La pratica della pittura infamante nel mondo comunale

La pratica della pittura infamante nel mondo comunale (parte prima)  di Filippo Basilco

Ben prima che – durante il Medioevo – emergesse la realtà del Comune, fu la Chiesa di Roma a riconoscere in tempi lontani il grande potere politico, sociale e culturale delle immagini. Fu proprio su questa tematica che si realizzò il maggiore scontro tra la Chiesa di Roma e la Chiesa Ortodossa che oggi viene ricordato come Iconoclastia; conflitto che si spense definitivamente col Concilio di Nicea II (787) dove si riconobbe definitivamente la liceità delle immagini[1]. Molto tempo prima che le tendenze iconoclastiche acquisissero nel mondo bizantino una forza tale da sfociare in un attacco ufficiale all’arte sacra, già papa Gregorio Magno – tra 599 e 600 – sostenne che la pittura fosse scrittura per illetterati e strumento per istruire le menti; in polemica con il vescovo Sereno di Marsiglia[2]. Egli aveva infatti capito che nelle società dell’epoca, nel complesso largamente illetterate e analfabete, lo strumento di comunicazione principale di convincimento e propaganda era soprattutto l’immagine e non la scrittura.
I Comuni italiani, a partire dal XIII secolo, ripresero questa idea dell’immagine come strumento di comunicazione principale con i cittadini quindi iniziarono a fare un largo uso di immagini che, ovviamente, andasse al di là della sfera religiosa da cui aveva tratto le sue premesse. La pittura religiosa, soprattutto in età medievale, ha il ruolo sia di atterrire i fedeli con i grandiosi affreschi relativi alla dannazione infernale sia di allietarlo con delle visioni paradisiache. Un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, è il celebre Giudizio Universale del Beato Angelico che, in quanto frate domenicano, dimostra una certa sensibilità per queste tematiche.

I dannati di questi affreschi influenzeranno non poco quella che è la cosiddetta “pittura infamante”: pratica che consisteva nell’esecuzione e nell’esposizione, in luogo pubblico, di scene di punizione in cui era ritratto il reo, individuabile da iscrizioni, per infamarlo[3]. Il fatto che il mondo comunale attinga ampiamente dall’iconografia religiosa fornisce il caso più tipico di questa commistione tra fede e governo in un periodo in cui, spesso, il santo patrono di una città era rappresentato a spese e su committenza degli organismi cittadini e non dalle autorità ecclesiastiche[4]. Uno dei casi più eloquenti è rappresentato dalla celebre Maestà del Duomo di Siena (1308 – 1311), commissionata dai senesi all’artista Duccio di Boninsegna per omaggiare la Vergine che li aveva condotti alla vittoria contro i fiorentini nella battaglia di Montaperti (1260) «votandole obbedienza e servizio»[5]. Questa  grandiosa pala venne posta nella Cattedrale il 9 giugno 1311 attraverso una solenne processione che iniziò dallo studio del pittore e si concluse in Duomo e alla quale parteciparono le massime autorità cittadine sia religiose che civili[6].

Duccio di Bonisegna Maesta del Duomo di Siena 1308-1311

Durante la processione si andò «pregando Idio e la sua Madre, la quale  è nostra avochata, ci difenda per la sua infinita misericordia da ogni aversità e ogni male e ghuardici da mani di traditori e nimici di Siena»[7]. La pratica della pittura infamante si andò sviluppando parallelamente all’elaborazione giuridica  del concetto di infamia da parte dei glossatori e commentatori medievali.  Come ha ben evidenziato Francesco Migliorino: «La buona e la cattiva fama influiscono in modo determinante sulla capacità giuridica delle persone, sulla mobilità sociale, sui rapporti politici ed economici, sulla vita quotidiana e anonima della maggioranza degli uomini; servono a imprimere a ciascuno un marchio, sono esse stesse segno e testimonianza della mentalità, del modo di sentire, delle certezze e delle debolezze di una comunità»[8].
Questo nuovo strumento repressivo si diffonde entrando nella normativa e nella consuetudine di città e di corporazioni con un vasto raggio applicativo, colpendo delitti e individui di qualità molto varia infatti «l’applicazione della pena non incontrava alcuna limitazione circa il ceto di appartenenza del condannato ma colpiva con pari intensità gli appartenenti di qualsiasi classe  sociale; i nuovi governi per rafforzare il loro ruolo all’interno della società non esitarono a reprimere  pubblicamente coloro i quali avessero posto in essere azioni delittuose, pubbliche o private, che turbavano la stabilità del neonato assetto organizzativo e sociale»[9]. In quegli anni la pena reprimeva diverse tipologie di reati: il tradimento, la ribellione, l’omicidio politico nonché le aggressioni, la baratteria, la corruzione, la bancarotta, la contraffazione di documenti e il falso; reati commessi dalle più disparate classi sociali, non a caso – evidenzia Gherardo Ortalli: «la pittura d’infamia risulta applicabile a tutto e a tutti […]. Nessuna particolare categoria politica, ma pure nessuna classe, né strato sociale, né ceto, né “ordo” particolare ha il sopravvento e riesce a venire in primo piano»[10]. Nella pratica della pittura infamante troviamo spesso anche la descrizione dei supplizi che spettava ai colpevoli; quindi a partire dal Duecento, sulle mura dei più importanti Comuni italiani (ma non solo), troviamo immagini di persone impiccate, capovolte o finite al  rogo, supplizio quest’ultimo destinato per lo più agli eretici.

