La Terra Santa dei pellegrini nel XIII secolo

pellegriniLa Terra Santa dei pellegrini nel XIII secolo. Una rilettura di fonti intorno a dinamiche interreligiose e interconfessionali di Renata Salvarani
La definizione dell’identità nello scontro e in relazione dialettica con un’alterità è un tema che trova nel Mediterraneo basso medievale, intorno alla Terra Santa e al pellegrinaggio, una casistica di studio straordinariamente ricca e variegata, in grado di fare emergere implicazioni e problematiche. Resta aperta la questione del discrimine fra aspetti propriamente religiosi e aspetti politico culturali: è possibile circoscriverne le connotazioni? Come si interconnettono i diversi elementi che concorrono alla costruzione di sé da parte di un gruppo sociale? In quali tipi di situazioni emergono con più evidenza questi elementi? Se, in generale, le fasi di contrapposizione, così come i periodi di trasformazione profonda della società si presentano come terreni di emersione, il viaggio resta lo spazio, mutevole e condiviso, per la chiarificazione dello specifico identitario.
Sul piano metodologico, i testi e le fonti scritte che ne restituiscono l’esperienza e il contesto possono essere oggetto privilegiato di un’indagine finalizzata a fare emergere le percezioni di sé e dell’altro, all’interno di un quadro evenemenziale che diventa anche rete di relazioni e sistema di sensazioni, sentimenti e decodificazioni di realtà complesse da parte dei singoli. Prima di tutto un’analisi comparativa, in senso sincronico e in relazione con testi dei periodi precedenti, può restituire l’idea di Terra Santa che viene veicolata e, soprattutto, le sue mutazioni, frutto sia dei cambiamenti registrati nella fisicità dello spazio e nelle comunità che la abitavano, sia degli occhi di chi la guardava e delle rielaborazioni delle parole che l’hanno raccontata. Dalla lettura intratestuale affiorano le descrizioni e le percezioni dell’altro, la cui consistenza non si può cogliere se non tenendo conto della finalità dei testi stessi e delle motivazioni per cui si cerca di conoscere gli “infedeli” e di divulgare le informazioni. Così, le vicende biografiche degli autori, le circostanze del loro operato, le modalità di circolazione dei loro report, diventano parte integrante dello studio. Le forme del testo, collocate all’interno di tradizioni e circuiti di diffusione specifici, recepiscono, a loro volta, cambiamenti e trasformazioni, anche in relazione con i mutamenti indotti dagli eventi e con quelli evidenti sul piano delle percezioni.
La fine dei regni latini in Terra Santa e la caduta di San Giovanni d’Acri sono avvenimenti vissuti come dirompenti all’interno della Cristianità, una vera e propria cesura, rispetto alla quale possiamo delineare un cambiamento della visione di sé e dell’altro e, di conseguenza, una mutazione nell’atteggiamento e nei comportamenti. Limitando le considerazioni al piano dell’appartenenza religiosa cristiana e alla ricezione di una “alterità” eminentemente islamica, si pone l’esigenza di esaminare con quali modalità, all’interno di quali circuiti, in quali ambienti e grazie a quali singole personalità siano maturate queste trasformazioni.
Ci si chiede come si sia passati dall’enfasi sullo scontro, sulla volontà di sottomissione e di combattimento, al manifestarsi di volontà di interazione, assimilazione e conversione. In altre parole, si tratta di indagare come il rapporto fra crociata e missione sia passato anche attraverso la costruzione di un nuovo sé, culturale e religioso e confessionale insieme, in rapporto con un “altro” percepito in modo nuovo (1). Questo processo si è sviluppato intorno alla Terra Santa cristiana – luogo fisico e spaziale, fulcro memoriale e ideale, topos narrativo – e i pellegrini vi hanno svolto un ruolo cruciale, come testimoni e, insieme, attori essi stessi del cambiamento. I loro racconti non solo si fanno tramite di conoscenza di realtà nuove rispetto alle comunità di appartenenza, ma si intrecciano con altre elaborazioni – agiografiche, liturgiche, pastorali – generate all’interno della Cristianità latina.
Fra queste, l’esperienza dei francescani rappresenta per molti aspetti un elemento di rottura e di trasformazione della compagine ecclesiastica romana, la cui portata di innovazione si definisce proprio anche in relazione con le alterità, e con quella islamica in primis (2).
Snodi centrali sono la predicazione di Francesco durante le crociate, il riferimento alle due modalità di stare in mezzo agli infedeli dando testimonianza, nella Regula non bullata (poi nella versione ap- provata) e la narrazione dell’incontro con Malek al-Kamil. Quest’ultima, lungo il suo secolare sviluppo, ha polarizzato proiezioni di sé e riflessioni sul modo di porsi rispetto ai musulmani, fino a configurarsi come modello tanto efficace quanto duttile ed evanescente, proprio perché difficilmente ricostruibile nella sua concretezza effettuale (3). Quel momento resta come una sorta di antecedente ineludibile, una premessa non citata con cui i resoconti di viaggio riconducibili al contesto dei frati della corda sono chiamati a fare i conti.
Sullo sfondo di questi percorsi paralleli di elaborazione resta il tema critico ermeneutico centrale: il rapporto fra identità, religione e violenza, orizzonte difficile, sul quale si collocano le considerazioni che seguono, premesse aperte per ulteriori approfondimenti (4).
La maggior parte dei testi latini di pellegrinaggio del Duecento mette volutamente in evidenza tre aspetti principali: il valore memoriale della Terra Santa e dei Luoghi, presentati come parte irrinunciabile della Cristianità, in linea con la tradizione degli itinerari dei secoli precedenti; la consapevolezza della presenza di cristiani di riti e chiese diverse, accomunati da una fede percepita come unitaria e da devozioni simili; un attaccamento emozionale agli ipsissima loca che si esprime in forme di commozione contagiando, così, gli altri cristiani ed estendendosi anche ai musulmani.
Si profila, in altre parole, una comunanza su base emozionale, devozionale e memoriale, potenzialmente condivisibile oltre le singole identità, oltre le diversità, che pure non vengono negate, ma sottolineate come aspetto determinante dell’esperienza del viaggio.
In questo secolo cambiano le percezioni della Terra Santa.
Se, da una parte, i testi ricalcano lo schema geografico e descrittivo delle tappe di viaggio e delle singole devozioni, si diffonde, dall’altra, la consapevolezza che la realtà di Outremer è profondamente e irreversibilmente mutata: chi parte non cerca più la rassicurante presenza di ciò che è simile a sé nelle celebrazioni e nelle istituzioni di accoglienza, ma è costretto a fare i conti con un mosaico di alterità non sempre favorevoli, ma nemmeno necessariamente e uniformemente nemiche, che, per di più, interagiscono le une con le altre in modo nuovo e spesso incomprensibile.
Così, gli occhi degli occidentali si rivolgono non più solo ai luoghi, agli altari e alle pietre, ma soprattutto all’umanità dolente dei cristiani locali e al loro contraddittorio insieme di liturgie, gesti, lingue e situazioni in divenire.
