività amministrativa e l’esercizio della giustizia; in seguito il termine venne usato per indicare il palazzo dei consoli, del podestà e genericamente il palazzo municipale. In tali palazzi era frequente la realizzazione di pitture di carattere politico- propagandistico (Cremona, Milano, Brescia): «le proto-signorie che si affermarono nei centri dell’Italia comunale tra Due e Trecento maturarono in diversi casi una spiccata sensibilità verso le arti figurative, alle quali, talvolta in modo coerente e programmato, affidarono un essenziale compito di rappresentazione e di autopromozione. Attraverso la comunicazione iconica, capace di raggiungere in modo diretto ed efficace un pubblico potenzialmente collimante con l’intera cittadinanza, i signori miravano ad affermare le fonti di legittimazione del loro potere, a rappresentare le iniziative rivolte allo sviluppo della città e al benessere e dei suoi abitanti, a rivendicare la continuità politica con l’istituto comunale che ne aveva promosso l’ascesa»[1]. Nel caso di Brescia – all’interno del Broletto – è la grande sala del Consiglio il luogo su cui concentrare la nostra attenzione perché è lì che si trova il grandioso affresco infamante duecentesco. Esso è organizzato in due fasce sovrapposte che presentano cavalieri incatenati tra loro che, con espressione dolente, alzano la mano destra per coprirsi parzialmente il volto e presentano al collo una borsa triangolare levata in aria nella direzione opposta a quella del movimento dei cavalli. Tali cavalieri, inoltre, vestono tutti con lunghe tuniche a tinta unita «a vergogna di quanti si erano posti contra patriam» (fig.12)[2].
Per comprendere il perché i membri di alcune famiglie furono condannati all’infamia eterna dentro le mura del luogo dove, ancora oggi, si esercita l’amministrazione della città bisogna risalire alle guerre tra Federico II e il papato che, ben presto, iniziarono ad interessare anche Brescia perché fu quasi sempre unita al papato contro l’imperatore svevo, così come dimostrano i documenti. L’episodio cui fa riferimento l’affresco è quello del 1238: Federico II, nel tentativo di espugnare la città guelfa, iniziò un lungo assedio durante il quale venne aiutato da un centinaio di cavalieri cittadini (ghibellini). Contro di essi, ad assedio finito, il Comune dispose ritorsioni consistite nella distruzione di case e torri; Brescia quindi, mantenendo una coerente identità guelfa e rimanendo nell’orbita filopapale, decise di commissionare un affresco infamante dei ghibellini all’interno del proprio Broletto[3]. I traditori del Comune furono così effigiati sulle pareti del palazzo comunale, marchiati ad infamia da una borsa che, nell’iconografia medievale, era simbolo di avaritia: immagine perfetta per designare chi, per tornaconto personale, aveva adottato comportamenti lesivi dell’interesse collettivo o – per dirla nei termini che saranno poi propri della propaganda comunale – del bene comune. L’affresco dei Cavalieri venne concepito come una sorta di libro figurato dove i rapporti di parentela tra i traditori erano immediatamente percepibili grazie allo stemma che accompagna ognuna delle figure. Alcuni l’hanno considerato addirittura alla stregua di una summa antologica di tutti nemici del Popolo bresciano, tenuto conto che in esso sono presenti traditori appartenenti ad episodi verificatisi in tempi e luoghi differenti. Sono quindi le insegne araldiche dipinte sugli scudi triangolari a rendere riconoscibili i vari personaggi mentre le borse legate al collo dei cavalieri sono sospinti all’indietro dall’incedere dei cavalli. Questo particolare ci riporta alla mente il sommo poeta che, nel XVII dell’Inferno, incontra i dannati (usurai) che presentano ciascuno una borsa al collo con sopra gli stemmi delle rispettive casate cui appartenevano, alludendo molto probabilmente alle borse che prestatori e usurai portavano sempre al collo durante i loro affari e che più li contraddistingueva assieme al libro dei conti. È proprio grazie a tali borse che Dante riesce ad identificare i personaggi che incontra; non ne indica il nome perché, per i lettori dell’epoca, il solo stemma era più che sufficiente per un chiaro riferimento(fig.13). Proprio grazie a questi stemmi riconosce Rainaldo degli Scrovegni, usuraio padovano: “E un che d’una scrofa azzurra e grossa/ segnato avea lo suo sacchetto bianco,/ mi disse: Che fai tu in questa fossa?” [E un dannato, che aveva una borsa bianca con l’immagine di una grossa scrofa azzurra (lo stemma degli Scrovegni), mi disse: Cosa fai tu in questo Inferno?] (vv. 64-66)[4]. Secondo Giuliano Milani invece Dante – anche se identifica gli usurai grazie allo stemma che li contraddistingue – li lascia volutamente nell’anonimato per colpire l’usura dell’intera famiglia e non del singolo; tale attività infatti si trasmetteva di padre in figlio e consentiva di arricchirsi alle spalle di istituzioni pubbliche in senso ampio: comuni, regni, monasteri, chiese e signori[5].