Filippino Lippi figura di appeso a testa in giù probabilmente da collegare agli infamati dipinti dal Botticelli dopo la congiura dei pazzi del 1478

L’aspetto interessante è che queste pratiche violente di giustizia comunale – destinate a sopravvivere fino al secolo XVI – finirono per influenzare anche la miniatura dell’epoca. È possibile infatti trovare numerose raffigurazioni riguardanti i supplizi tipici del mondo comunale anche all’interno di importanti manoscritti.

Lo strangolamento di William Tyndale, incisione in un’edizione del Libro dei martiri di John Foxe. I documenti negli archivi dei Comuni sono interessanti perché – permettendoci ancora oggi di  conoscere i nomi di alcuni artisti a cui venne commissionata la realizzazione di tali pitture – ci consentono di scoprire che spesso si trattava di malviventi e fuorilegge. A Bologna, ad esempio, nei primi anni del XIV secolo, la quasi metà delle pitture infamanti furono eseguite da pittori imputati di tentato omicidio o comunque non estranei alle aule di giustizia: «delle circa 112 figure di infamati […], almeno 59 uscirono dal pennello di pittori imputati di tentato omicidio»[11]. Uno dei tanti nomi – riportato da Ortalli – è quello del bolognese Gerardino Bernardi che, nel 1300 circa, armato di lancia e coltello tentò assieme  al figlio Giovanni, di entrare in casa di un certo Andrea al grido di “latro, necesse est quod te occidamus[12]. Le pitture infamanti erano, nel mondo comunale, opera esclusiva di fuorilegge, banditi e malviventi perché essi erano considerati alla stregua di un boia che dava esecuzione ad una sentenza di condanna o comunque ad una disposizione di valore giuridico, che contribuiva a determinare la perdita del buon nome  e della stima pubblica del pittore: «la perdita del buon nome e della stima pubblica doveva riflettersi persino su chi eseguiva materialmente la pena: il pittore che accettava l’incarico. In fondo faceva le funzioni del boia. Se pur non legava materialmente la corda al collo del condannato o non lo spingeva tra le fiamme, lo faceva in modo simbolico, e proprio l’attenzione dell’ambiente per l’allegoria e il simbolo, e insieme la capacità di coglierne i sottintesi e il messaggio – ciò che del resto era uno dei fondamenti essenziali per la pratica specifica – rendevano pericolosamente facile l’affermarsi dell’equazione pittore-boia. Per di più la funzione del carnefice era in quanto tale giudicata infamante, cosicché poteva accadere che, per garantirgli un alloggio, si dovesse far obbligo agli osti di accoglierlo nelle proprie case; spesso gli esecutori delle sentenze capitali erano scelti fra le persone di pessima reputazione – “ribaldi, manigoldi” – e a Firenze, in particolare, si faceva ricorso ad un fallito»[13]. I luoghi deputati ad ospitare le pitture infamanti erano, principalmente, le mura esterne o dei palazzi comunali o delle chiese, cioè l’esterno di quei luoghi di “esercizio dei  poteri” situati in  un luogo centrale all’interno delle città. La collocazione all’esterno di tali edifici ne consentiva la fruizione ad un numero assai vasto di persone e la certezza di raggiungere l’effetto infamante sperato. Proprio questa caratteristica è però una delle cause della scomparsa delle pitture infamanti, esposte senza protezione alcuna agli agenti atmosferici. Altri motivi alla base della loro distruzione furono: da una parte lo stretto collegamento delle pitture con eventi di cronaca giudiziaria e, come tali, strettamente legate alle contingenze politiche e punitive del momento; dall’altra la facile rimozione e sostituzione dovuta alla scarsa considerazione. La società dell’epoca, infatti, non riconosceva in tali pitture alcun valore artistico. Nonostante la scomparsa della quasi totalità delle pitture ne sono rimasti ad oggi vari esempi tra cui Milano, Mantova e a Brescia. La loro sopravvivenza dipende dal fatto che si tratta di affreschi collocati non all’esterno ma all’interno dei rispettivi palazzi comunali. In questo saggio ci occuperemo, seppur brevemente, del Broletto di Brescia; prima però è importante ricordare che nei secoli avvenire muta la qualità del pittore incaricato. Soprattutto tra XV e XVI secolo le pitture vennero commissionate infatti a giovani     pittori che grande importanza avrebbero rivestito nella storia dell’arte come, ad esempio, Andrea del Castagno, Sandro Botticelli, Andrea del Sarto e Filippino Lippi [14].