I testi di pellegrinaggio che hanno avuto maggiore diffusione diventano così non solo lo specchio – ora ammirato ora lucidamente spaventato – di quel mondo, ma anche strumento di una nuova presa di coscienza.
Essi sono opera di grandi personalità che sono state testimoni dirette degli eventi che hanno posto drammaticamente fine all’esperienza crociata e sono spesso stati redatti da missionari, in funzione della predicazione e in vista di un approccio diverso rispetto all’Islam e all’Oriente, un approccio in grado di aprire orizzonti prima difficilmente immaginabili.
La stessa figura del pellegrino appare sfumare e sovrapporsi ad altri ruoli, altri atteggiamenti, altre modalità di viaggio.
Cambiano la prospettiva e la modalità del passagium: non siamo più di fronte a un fenomeno di larghe proporzioni, ma piuttosto a una trama di viaggi che raccordano mondi diversi, trasmettono notizie, dilatano gli spazi, attestano cambi di visione, spalancano le porte dell’Asia.
Fra gli autori che hanno avuto maggiore fortuna nel contesto latino, Burcardo del Monte Sion (5) riassume emblematicamente tutti gli elementi della spiritualità duecentesca e le componenti della coscienza cristiana latina, rispetto alla problematica poliedricità della Terra Santa, in questo passaggio:
Di tutti questi e singoli luoghi [a Gerusalemme e dove è più evidente la memoria evangelica] esiste ancora adesso un intero ed evidente ricordo (plena et manifesta memoria) come esisteva in quel tempo, quando avvenne nella realtà. Certamente in questa città tutti i luoghi sono insigni per i sacri atti della Passione del Signore; perciò in nessuna maniera può essere sufficiente un giorno per visitare ciascuno utilmente. Inoltre vi sono alcuni ricordi evangelici che aumentano maggiormente la devozione stando in quei luoghi.
Chi potrebbe sufficientemente narrare, quanti monaci e quante monache della Georgia, dell’Armenia Maggiore e Minore, della Caldea, Siria, Media, Persia, India, Etiopia, Nubia, Nabatea, di rito maronita, giacobita, nestoriano, greco, siriano e di altre nazioni, ora a gruppi di cento, di duecento, più o meno, percorrendo i singoli luoghi, li baciano con forte effusione, venerano i luoghi su cui sentirono che il Signore si sedette, stette o fece qualche azione? Ed essi, battendosi il petto, ora piangendo, ora gemendo, ora sospirando, mostrano esternamente con devoti gesti di corpo, ciò che senza dubbio sentono interiormente, ed eccitano molti al pianto (in lacrimas provocant), finanche i saraceni! (6).
Vengono sottolineati, dunque, il valore memoriale dei luoghi, la consapevolezza di essere al centro di una pluralità di Cristianesimi, la manifestazione emotiva e sentimentale della propria fede, la capacità della devozione di muovere gli altri, i diversi, verso un unico fulcro di fede.
Testi come questo sono parte dell’epoca che va dal viaggio di Francesco in Terra Santa alla formazione della Custodia, all’interno della quale il Duecento assume una propria specificità.
La battaglia di Hattin, la resa di Gerusalemme e il ritorno dei Luoghi Santi sotto il controllo islamico, l’espulsione dei latini e la fine delle loro istituzioni politiche e militari nella città avevano aperto – agli occhi degli occidentali – un periodo di piena incertezza, di oscurità, della quale non si percepiva la fine (7).
Anno MCLXXXVII, primo die maii, interfectus est magister Hospitalis, et quarto die intrante iulio fuit amissio sanctae crucis et dissipatio Francorum apud Saphoriam a Salahadino, et XI die iulii tradita est ei civitas Accon, et quarto die septembris tradita est ei Scalenia, et secundo die octobris tradita est ei civitas Ierusalem. Eadem die fuit eclipsis solis (8).
Così annotava l’estensore della “Cronaca di Terrasanta dal 1097 al 1202”, aggiunta al rituale del Santo Sepolcro nel codice di Barletta con una sorta di epitaffio per il Regno di Gerusalemme, in cui l’immagine dell’eclissi esprime tutto lo sconcerto per un futuro che ai latini poteva soltanto presentarsi buio, carico di minacce, di impotenza e di paura.
In un tale scenario il pellegrinaggio e l’idea stessa delle spedizioni in armi non possono che mutare. Se, da una parte, le iniziative militari dilatano il loro raggio e finiscono per eludere Gerusalemme seguendo considerazioni tattiche più ampie basate su una visione unitaria del Mediterraneo e dei percorsi commerciali che vi confluiscono, dall’altra i viaggi di fede mantengono come meta il Luogo della Resurrezione e gli altri spazi della storia della Salvezza, ma si allargano a una molteplicità di incontri e di situazioni che non possono essere confinati sul piano delle annotazioni folcloriche, ma si impongono come momenti di conoscenza di una realtà mutevole, imprevedibile, difficile da vivere e da capire.
Lo sguardo del pellegrino diventa allora un punto di vista privilegiato per conoscere eventi, mentalità, atteggiamenti, novità che meritano di essere riportati all’interno di una latinità che stenta a controllare le dinamiche politico militari in atto e che – talvolta – sembra rinunciare ad esercitarvi un ruolo attivo (9).
Così è per l’incombere dei tartari, una presenza nuova in un Vicino Oriente frantumato, plurale, dinamico, che sarebbe risultato ingannevole e fuorviante ridurre a una semplice contrapposizione tra Islam e Cristianesimo, declinati al singolare (10).
Altrettanto vale per l’assedio e la caduta di San Giovanni d’Acri, vissuti dai più come tragico epilogo della presenza cristiana in Terra Santa, ma anche come discrimine oltre il quale la ormai settantennale presenza dei francescani presso i Luoghi Santi avrebbe originato forme nuove di testimonianza, di continuità devozionale, liturgica e assistenziale (11).
Al contempo, l’espansione e la frammentarietà dei domini musulmani, nonché l’ingresso dei mamelucchi nelle dinamiche di potere dell’Anatolia e del Medioriente, rendevano ineludibile una conoscenza non più solo politica e militare dei cambiamenti in atto in quel contesto sociale e culturale.
Né le divisioni fra cristiani potevano essere liquidate ricorrendo tout-court alla chiave interpretativa della contrapposizione fra ortodossia ed eresie, a fronte di massacri, persecuzioni, testimonianze eroiche vissute insieme, e davanti a un unico destino di sofferenza e di miseria (12).
L’evidenza di un ecumenismo del sangue sperimentato giorno dopo giorno si impone, così, anche sulle pagine lasciate dai pellegrini, che danno conto – con una sequenza di accenni legati più ai singoli luoghi che a una logica unitaria – di condizioni di violenza e insicurezza, di massacri recenti, di eccidi più lontani ma rimasti indelebili nella memoria dei superstiti, che sono lì e aspettano di raccontare perché altri sappiano e, a loro volta, ricordino e preghino.
