La tomba segreta di Matteo il grande di Valeriana Maspero
Matteo Visconti, detto il grande, morì nella canonica di Santa Maria Rossa in Crescenzago sul Naviglio della Martesana il 24 giugno del 1322. Era in viaggio verso Chiaravalle: voleva ritirarsi dalla politica seguendo l’esempio del suo prozio e mentore Ottone, il vescovo che aveva portato al potere i Visconti a Milano. Ma la sua malattia si era improvvisamente aggravata dopo la visita al santuario di Monza e aveva dovuto fermarsi presso i monaci agostiniani che allora gestivano quel convento.
Matteo non era messo molto bene. Su di lui pendevano una condanna per eresia, tre scomuniche di papa Giovanni XXII e una crociata militare guidata dal vicario pontificio in Italia Bertrando del Poggetto.
Il processo si era tenuto a Valenza nel precedente mese di marzo: gli inquisitori pontifici – il Poggetto, il vescovo di Milano fuori sede Aicardo Antimiani e i frati Barnaba di Milano, Pasio da Vedano e Onesto da Pavia – lo avevano accusato di ventitré delitti contro la chiesa, tra cui l’avere imposto indebitamente tasse al clero milanese, l’avere esercitato illecitamente giurisdizione sui beni ecclesiastici del territorio lombardo, avere protetto l’eretica Maifreda Pirovano sua pronipote, e poi di praticare la magia nera e lo spiritismo, di non credere alla risurrezione dei corpi, di avere fatto un incantesimo di morte contro il papa.
Al termine del processo, la sentenza di scomunica a Matteo, ai suoi figli e ai suoi nipoti, li rimandava per l’esecuzione al braccio secolare, promettendo la remissione dei peccati a chiunque avesse preso le armi contro di loro.
In realtà l’accusa di eresia si basava sull’effettiva passione sempre mostrata dai Visconti per l’astrologia, sulla loro frequentazione della setta di Guglielma – la sua erede, Maifreda Pirovano, era stata bruciata nel 1300 in piazza Vetra – e sulla presunta fattura di morte fatta con una statuetta argentea del papa richiesta da Matteo e Galeazzo al necromante fiorentino Dante Alighieri, il quale effettivamente in quegli anni si trovava a Verona ospite del comune amico Cangrande della Scala e la cui fama di evocatore di morti era probabilmente dovuta alla notevole diffusione della prima cantica della sua Comedìa, quella che oggi chiamiamo Inferno. Matteo era stato condannato in contumacia perché, essendo malato, non si era presentato al processo. Il braccio secolare venne costituito da Enrico di Fiandra e Raimondo di Cardona, con i quali nel mese successivo Bertrando del Poggetto aveva bandito la crociata militare alzando in Asti il gonfalone delle chiavi di San Pietro. Ed erano tre mesi che i Visconti si dibattevano in questa incresciosa situazione.
Per ribadire la sua innocenza e la fede nella chiesa romana, negli ultimi giorni prima di partire da Milano, Matteo aveva solennemente recitato il Credo niceno in Santa Tecla alla presenza del clero cittadino e poi aveva ripetuto la professione anche in San Giovanni a Monza – città in cui aveva riscattato la corona ferrea da un pegno dei Torriani ridonandola alla sua sede. Intanto aveva intavolato trattative riservate per trattare la pace col Poggetto e più volte aveva richiesto la revoca della scomunica ad Avignone, ma senza alcun esito.
Infine, stanco e malato, a settantaquattro anni aveva deciso di lasciare il comando al suo primogenito Galeazzo, che forse avrebbe avuto maggiore fortuna nelle trattative.
Alla canonica di Crescenzago Matteo, aggravatosi improvvisamente, morì. Galeazzo e i suoi fratelli, intimoriti, decisero di tenere nascosta la sua morte per prendere tempo ed elaborare una strategia difensiva. Ordinarono ai monaci di continuare a portargli cibi e bevande e ai medici di visitarlo e fingere di fornirgli cure e farmaci. Alla fine furono costretti a divulgare la notizia della sua morte.
Il funerale solenne venne officiato a Chiaravalle, ma la sua sepoltura fu tenuta segreta. La famiglia aveva paura che i guelfi o i crociati disseppellissero la salma per bruciarla sul rogo, come avevano già fatto nell’anno 1300 con il cadavere dell’eretica Guglielma, esumato dalla sua tomba che si trovava nella stessa abbazia.
Il segreto della sepoltura di Matteo dura ancora oggi. Alcuni indizi storici porterebbero a ipotizzarla non a Chiaravalle dove fu celebrato il rito funebre, ma a Milano, nella basilica di Sant’Eustorgio. Questa chiesa infatti fu particolarmente cara al vescovo Ottone Visconti – che tra l’altro vi celebrò il trionfo di Desio – e a Matteo, che in essa aveva voluto edificare la cappella funeraria di famiglia in cui seppellì la moglie Bonacosa Borri, morta l’anno precedente.
Era usanza medievale inumare i morti eccellenti nelle mura degli edifici consacrati. Probabilmente le ossa di Matteo Visconti riposano proprio dietro il suo busto marmoreo incastonato nel muro esterno della cappella di famiglia, quasi a proteggerla e a segnalarsi alla sua città.
E non sarebbe molto difficile verificarlo.
Laureata in storia e filosofia, ex docente, pubblicista, autrice di testi scolastici, ha scritto testi di storia e narrativa. Fa parte di associazioni culturali e tiene incontri e conferenze per promuovere la conoscenza della storia della corona ferrea e del periodo medievale in Lombardia. Tra le pubblicazioni: Percorsi visivi, corso di educazione artistica, Ghisetti&Corvi, Milano, 2001, Homo, corso di storia, Immedia, Milano, 2004, La corona ferrea, storia del più celebre simbolo del potere in Europa, Vittone, Monza, 2004/2008, Il gioco della corona ferrea, Immedia, Milano, 2005, Bonincontro e il Chronicon modoetiense, EiP, 2010, Geostoria della civiltà lombarda, Mursia, Milano, 2013, Il ghibellino di Modoezia, Libraccioeditore, Milano 2014, Memorie di una millenaria, Libraccioeditore, Milano, 2016.
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