L’alimentazione medievale in Friuli Venezia Giulia di Ylenia Lepore
(Questo articolo è la tesi di laurea in Scienze e Tecniche del Turismo Culturale sostenuta nel 2015 all’Università degli Studi di Udine. N.d.R.)
Eccolo il 2015! È l’anno dove gli eventi, le manifestazioni e i dibattiti sull’alimentazione e la nutrizione fanno da padroni. È l’anno dell’EXPO a Milano, nella nostra Italia, nella patria dove la cultura crea, assieme a tutte le altre, un arcobaleno di tradizioni. Il 2015 è l’anno dell’Esposizione Universale che tratta il tema della nutrizione del pianeta e dell’energia per la vita. Ma cosa significa esattamente nutrire? Perché il cibo è un elemento così fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo e dell’ambiente in cui vive? Tutti i Paesi del mondo hanno le proprie radici, la propria memoria, che risale a centinaia se non migliaia di anni fa. La storia del cibo è una storia affascinante, perché come quella del pensiero, è ricca di scoperte ed imprese anonime, ma non per questo meno importanti e meno appassionanti: è sufficiente pensare all’introduzione del pomodoro e della patata in Europa, per capire come piccole scoperte abbiano più di una volta salvato il mondo dalla fame.
In quest’ottica ogni minimo cambiamento nella storia alimentare appare come un’enorme passo avanti per l’uomo nel suo millenario cammino per elevarsi dalla condizione di bruto. L’alimentazione è sempre stata studiata da tanti diversi punti di vista quasi fosse composta da tantissimi tasselli che compongono assieme un unico meraviglioso puzzle. Essa dimostra come l’atto più fisiologico e materiale dell’uomo è anche un momento saturo di cultura e simbolismo.
L’aspetto più emozionante dello studio dell’alimentazione consiste, del resto, nel fatto che in essa sono riconducibili rapporti sociali ed economici, forme di pensiero e gerarchie di valori, che spesso sono evidenti solo in essa e per mezzo di essa. Vista come un sistema intricato, l’alimentazione, riflette allora una distribuzione degli uomini, dei rapporti sociali e degli alimenti, in quelle categorie che possiedono un valore cosmologico e sociologico.
Una moda, se così si può interpretare, che si è diffusa negli ultimi anni, sia in Italia che in Europa, è quella dell’analisi della cucina “storica”, dell’alimentazione antica. Soprattutto è molto seguita la “cucina medievale” e lo storico non può non chiedersi se tutto questo ha un senso e se è possibile ricostruire il gusto alimentare di un’epoca così vicina, che ci circonda ovunque con le sue tracce, eppure così lontana nei riferimenti di base.
Questo elaborato analizzerà in particolare l’alimentazione medievale di una zona dell’Italia, una regione che è stata posta al confine tra le tre principali realtà etnico – linguistiche del continente europeo: latina, slava e germanica, che qui hanno dialogato e si sono armonizzate, ma che si sono anche scontrate, creando nei secoli molteplici diversità. Questo meltin-pot di culture è il Friuli Venezia Giulia.
Cultura alimentare nel Medioevo: parte generale
In una società come quella medievale, in cui effettivamente l’alimentazione costituisce un problema non indifferente, sia a livello psicologico che reale, la prima valenza che si può addebitare al cibo è la “valenza linguistica”. Nulla di complicato, una caratteristica semplice ed immediata, essa rappresenta la capacità di procurarsi, possedere e consumare del cibo. Dunque, ci si riferisce ad un valore puramente sociale ed economico.
La conoscenza dell’alimentazione tipica medievale ha goduto in tempi recenti di una rivalutazione, legata all’acquisizione, da parte di storici ed etnologi, dell’alimentazione come sistema culturale coerente, che con i suoi codici specifici e la sua gerarchia di “valori alimentari” rispecchia, almeno in certa misura, la gerarchia dei gruppi sociali e le sfere di produzione e di scambio. “Il potens mangia di più e meglio; il pauper mangia di meno e peggio” (1). L’alimentazione è la prima occasione per gli strati dominanti della società di manifestare la loro superiorità.
Nel periodo di transizione fra Antichità e Medioevo si tengono testa in Europa due differenti culture alimentari: quella mediterranea, basata sul triangolo grano – olio – vino, integrata dai latticini e dal formaggio (ovino) e quella delle popolazioni celtiche e germaniche, basata su caccia, allevamento brado (maiali), ortaggi e birra. (2)
All’interno di queste due sfere si interpongono delle modifiche nel corso del tempo: mentre l’Antichità aveva privilegiato il pesce di mare, tipica del Medioevo è la predilezione per il pesce d’acqua dolce; parallelamente di verifica un declino nella coltura del frumento, sostituita da quella dei cereali meno pregiati ma più facilmente coltivabili e di maggiore resa.