Né traspaiono intenti celebrativi o apologetici nei confronti dei latini e della loro presenza; anzi, loro stessi si presentano come destinatari di predicazione e dell’esigenza di conversione, senza contraddizione nei confronti dell’intento di annunciare il Vangelo ai musulmani, bensì all’interno di un’unica visione missionaria. Nemmeno le ambiguità e i limiti del pellegrinaggio come pratica penitenziale vengono taciute.
Burcardo scrive:
Vi sono abitanti di ogni nazione che stanno sotto il cielo e ognuno vive secondo il suo rito e, per dire la verità, i Latini sono i peggiori di tutti gli altri abitanti. E, a quanto mi sembra, questa è la ragione: quando qualcuno è diventato malfattore, come per esempio: omicida, ladro, furfante, adultero, emigra come per fare penitenza; perché teme per la sua pelle, e perciò teme di stare nella sua terra, e così vanno da diverse parti del mondo […]; ma veramente cambiano il cielo ma non l’animo. Stando là, dopo che hanno speso quello che portarono, cominciano a cercare cose nuove, e così di nuovo ritornano al vomito, commettendo le cose peggiori della gente peggiore. Ricevono come ospiti i pellegrini della loro nazione. I quali non sanno guardarsene, credono a loro e perdono i beni e l’onore. Costoro là generano figli imitatori dei delitti paterni, e da genitori cattivi nascono figli peggiori, e da questi nipoti pessimi, calpestando i Luoghi Santi con viziosi piedi. Perciò ne consegue che per i peccati degli abitanti della stessa terra i luoghi della santificazione vengono disprezzati da Dio (13).
Su un piano diverso – ma non separabile – il Duecento è il secolo in cui Francesco e i francescani si fanno agenti di una spiritualità e di una mentalità nuova che, nei testi di pellegrinaggio, risulta – infine – essersi radicata in profondità ed emergere proprio nel confronto-scontro con identità diverse e contrapposte.
Questo percorso si sviluppa proprio anche nel rapporto dialettico tra un’ortodossia romana e gli “altri”, siano essi eretici, scismatici o infedeli. Solo per ricordare alcuni passaggi, al 1210 risalirebbe l’approvazione verbale della prima regola da parte di papa Innocenzo III (vivae vocis oraculo et sine bulla) che – come è noto – prevedeva che i frati che vanno in mezzo a loro si comportassero spiritualmente in due modi: che non facessero liti o dispute, ma stessero soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio manifestando di essere cristiani. La seconda modalità è quella dell’annuncio con la finalità della conversione, perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani (poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio) (14).
Nel 1217, il 14 maggio, fu celebrato il primo Capitolo generale, che stabilì la prima istituzione delle province e dei ministri provinciali, con l’elezione di frate Elia come primo ministro della Terra Santa e dell’Oriente. Il contesto generale appariva tutt’altro che favorevole e la percezione dei pericoli doveva essere netta ed emotivamente coinvolgente.
Nel settembre dell’anno successivo Corradino, Melek el-Moad- dem, sultano di Damasco, lasciando l’assedio di Cesarea per spostarsi a Damiata a dar man forte al fratello Malek al-Kamil, passò per Gerusalemme per abbatterne le difese e renderla inutilizzabile per un potenziale ritorno dei latini; fra gli edifici imponenti furono risparmiati solo la Torre di Davide, la moschea di Omar e il Santo Sepolcro.
Nel 1220, dopo la caduta di Damiata in mano crociata, lo stesso Corradino tornò verso Oriente e distrusse Cesarea e poco dopo anche Safed. Nel frattempo ebbe grande diffusione la notizia che frate Berardo e i suoi compagni erano stati martirizzati in Marocco, dove erano impegnati a predicare il Vangelo (15).
Quasi contemporaneamente si collocherebbe il viaggio di san Francesco in Terra Santa e in Siria, su cui tanto è stato scritto e dibattuto (16). Indipendentemente dall’esito del dibattito storiografico, rispetto al nostro tema sono rilevanti l’eco emotiva ed agiografica della narrazione di quell’episodio e il fatto che frati della corda erano già presenti sia a Gerusalemme che a Costantinopoli e in altre città della Siria e dell’Asia Minore (17).
Alla fine dello stesso anno frate Luca di Puglia venne posto alla guida della provincia di Oriente e di Terra Santa, succedendo a frate Elia che, dopo il 1232 – una volta divenuto ministro generale – invierà numerosi missionari in Georgia, a Damasco, Costantinopoli, Aleppo, Bagdad e nel resto d’Oriente (18).
I testi di pellegrinaggio, compartecipi dello stesso milieu segnato da questi eventi, tendono a mettere in evidenza la vicinanza fisica, quasi per identificazione, con i cristiani locali.
Lo si riscontra nel Liber peregrinationis di Ricoldo di Montecroce, domenicano, inviato da Onorio IV in Armenia e nella Terra di Israele per riconciliare a Roma le Chiese locali, costretto a ripartire per l’Italia quando si trovava a Bagdad, alla notizia della caduta di San Giovanni d’Acri, evento che rischiava di precludergli per sempre la rotta del ritorno (19). Dimostra come l’impronta della spiritualità francescana sia ben presente nella sensibilità dell’epoca.
In questo passo, in particolare, è evidente l’interiorizzazione della lezione di Greccio: il pellegrinaggio si fa immedesimazione nella vita e nella carne di Gesù, che qui è, nella sua fisicità, la carne dei cristiani poveri e perseguitati. Descrivendo la tappa a Betlemme, scrive:
Dove partorì la Madonna vi è un altare. In quel luogo predicammo, celebrammo e comunicammo il popolo. Dopo la celebrazione della Messa trovammo al Presepio un bellissimo bambino, figlio di una povera donna cristiana che abitava presso la chiesa. Noi, lieti, adorammo in lui il Cristo-nato e, simili ai magi, gli facemmo dei regali e lo restituimmo alla madre (20).
A partire da queste premesse, legate alla sensibilità del tempo e alle trasformazioni in atto all’interno della Cristianità latina, si pone – quindi – l’esigenza di delineare il tema dell’identità, dell’autoconsapevolezza dell’identità, percezione delle identità altrui, percezione e valutazione delle differenze proprio attraverso le immagini riflesse nei testi di pellegrinaggio.
Un dato che appare chiaro è la coscienza dell’irreversibilità degli eventi e delle sconfitte militari latine.