Note

[1] Sull’iconoclastia c’è una bibliografia sterminata, ricordiamo quindi le opere principali: E. Kitzinger, Il culto delle immagini: l’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’iconoclastia, Milano 2018; A. Calisi, Monachesimo ed Iconoclastia: la partecipazione dei monaci al concilio di Nicea II (787), Bari 2011; A. Besançon, L’ immagine proibita: una storia intellettuale dell’iconoclastia, a cura di Marco Rizzi, traduzione di Silvia Moroni, Genova – Milano 2009; M. Bettetini, Contro le immagini: le radici dell’iconoclastia, Roma 2007; V. Fazzo, I padri e la difesa delle icone, in Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. Quacquarelli, Roma, 1989 pp. 413-455; P. Conte, Il Concilio Niceno II tra Oriente e Occidente, in Icona e iconoclastia, “Giornate di studio in occasione del XII centenario del Concilio Niceno, Milano 1987, pp. 5-24; A. Grabar, L’iconoclasme byzantine: le dossier archeologique, Paris 1984.
[2] Gregorio Magno, Dottore della chiesa e Papa (590-604), indirizzò due epistole a Sereno, vescovo di Marsiglia, condannando la sua distruzione di immagini sacre per impedirne l’adorazione dei fedeli (Ep., XI, 209; Ep., XI, 10).
[3] Per approfondire: M.M. Donato, I signori, le immagini e la città: per lo studio dell’ “immagine monumentale” dei signori di Verona e di Padova, in Il Veneto nel Medioevo: le signorie trecentesche, Verona 1995, pp.380-454; G. Ortalli, La pittura infamante. Secoli XIII-XVI, Roma 2015.
[4] G. Ortalli, La pittura infamante, p.21.
[5] Ibidem.
[6] Su Duccio e sulla Maestà: M. Carlotti, Il cuore di Siena: la Maestà di Duccio di Buoninsegna, presentazione di Antonio Buoncristiani, prefazione di Mario Lorenzoni, Firenze 2011; C. Prezzolini (a cura di), La Passione del Signore       nei Vangeli e nella Maestà di Duccio, Montepulciano 2005; A. Bagnoli (a cura di), Duccio: alle origini della pittura senese, catalogo della Mostra tenuta a Siena nel 2003-2004, Cinisello Balsamo 2003; L. Bellosi –  G. Ragionieri, Duccio di Buoninsegna, «Artedossier», Firenze 2003; L. Bellosi, Duccio. La Maestà, Milano 1998; P. Torriti, Arte a Siena: da Duccio a Jacopo della Quercia, «Artedossier», Firenze 1987.
[7] A. Lisini, F. Iacometti (a cura di), Cronaca senese di autore anonimo del secolo XIV, in Cronache Senesi, Bologna,1939, p.90.
[8] F. Migliorino, Fama e infamia: problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, p.263.
[9] G. Ortalli, La pittura infamante, p. 167.
[10] Ivi, p. 127.
[11] Ivi, p. 83.
[12] F. Filippini – G. Zucchini, Miniatori e pittori a Bologna: documenti del secolo XV, Roma – Accademia nazionale dei Lincei 1968, p.76.
[13] G. Ortalli, La pittura infamante, pp.81-82. Cfr. con E. Guerra, Una eterna condanna: la figura del carnefice nella società tardomedievale, Milano 2003.
[14] Sandro Botticelli, nel 1478 venne pagato per aver dipinto le effigi dei partecipanti alla Congiura dei Pazzi: alcuni appesi per la gola e i latitanti appesi per un piede. L’opera di Botticelli non è sopravvissuta; rimangono, invece, alcuni  disegni preparatori di Andrea del Sarto preparati per l’affresco dei capitani impiccati, conservati a Firenze nella Galleria degli Uffizi.

Per contattare l’autore clicca qui !

CATEGORIE
CONDIVIDI SU
Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest
WhatsApp
Email
Stampa
My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.