Il discorso su Dante però, a proposito della pittura infamante, è più ampio; prima si è detto che tale pratica colpiva numerosi reati (corruzione, tradimento, baratteria, omicidio ecc) e le classi sociali più disparate. L’Inferno, a tal proposito, può essere visto come una grandiosa pittura infamante “narrativa”: in esso l’umanità tutta viene condannata; vi troviamo: papi (Celestino V, Bonifacio VIII, Anastasio II); imperatori (Federico II di Svevia, Filippo IV il Bello); uomini politici (Farinata degli Uberti, Ugolino della Gherardesca); intellettuali (Brunetto Latini, Prisciano di Cesarea, Francesco d’Accorso) ecc.
La pratica della pittura infamante è una preziosa testimonianza di quanto il mondo comunale fosse un mondo estremamente violento; inoltre l’idea che, attraverso tale pratica, l’infamia che puniva i colpevoli dovesse essere eterna (una sorta di damnatio memoriae) e non una cosa passeggera è anch’esso un concetto che ritroviamo in Dante. Nel canto XXXIII dell’Inferno, infatti, c’è un solo motivo che spinge il conte Ugolino – restìo a ricordare i motivi del suo tormento – a confidarsi a Dante: l’idea che le sue parole possano fruttare infamia (eterna) al dannato cui perennemente rode il cranio (l’arcivescovo Ruggero degli Ubaldini): Ma se le mie parole esser dien seme/che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,/parlare e lagrimar vedrai insieme (Inf. XXXIII, 7 – 9).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
- Milani, Dante e la pittura infamante. Una nota sulle terzine degli usurai (Inf. XVII, 43-78), «Le tre corone. Rivista internazionale di studi su Dante, Petrarca, Boccaccio», II, 2015, pp. 131-145;
- , L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, Roma 2017;
- Ortalli, La pittura infamante. Secoli XIII-XVI, Roma 2015;
- , L’immagine infamante e il sistema dell’insulto nell’Italia dei Comuni, in G. Barbieri -L.Olivato (a cura di), Lezioni di metodo. Studi in onore di Lionello Puppi, Vicenza 2002, pp. 332-340;
- Ferrari, La politica in figure. Temi, funzioni, attori della comunicazione visiva nei comuni lombardi (XII – XIV secolo), Roma 2022;
- , “Pacem, non bellum voluit”. L’iconografia pubblica della signoria negli affreschi del Broletto, in G. Archetti (a cura di), Berardo Maggi. Un principe della Chiesa al crepuscolo del Medioevo, Brescia 2012, pp. 175-208;
- Y. Edgerton, Pictures and punishment. Art and criminal prosecution during the florentine Renaissance, London 1985.
SITOGRAFIA:
- Cervini, Lombardia, Enciclopedia dell’Arte Medievale (1996): https://www.treccani.it/enciclopedia/lombardia_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ ;
- Panazza, Brescia, Enciclopedia dell’Arte Medievale (1992):
https://www.treccani.it/enciclopedia/brescia_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ ;
- F. Pistilli, Broletto, Enciclopedia dell’ Arte Medievale (1992):
https://www.treccani.it/enciclopedia/broletto_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ ;
NOTE:
[1] M. Ferrari, «Pacem, non bellum voluit». L’iconografia pubblica della signoria negli affreschi del Broletto, in Berardo Maggi. Un principe della Chiesa al crepuscolo del Medioevo, atti del Convegno (Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 27-28 febbraio 2009), a cura di G. Archetti, Brescia 2012, pp. 175-208: p.175. In questo passo si evidenzia come le immagini, nel mondo comunale, avessero non solo un ruolo infamante ma anche propagandistico e di celebrazione del potere.
[2] G. Ortalli, p.132.
[3] Si veda: G. Andenna, Pittura infamante e propaganda politica negli affreschi del Broletto, «Civiltà bresciana», VIII, 1 (1999), pp. 3 – 18.
[4] Sul significato simbolico della borsa nell’iconografia politica medievale: G. MILANI, L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, Roma 2017.
[5] Giuliano Milani: Dante e la pittura infamante. Una nota sulle terzine degli usurai (Inf. XVII, 43-78), «Le tre corone. Rivista internazionale di studi su Dante, Petrarca, Boccaccio», II, 2015, pp. 131-145.
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