Intorno al 1229 un Continuatore anonimo di Guglielmo di Tiro scriveva:
Quando i cristiani possedevano la Terra Santa, i Santi Luoghi, di cui abbiamo parlato, avevano grandi chiese, oratori e cappelle belle e ricche, grandi abbazie e grandi case di religiosi, belle, ricche, ben ornate e ben provviste di monaci neri, dell’Ordine dei Premonstratensi, dell’Ordine dei Certosini, dell’Ordine di Sant’Agostino e di altri ordini di clausura e di eremiti, e di altre categorie di persone che vivevano religiosamente. Ma quando i Saraceni presero la Terra ai cristiani […], abbatterono, distrussero e gettarono tutto a terra, eccetto la sola chiesa del S. Sepolcro e non so quante altre. Non la lasciarono intatta mica per amore che essi avessero verso i cristiani, ma per le grandi tasse, per i grandi compensi e per le grandi offerte che i cristiani donavano loro per poter fare le peregrinazioni. Dunque non abbatterono quella chiesa per causa delle grandi rendite ch’essi ricevevano ciascun giorno. Ma quando i papi e i patriarchi si accorsero di questa venalità, fecero scomunicare dovunque tutti quegli uomini e quelle donne che dessero ricompense, mance e paghe ad essi durante le peregrinazioni. Perciò i Saraceni non ricevettero tante entrate come avrebbero voluto (21).
Se ne deduce l’essenzialità dei pellegrini, elemento di sopravvivenza della stessa Terra Santa cristiana e testimoni delle condizioni dei cristiani locali.
La consapevolezza della riduzione dei credenti nel Vangelo a minoranza vessata è metabolizzata nel racconto dei miracoli, una sorta di “fioretti” che dimostrano la superiorità del vero Dio rispetto all’iniquità dei musulmani oppressori, destinati infine a soccombere, anche se i cristiani sono e restano inermi.
A proposito della sorgente al Cairo dove la Vergine avrebbe lavato Gesù durante la fuga in Egitto, viene riportato:
I Saraceni portano molto rispetto a quella sorgente. E molto volentieri vengono a lavarsi a quella sorgente. Gli alberi che portano il vero balsamo vengono lavati con l’acqua di quella sorgente. A quel tempo nel castello del Cairo una palma portava datteri. Un giorno la Madonna Santa Maria stava sotto quella pianta e desiderava avere di quei datteri. Ma l’albero era troppo alto per cui ella non ne poteva avere. L’albero si chinò ai suoi piedi. E la gloriosa Madonna prese di quel frutto, e poi l’albero si eresse dritto, e lo videro tutti i Saraceni e i pagani che stavano là. I Saraceni quindi tagliarono quell’albero, e il giorno seguente lo trovarono raddrizzato in alto e tutto intero, e non appariva né taglio né segno. Poi in seguito essi portarono a quell’albero molto rispetto (22).
Allo stesso modo vengono assorbiti in questa sorta di agiografia locale episodi di iconoclastia e di razzia a danno degli edifici memoriali cristiani.
Burcardo del Monte Sion racconta un episodio rimasto nella memoria devozionale a Betlemme:
I Saraceni onorano tutte le chiese della Beata Vergine Maria, ma specialmente questa. Io vidi in codesta chiesa un miracolo straordinario. Un sultano, avendo visto l’ornamento in quella chiesa, le lastre e le colonne tutte molto preziose, comandò di toglierle tutte e di portarle a Babilonia, dove voleva costruire il suo palazzo. Cosa mirabile! Mentre si avvicinavano gli operai con gli strumenti, presente il sultano con molti altri, da una parte sana e integra, da cui non si vedeva pene- trare nemmeno la punta di un ago, uscì un serpente di straordinaria grandezza, e morse la prima lastra che incontrò. La lastra si spezzò di traverso. Si avvicinò alla seconda, alla terza e alla quarta fino alla trentesima e così accadde a tutte le lastre. Tutti restarono stupiti e lo stesso sultano subito revocò il suo proposito; e il serpente disparve. La chiesa dunque rimase e rimane ancor oggi come prima; però le tracce del serpente appaiono fino a oggi sulle singole lastre che attraversò come se fosse fatta una bruciatura col fuoco. E sopra ogni lastra sembra straordinario vedere come quel serpente poté procedere di traverso sulla parete che era piana e pulitissima come il vetro (23).
Filippo Busserio, francescano, nato a Savona nel 1260, fu inviato da Bonifacio VIII al sultano del Cairo; Clemente V gli affidò l’incarico di riappacificare il Regno di Cipro con l’Armenia. Il suo Libro delle pellegrinazioni si colloca fra il 1285 e il 1291. Per lo più raccoglie notizie già diffuse, ma è indicativo della situazione, delle sensibilità e delle informazioni che circolavano fra i viaggiatori nell’ultima fase della presenza crociata. All’interno della descrizione di Gerusalemme, scrive:
Presso l’edicola del Sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo si trova una colonna con l’immagine del martire san Pantaleone cui è legato, si dice, il seguente miracolo: “Accadde nel passato che un saraceno molto cattivo entrò nella chiesa del Santo Sepolcro e guardando dappertutto vide la predetta immagine sulla colonna; mentre egli ne deturpava gli occhi dell’immagine fino a toglierli, immediatamente caddero per terra i suoi propri occhi” (24).
Questa decantazione agiografica e oleografica non esclude rilievi molto lucidi sulle situazioni politiche e militari in atto, né constatazioni drammatiche sulle condizioni vissute dai cristiani locali e dagli stessi pellegrini. Queste ultime assumono un rilievo particolare poiché gli autori rivestono ruoli diplomatici e si rivelano ottimi conoscitori del contesto politico generale.
Ancora Burcardo riesce ad unire la descrizione topografica di Gerusalemme, che ricalca sostanzialmente la sequenza dei luoghi degli itinerari dei secoli precedenti, con annotazioni molto chiare sulla precarietà e l’insicurezza dei suoi abitanti.
Tramandando considerazioni sull’autenticità del Golgota, oggi dentro le mura e al tempo di Gesù fuori, aggiunge:
Per dire la verità [la città] è stata ingrandita in larghezza e non in lunghezza, e tutta la città antica resta, col Monte Sion, dentro le mura, ed è abitata, ma in questi tempi gli abitanti sono pochi rispetto alla sua ampiezza perché la gente ha continuamente paura (25).
Filippo Busserio è più cauto e inserisce un doppio piano di comunicazione: lo sguardo dell’osservatore, che vede, capisce e tiene per sé le informazioni, e quello del testo destinato ad altri pellegrini, che vanno tutelati, anche precludendo l’accesso ai luoghi che i musulmani vietano loro. Scrive:
Presso il Tempio del Signore si trova il Tempio di Salomone; in quello spazio ci furono due templi. Nessun cristiano osa entrare, per paura dei Saraceni e perciò di questi luoghi non dico nient’altro (26).
In generale, nei testi duecenteschi, sono molto dettagliati i rilievi sulla presenza di cristiani delle diverse chiese e confessioni nei vari luoghi visitati, puntualmente annotati.
Burcardo si spinge a trarne una conclusione ampia, ipotizzando un rapporto numerico fra popolazione cristiana e musulmani, forse orientato a sollecitare un maggiore coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche nelle missioni verso Oriente:
[…] tutto l’oriente d’Oltremare fino all’India e all’Etiopia riconosce e predica il nome di Cristo, ad eccezione dei soli saraceni e di alcuni turcomanni che risiedono nella Cappadocia; di modo che io per certo ritengo secondo ciò che vidi da me stesso, e sentii da altri che sapevano, che sempre in ogni luogo e regno, ad eccezione dell’Egitto e dell’Arabia […] si trova un saraceno e trenta o più cristiani (27).
Di seguito metteva in evidenza la differenza fra i latini e gli altri cristiani nel loro rapporto con i dominatori:
È vero però che i cristiani sono tutti orientali di nazioni trans marine, i quali, sebbene siano cristiani, non usano molto maneggiare le armi quando vengono assaliti dai saraceni, tartari o da qualsiasi altro; si sottomettono a costoro e pagano la pace e la tranquillità con le tasse; e i saraceni o altri dominatori pongono in quelle terre i loro governatori ed esattori (28).
Con maggiore partecipazione emotiva vengono rilevate e riportate le diversità fra cristiani. Tuttavia i testi che citano o descrivono le varie chiese non mancano di rimarcare l’appartenenza a una fede comune e l’assoggettamento a un medesimo destino. Il carattere plurale della Cristianità di Terra Santa, manifesto fin dalle sue origini, si era mantenuto anche durante e all’interno del Regno latino di Gerusalemme, divenendo poi il terreno per l’intervento diretto dei governatori musulmani, nei secoli successivi, secondo la logica politica del divide et impera, favorisci gli uni e penalizza gli altri, per mantenere una polverizzazione dei vari gruppi locali, nessuno in grado di modificare il contesto generale, né di allearsi effettivamente con soggetti esterni.
La presenza di gruppi diversi di cristiani è rimarcata più volte nelle fonti latine, prima e dopo il 1187. Già Teodorico, nel suo itinera- rio, scritto intorno al 1175, affermava:
Ante ostium vero ipsius chori altare non mediocre habentur, quod ad Surianorum tantummodo spectat officium. Denique, peractis a Latinis quotidie divinis officiis, Suriani vel ibidem ante chorum sive in aliqua ecclesiae abside divinos decantare solent hymnos, qui etiam plura in ipsa ecclesia habent altariola nullorumque nisi suis usibus apta vel concessa. Hae sunt professiones sive sectae, quae in ecclesia hiero- solymitana divina peragunt officia, scilicet Latini, Suriani, Armenii, Graeci, Jacobini, Nubiani. Hi omnes tam in conversatione quam in divinis officis suas quisque habent differentias. Jacobini in suis festis Hebraeorum more tubis utuntur (29).
Jacques de Vitry, vescovo di Acri dal 1216, testimonia una vera e propria diaspora dei cristiani di Gerusalemme dopo il 1187. Ad Acri non si sarebbero rifugiati solo i latini, ma anche altri gruppi, che avrebbero trovato fra loro forme di solidarietà e di vicinanza. Alla fine del 1217 scrisse una lettera a Liutgardo dell’abbazia benedettina di Saint Trond, in cui racconta il suo arrivo nella città fortezza:
Erant ibi Jacobites cum episcopo suo, qui more iudeorum parvulos circumcidebant et nulli preter Domino peccata sua in confessione ape- riebant. Alii vero ex ipsis non circumcidebantur et sacerdoti peccata sua confitebantur. Sed uno digito tam isti quam illi signum crucis fa- cientes se signabant (30).
Qui non indica nominativamente i gruppi, ma nella Historia orientalis dimostra di conoscerne denominazioni e caratteristiche:
Sunt praeterea in Terra Sancta et in aliis partibus Orientalibus aliae barbarae nationes, a Graecis et Latinis in multis dissidentes, quorum alios Jacobitas appellant, a quodam magistro suo dicto Jacobo, cuiusdam Alexandrini Patriarchae discipulo. Hi a multis iam temporibus a Costantinopolitano Patriarcha Dioscoro excommunicati et ab Ecclesia Graecorum sequestrati, maiorem partem Asiae et totius tractus Orientalis inhabitant: quidem inter Sarracenos, alii autem proprias absque infidelium consortio occupaverunt scilicet Nubiam, quae contermina est Aegypto et magnam Aethiopiae partem et omnes regiones usque in Indiam plus quam quadraginta regna, ut asserunt, continentes. Omnes autem sunt christiani, a beato Mattheo Apostolo et aliis Apostolicis viris ad Christi fidem converse (31).
Anche rispetto a queste annotazioni, una novità che emerge nei testi di viaggio duecenteschi è l’attenzione riservata alle diversità di credo e di comportamenti dei musulmani, che vengono indagate mettendo in luce sia gli aspetti culturali che quelli propriamente teologici. Al di là delle annotazioni coloristiche, gli autori di testi destinati alla diffusione in ambito latino manifestano senza ambiguità le loro intenzioni missionarie e, proprio per questo, hanno bisogno di conoscere l’humus religioso e teologico delle persone cui rivolgeranno la loro predicazione.
Così è per Ricoldo di Montecroce che arriva a Bagdad, conquistata dai tartari e ormai lontana dai fasti della capitale che era stata, proprio perchè lì ancora hanno sede le più importanti scuole coraniche, tuttora in grado di influenzare il pensiero islamico in tutta la umma (32). La città gli appare semideserta, ma scrive:
Là i saraceni hanno i più alti studi e grandi maestri e vi sono dei loro religiosi e vi stanno radunate diverse loro sette […]. Noi quindi, desiderando sopprimere l’eresia di Maometto, con l’intenzione di attaccarli nella loro sede e luogo di studio generale, fu necessario parlare un poco con essi. Questi ci ricevettero nelle loro scuole, negli studi, nei monasteri, nelle loro chiese o sinagoghe, e nelle loro case come angeli di Dio e cercammo di capire diligentemente la loro legge e le loro opere, e ci mostrammo meravigliati come essi potevano in una religione così eretica trovare delle opere di tanta perfezione (33).
Proprio il pellegrinaggio è l’esperienza comune ai fedeli dei tre monoteismi, che più mette in luce la consapevolezza che le tre rispettive tradizioni originano e si perpetuano nei medesimi luoghi e sulla base di una narrazione fondativa comune.
Ne sono emblema non solo Gerusalemme, oggetto nei decenni centrali del secolo di volontà di accordo così come di devastazioni quanto mai drammatiche, ma anche Hebron, sito ineludibile per la presenza delle tombe dei patriarchi.
Così Burcardo annotava:
A un tiro d’arco da questa città [Kiriatarba], verso sud, vi sta la Nuova Ebron, edificata sul luogo dove vi era la doppia spelonca, in cui furono sepolti Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia. I Saraceni fabbricarono attorno alla doppia spelonca una fortezza molto solida, in cui vi fu la chiesa cattedrale, e nelle sue mura vidi delle pietre lunghe 26, 28 e 30 piedi e non vidi in un luogo secco e piano un luogo così solido. In codesto luogo visitai il sepolcro dei patriarchi e restai dentro una notte (34).
Ai nostri occhi appare rilevante che poco più sotto aggiunga: «A un tiro d’arco verso sud vi è il luogo dove Caino uccise suo fratello Abele» (35). In generale, i testi duecenteschi marcano una novità di approccio rispetto agli altri cristiani e agli islamici, contribuendo a far percepire l’apertura di una fase nuova per la presenza dei latini in Terra Santa. Rispetto ai cristiani, Burcardo, impegnato a cercare in patria sostegni per le comunità dislocate in Oriente, scrive:
Spaventa molti quando si dice che nelle regioni trans marine abitano i Nestoriani, i Giacobiti, i Maroniti, i Georgiani, ed altri, i quali presero codesti loro nomi da alcuni eretici che la Chiesa condanna, e perché costoro si credono essere eretici e seguire i loro errori. Ciò non è affatto vero; che Dio ce ne liberi! Essi sono uomini semplici e si conservano devoti. Però non nego che alcuni di essi siano stolti, giacché nemmeno la Chiesa Romana è priva di stolti (36).
Ricoldo di Montecroce, invece, fornisce il resoconto di più esperienze dirette e racconta con devota ammirazione l’accoglienza ricevuta dai monaci giacobiti del monastero di san Matteo Apostolo, che aveva voluto incontrare per condurli all’unità della fede della sede di Roma. Ancora una volta un elemento di comunanza è individuato nella persecuzione, trasposta in chiave aneddotica:
Essi però non ci ricevettero come uomini ma come angeli. Ci raccontarono dei miracoli che in quel luogo fecero i loro padri e monaci. E ci mostrarono un miracolo di sicura attendibilità […]. Infatti una volta accadde che i curdi […] radunarono un esercito e assediarono il monastero e siccome non potevano prevalere perché il monastero è inespugnabile, adiratisi, salirono sul grande monte che sovrasta il monastero e fecero precipitare per il monte un grandissimo masso che con retto percorso finisse sopra il monastero per distruggerlo e uccidere i monaci. Il suddetto masso con impetuoso corso si precipitò contro l’alto e forte muro del monastero, ma non fece nessun danno: si incastrò nella parete rendendola, così, più forte. I ferocissimi curdi, vedendo questo miracolo, si ritirarono e non osarono ritornare più (37).
Tuttavia è rispetto agli islamici che si rileva un’attenzione non riscontrabile nei testi di pellegrinaggio di datazione più alta. Il fine di questo vero e proprio studio basato sulla conoscenza diretta e sulla diffusione di analisi e riscontri è la loro conversione, con uno sposta- mento evidente di piano: da quello politico militare a quello teologico, morale e culturale.
L’ampia disamina di Ricoldo di Montecroce sulla “legge dei saraceni” contenuta nel Liber peregrinationis ne è un esempio di larga diffusione successiva.
Articolata come una sequenza di constatazioni, non si presenta come una trattazione teologica, ma piuttosto come il frutto di incontri e osservazioni di comportamenti maturati durante i viaggi e la permanenza a Bagdad.
Così, si considerano l’attaccamento dei musulmani per lo studio del Corano e per la preghiera, l’elemosina e la misericordia verso i poveri, il rispetto per il nome di Dio.
Scrive:
È tanto grande la loro cura per la preghiera e tanto fervida la loro devozione che rimasi stupefatto per quello che vidi personalmente ed esperimentai. Infatti io durante tre mesi e mezzo continuamente andavo e restavo con i cammellieri saraceni nel deserto dell’Arabia e della Persia, e mai, per nessuna situazione critica, i cammellieri arabi tralasciarono di pregare a ore stabilite, tanto di giorno che di notte, e specialmente la mattina e la sera. Vi mettono nella preghiera tanta devozione, da abbandonare totalmente ogni altra cosa, e alcuni di loro cambiano subito il loro abituale colore della faccia in pallore, e sembrano di essere rapiti (in estasi). Alcuni di loro cadono (svenuti), altri saltano, variano la voce e spingono all’infuori la testa in maniera che alcuni di loro sembrano rapiti (in estasi) e altri invasati (dal diavolo) (38).
Le annotazioni che riguardano la misericordia e l’elemosina tracciano, sullo sfondo, il dramma dei prigionieri e degli schiavi, vittime degli interminabili scontri fra cristiani e musulmani, frontiera umana di sofferenza fra mondi violenti in movimento, parte di un sistema che le pratiche religiose non scardinano, limitandosi a creare periodiche eccezioni simboliche. Scrive:
Riguardo alla misericordia verso i poveri bisogna sapere che i Saraceni sono i più grandi elemosinieri. Essi hanno nel Corano un severo comandamento di dare le decime. E della preda che prendono colle armi, debbono dare la quinta parte. Oltre a questo fanno dei grandi testamenti e li depositano in una banca, e a tempo stabilito li aprono e li consegnano a un Saraceno degno di fede, il quale va in diverse province per redimere i diversi detenuti e gli schiavi saraceni che vengono custoditi prigionieri dai Cristiani e da altri popoli. Frequentemente comprano degli schiavi cristiani che sono detenuti prigionieri dai medesimi Saraceni e li conducono al cimitero e dicono: “Libero tanti (prigionieri) per l’anima di mio padre e tanti (altri) per l’anima di mia madre”; e consegnano loro degli attestati di libertà e li lasciano (liberi). Per i poveri che non possono redimere lo schiavo, gli stessi Saraceni portano per la città gli uccelli in gabbie e gridano: “Chi vuol comprare questi uccelli e lasciarli liberi per l’anima del proprio padre?”. I poveri li comprano e li lasciano liberi perché l’anima del loro padre non resti prigioniera (39).
Vengono rilevati la serietà dei comportamenti e del portamento, l’affabilità verso gli estranei, la concordia tra loro.
Di seguito, sempre sulla base di constatazioni dirette, altrettanto dettagliatamente si spiega come la legge dei saraceni sia giudicata larga, confusa, nascosta, falsa e bugiarda, irragionevole, violenta (e fu introdotta con la violenza):
Perciò da loro è certissimo che la legge durerà fino a quando sarà vittoriosa la loro spada – scrive –. Infatti essi ogni venerdì all’ora nona si riuniscono per la preghiera e per l’esposizione della legge. Ma il predicatore, prima di incominciare, estrae una spada e la espone in luogo elevato, in modo che sia da tutti vista, a indicare che con la spada ha cominciato quella legge e con la spada dovrà finire (40).
La disamina non ha intenti denigratori, né tantomeno vuole indurre a un allontanamento: si presenta, piuttosto come il tentativo di razionalizzare le percezioni condivise dell’“altro” e di individuare gli elementi di debolezza del suo sistema di valori, considerandoli punti di inizio di altrettanti percorsi di confronto e di conversione.
Tant’è che quando dilunga su aspetti apprezzabili della devozione e dei comportamenti dei musulmani lo fa non per «lodare i Saraceni, ma a confusione dei Cristiani, che non vogliono fare per la loro legge della vita ciò che i dannati fanno per la legge della morte» (41).
In altre parole, questo testo, e non solo per la sua ricchezza argomentativa, va oltre il genere delle disputationes: è testimonianza raccolta in loco, diario di viaggio che diventa diario di incontro e poi si trasforma in resoconto, dopo il ritorno, rivolto a un contesto preoccupato per l’oscurità che vede addensarsi al suo orizzonte orientale e meridionale. Proprio a quei destinatari è rivolto l’appello ad evitare forme di chiusura e a sostenere, invece, slanci missionari basati soltanto sulla forza della logica, della teologia e dell’annuncio del Vangelo. Tant’è che si conclude con una profezia dello stesso Maometto, utilizzata come conferma dell’implicita debolezza del mondo islamico e come conferma della fallacia della sua legge:
“Dopo di me sarete divisi in 73 sette, ossia divisioni, di cui una sola si salverà, tutto il resto sarà destinato al fuoco”. Ne consegue che essendo essi divisi in molte sette, ciascuna dice di se stessa: “Io sono quella che si salverà” (42).
Il Liber peregrinationis si presenta come preludio di nuove missioni e come strumento per la formazione dei missionari, diffuso all’interno del circuito dei Predicatori. Tuttavia, a differenza di altre opere di Ricoldo caratterizzate in senso teologico e polemico, porta all’interno del mondo latino e ai suoi circuiti più colti la freschezza, la vivacità – talvolta l’ammirazione incredula e sbalordita – di incontri autentici e apre lo spazio per una distinzione fra il piano dei testi sacri, delle teologie affermate, e quello delle religiosità vissute all’interno delle esperienze dei singoli, dinamiche, mutevoli e suscettibili di trasformazioni, che possono maturare proprio sul terreno degli scambi e del confronto.
Viaggio, scoperta e missione – dunque – si intrecciano e si sovrappongono. Il testo che li rispecchia, grazie alla sua tradizione e alla sua circolazione relativamente ampia, li connota come elemento centrale all’interno di una questione molto più ampia, di un confronto generale e ineludibile fra due mondi che si fronteggiano da secoli e che hanno maturato la consapevolezza della propria identità proprio anche nello scontro. La Terra Santa dei pellegrini si definisce, così, nel XIII secolo, come spazio umano e culturale, come frontiera della Cristianità in cui le identità si percepiscono con nitore per contrasto le une rispetto alle altre, come culla di testimonianze destinate ad essere diffuse e condivise.
I testi dei francescani del Trecento raccoglieranno questi elementi in una prospettiva più consapevole, in un contesto diverso in cui la Terra Santa assumerà il ruolo di porta verso l’Oriente. Le parole di Odorico da Pordenone e Niccolò da Poggibonsi, fra gli altri, faranno percepire l’orizzonte dilatato delle profondità dell’Asia, verso le quali i pellegrini duecenteschi si sono soltanto incamminati (43).

Note
*) Il presente contributo è stato pronunciato in occasione del XIII Convegno di Greccio: Lauda Sion. I Francescani in Terra Santa nel XIII secolo (Greccio, 8-9 maggio 2015).
1) B. Z. Kedar, Crusade and Mission. European approaches toward the Muslims, New York 1984; idem, Croisade et jihad vu par l’ennemi: une étude des perceptions mutuelles des motivations, in Franks, Muslims and oriental Christians in the Latin Levant: studies in frontier acculturation, ed. B. Z. Kedar, Burlington 2006, 345-355. In questa prospettiva si veda anche S. Menache, When Jesus met Mohammed in the Holy Land: attitudes toward the “other” in the Crusader Kingdom, in Medieval encounters. Jewish, Christian and Muslim culture in confluence and dialogue, Leiden 1995, 15 (2009) 66-85 (http://booksandjournals.brillonline.com/content/journals/15700674). Sullo stesso tema, da un punto di vista differente, J. Waterson, Sacred swords: Jihad in the Holy Land 1097-1291, London 2010.
2) Fra le ricognizioni recenti sul tema generale E. Andricciola, Milites Christi e fideles crucis: i francescani nel confronto con saraceni e tartari, 1245-1310, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2010.
3) Si veda la linea di ricerca tracciata da John Tolan: J. Tolan, St. Francis and the Sultan: the Curious History of a Christian-Muslim Encounter, Oxford 2009; idem, Le saint chez le sultan: la rencontre de François d’Assise et de l’islam: huit siècles d’interpretation, Paris 2007; idem, Saracens: Islam in the Medieval European imagina- tion, New York 2002; idem, Medieval Christian Perceptions of Islam, New York 2000.
4) Per un confronto sul tema, si vedano Belief and Bloodshed. Religion and Violence across Time and Tradition, ed. J. K. Wellman, Lanham 2007; Violence et religion, edd. P. Cazier, J. M. Delmaire, Villeneuve d’Ascq 1998.
5) I. Baumgartner, Burchard of Mount Sion and the Holy Land, in Peregrinations. Journal of Medieval Art and Architecture 4/1 (2013) 5-41. (http://peregrinations.kenyon.edu/vol4_1/BaumgartnerPeregrinations41.pdf).
6) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in S. de Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV. Tempore Regni Latini Extremo (1245-1291), Jerusalem 1984, 119-219: 122-125.
7) Per le prospettive di ricerca aperte intorno all’evento si veda The Horns of Hattin. Proceedings of the 2nd Conference of the Society for the Study of the Crusades and the Latin East (Jerusalem and Haifa, 2-6 July 1987), ed. B. Kedar, Jerusalem 1992.
8) C. Kohler, Un rituel et un bréviaire du Saint Sépulchre de Jérusalem (XIIe-XIIIe siècle), in Revue de l’Orient Latin 8 (1900-1901) 383-500: 401.
9) Sulle trasformazioni delle pratiche devozionali legate al pellegrinaggio si veda F. Romanini – B. Saletti, I Pélrinages communes, i Pardoun de Acre e la crisi del regno crociato. Storia e testi, Padova 2012.
10) Sul contesto generale, si veda la silloge The spiritual expansion of medieval latin christendom: the Asian missions, ed. J. D. Ryan, Farnham 2013. Sulla percezione dei tartari e i contatti avviati nel Duecento, C. W. connell, Western views of the tartars, 1240-1340, New Brunswick 1969 (http://search.proquest.com/dissertations/docview/302461615/135B03B3DD0567A7113/853?accountid=14632); P. Jackson, Franciscans as papal and royal envoys to the Tartars (1245-1255), in The Cambridge companion to Francis of Assisi, ed. M. Robson, Cambridge 2012, 224-239; S. Menache, Tartars, Jews, Saracens and the Jewish-Mongol ‘Plot’ of 1241, in J. Muldoon, Travellers, intellectuals and the world beyond Medieval Europe, Aldershot 2010, 247-270.
11) Sulle implicazioni dell’evento, The fall of Acre 1291, ed. R. B. C. Huygens, Turnhout 2004.
12) Per l’analisi di un caso di studio, D. Jacoby, Refugees from Acre in Famagusta around 1300, in The Harbour of all this Sea and Realm. Crusader to Venetian Famagusta, edd. M. J. K. Walsh, T. Kiss, N. Coureas, Budapest 2014, 53-67.
13) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 210-211.
14) Le modalità della presenza dei francescani fra i musulmani e gli altri non cristiani sono al cap. XVI (“De euntibus inter saracenos et alios infideles”), Fontes franciscani, a cura di E. Menestò, S. Brufani, G. Cremascoli, E. Paoli, L. Pellegrini, Stanislao da Campagnola, Assisi 1995, 183-212: 198-200. Per il confronto con il testo della Regula bullata, G. M. Vigna, Synopsis regularum sancti Francisci assisiensis, Assisi 1997, 45- 49. Per una lettura nel contesto, H. de Roeck, De normis regulae O.F.M. circa missione inter infideles ex vita primaeva franciscana profluentis, Roma 1961; A. Quaglia, Storiografia della regola francescana nel secolo XIII, Falconara Marittima 1980.
15) Dai protomartiri francescani a sant’Antonio da Padova. Atti della Giornata internazionale di studi (Terni, 11 giugno 2010), a cura di L. Bertazzo, G. Cassio, Padova 2011; in particolare si veda L. Bertazzo, I protomartiri francescani fra storia e agiografia, 31-47.
16) Per una sintesi delle posizioni: G. Basetti Sani, San Francesco è incorso nella scomunica? Una bolla di Onorio III ed il supposto pellegrinaggio del Santo a Gerusalemme, in Archivum Franciscanum Historicum 65 (1972) 3-19; G. Golubovich, Biblioteca bio-bibliografica della Terrasanta e dell’Oriente francescano, I. (1215-1300), Firenze 1906, 85-104: 96-97.
17) Ibidem.
18) Per una ricognizione, N. S. Johnson, Franciscan passions: Missions to the Muslims, desire for martyrdom and institutional identity in the later Middle Ages, The University of Chicago, Chicago 2010.
19) Per una sintesi sull’autore del testo, J. Richard, Riccoldo of Montecroce (c. 1243- 1320), in Encyclopedia of the Middle Ages, II, edd. A. Vauchez, R. B. Dobson, M. Lapidge, Chicago 2000, 1236. Fra gli studi più recenti, R. G. Tvrtković, A Christian pilgrim in medieval Iraq: Riccoldo da Montecroce’s encounter with Islam, Turnhout 2012; M. Costigliolo, Riccoldo da Montecroce e Nicola da Cusa: l’identità cristiana di fronte all’Islam, in A caccia dell’infinito. L’umano e la ricerca del divino nell’opera di Nicola Cusano, ed. C. Catà, Roma 2010, 339-348.
20) Ricoldo di Montecroce, Libro del pellegrinaggio, in de Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 255-332: 268-269.
21) CONTINUATORE ANONIMO DI GUGLIELMO DI TIRO, La santa città di Gerusalemme, i santi luoghi e le pellegrinazioni nella Terra Santa (manoscritto di Rothelin), in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 25-59: 52-53.
22) Ibidem 50-51.
23) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 196-199.
24) Fra’ Filippo Busserio, Il Libro delle pellegrinazioni, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 221-254: 226-227.
25) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 176-177.
26) Fra’ Filippo Busserio, Il libro delle pellegrinazioni, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 234-235.
27) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 214-215.
28) Ibidem.
29) Theoderici libellus de lociis sanctis editus circa A.D. 1172, ed. T. Tobler, Paris 1865, 20; Theodoricus, De locis sanctis, in S. De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum (saecc. XII-XIII), II. Tempore regum Francorum (1100-1187), Jerusalem 1978, 326-327.
30) R. Röhricht, Briefe des Jacobus de Vitriaco, in Zeitschrift für Kirchengeschichte 14 (1894) 109.
31) Jacobus de Vitriaco, Historia orientalis, ed. J. Bongras, Hanau 2003, 1091. Per l’analisi di singoli aspetti del testo, J. Donnadieu, La représentation de l’islam dans l’“Historia orientalis”. Jacques de Vitry historien, in Le Moyen Âge 114 (2008) 487-508; (http://www.cairn.info/publications-de-Donnadieu-Jean–37669.htm); idem, L’historia orientalis de Jacques de Vitry: Tradition manuscrite et histoire du texte, in Sacris erudiri 45 (2006) 379-456; M. Tamminen, Saracens, Schismatics and Heretics in Jacques de Vitry’s Historia Orientalis. Criticism, Messages and the Use of Sources, in Changing minds. Communication and influence in the High and Later Middle Ages, edd. C. Krotzi, M. Tamminen, Roma 2013, 127-150.
32) Alcune note sul contesto in K. Mallette, The Metropolis and Its Languages: Baghdad and Venice, in Cosmopolitanism and the Middle Ages, ed. J. M. Ganim, New York 2013, 21-38.
33) Ricoldo di Montecroce, Libro del pellegrinaggio, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 255-332: 308-309.
34) Burcardo del Monte Sion, Descriptio Terrae Sanctae, in De Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 200-201.
35) Ibidem.
36) Ibidem 214-215.
37) Ricoldo di Montecroce, Libro del pellegrinaggio, in de Sandoli, Itinera hierosolymitana crucesignatorum, IV, 296-297.
38) Ibidem 310-311.
39) Ibidem 312-313.
40) Ibidem 326-327.
41) Ibidem 318-319.
42) Ibidem 330-331.
43) Per una sintesi biobibliografica e documentaria, A. TILATTI, Odorico da Pordenone, in Dizionario biografico degli italiani 79, Roma 2013. Si veda anche A. ANDREOSE, La strada, la Cina, il cielo. Studi sulla Relatio di Odorico da Pordenone e sulla sua fortuna romanza, Soveria Mannelli 2012. Fra le indagini più recenti su Niccolò da Poggibonsi, R. ANGELINI, Il meraviglioso nel “Libro d’Oltramare” di Niccolò da Poggibonsi e l’epstolario di Giovanni dalle Celle: due idee del pellegrinaggio a confronto, in Monaci e pellegrini nell’Europa medievale: viaggi, sperimentazioni, conflitti e forme di mediazione, ed. F. Salvestrini, Firenze 2014, 73-84. Per gli sviluppi degli studi si veda L’arte di Francesco. Capolavori d’arte italiana e terre d’Asia dal XII al XV secolo. Catalogo della mostra, edd. A. Tartuferi, F. D’Arelli, Firenze 2015.

renata_salvaraniRenata Salvarani
Renata Salvarani si dedica alla ricerca, alla didattica e alla divulgazione della Storia del Cristianesimo e della Storia Medievale. È laureata in Lettere Moderne all’Università di Padova (con indirizzo in storia dell’arte medievale) e dottore di ricerca in Storia medievale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. All’Università Europea di Roma è professore di Storia del Cristianesimo (MSTO/07) e Storia Medievale (MSTO/01). È membro segretario del Consiglio del Dottorato in “Storia della civiltà europea. Radici, cultura, identità”. Coordina il Corso di Alta Formazione per Guide Turistiche  e il Corso di Alta Formazione in Gestione e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici. Visita il sito personale di Renata Salvarani.
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