Questi due modelli inevitabilmente si incontrano e gradualmente si integrano dando vita ad una formula produttiva ed alimentare mista. Questa integrazione fra culture alimentari diverse riguarda inizialmente soprattutto le élite sociali, sia laiche che ecclesiastiche, mentre negli strati inferiori si continuerà per un periodo più prolungato a far affidamento ai comportamenti alimentari legati alla tradizione.
L’alimentazione medievale, almeno per gli strati più poveri della popolazione, pur essendo nel complesso sostanzialmente varia, non era sontuosa. La base alimentare era costituita dal pane, immagine quotidiana del miracolo eucaristico, particolarmente visto con forte simbolismo, che si ritrovava ad ogni passo nei testi del tempo. Non a caso, infatti, la produzione agricola era incentrata sui cereali di ogni tipo, i cosiddetti “grani”. Il cereale più nobile era il frumento, non utilizzato molto tra le classi inferiori del nord, ma apprezzato in maniera maggiore nelle regioni meridionali. Quello più diffuso era invece la segale, resistente ad ogni temperatura e facile da coltivare ad ogni latitudine. Altri prodotti erano l’orzo, l’avena ed il luppolo. Già in questo segmento di vita quotidiana si può notare una divisione nelle gerarchie della società del tempo: i contadini e i lavoratori si alimentavano di pane scuro, qualche volta era consumato sottoforma di una ricca zuppa, mentre nell’altro versante, quello nobile ed ecclesiastico, il pane bianco era il protagonista sulle tavole imbandite a festa. I cereali servivano anche per la preparazione di altri piatti molto importanti: gallette o crostini, zuppe come detto precedentemente, farinate, focacce e pizze, nonché ciambelle e biscotti.
Ma la regina incontrastata di questo castello di alimenti è sicuramente la carne. Gli animali nell’alimentazione, soprattutto altomedievale, hanno un ruolo di importanza essenziale. Mentre dell’Italia centrale e meridionale prevaleva l’allevamento ovino, nell’area padana il maiale aveva una posizione centrale; quest’ultimo, leggermente diverso dal maiale conosciuto oggi giorno, era frutto di un incrocio con i cinghiali e conobbe proporzioni quanto mai ampie, essi fornivano i grassi animali utilizzati appunto nelle regioni padane e dell’Europa continentale: il lardo e lo strutto. Una funzione considerevole avevano anche gli animali di bassa corte: galline, anatre ed oche. Il montone, animale preso poco in considerazione, era visto come cibo per poveri.
Decisamente marginale è il ruolo che svolgono i bovini e gli equini. Rare e preziose, le mucche, venivano impiegate come forza–lavoro nei trasporti e nell’agricoltura, soltanto alla fine del ciclo lavorativo venivano macellate a scopo alimentare. Stessa sorte quella dei cavalli che assicuravano, inoltre, le cavalcature militari.
Altro tassello prezioso per l’interpretazione di un’alimentazione così varia sono i proventi della caccia, fondamentale nello stile di vita delle élite, ma davano sostentamento anche alle classi inferiori. Connotata primariamente a scopo ludico, la caccia era un aspetto anche economico. La selvaggina era ritenuta res nullius (5), quindi tutti potevano procurarsela e cibarsi di essa. La preda più ambita sicuramente era il cervo, seguivano capriolo e il cinghiale, camosci e stambecchi venivano cacciati nelle zone alpine.
Il pesce, in particolare quello di acqua dolce, per i noti motivi religiosi, ma anche economici – il prezzo di questo animale era assai inferiore rispetto alle carni – erano uno dei cibi più diffusi.
Di grande spessore erano le tecniche di conservazioni di carne e pesce: la salagione era l’attività più praticata, seguivano l’insaccamento, l’essicazione e l’affumicatura. La cottura in periodo medievale prevedeva essenzialmente l’uso diretto del fuoco con fiamma viva attraverso degli ampi pentoloni: zuppe e stufati erano quindi i piatti più comuni.
Passando alla parte vegetale di questa alimentazione, così semplice ma allo stesso tempo ricca di sapore, interessante è il ruolo che ricoprono erbe e spezie, frutta e verdura. Ampiamente utilizzate nella preparazione dei pasti le spezie, spesso esotiche e di importazione, arricchivano le tavole dei benestanti. La più diffusa era il pepe mentre la più esclusiva e con un costo elevatissimo era lo zafferano. Chi non poteva permettersi dei condimenti così elitari poteva benissimo ripiegare sulle erbe aromatiche come il basilico, la menta, il prezzemolo, aglio e cipolla.
Nutrimento di tutti, indistintamente ricchi o poveri, erano le leguminose e diffusissimi erano gli ortaggi come la cicoria e il cavolo, le rape e le carote. Anche la frutta la si assaporava fresca, essiccata o conservata sottoforma di confetture.
Ovviamente accompagnato a tutto ciò non potevano non mancare le bevande, quella più prestigiosa e salutare era considerata, nell’area mediterranea, il vino. Nell’area celtico – germanica dell’Europa la birra deteneva il primato ed era consumata ogni giorno senza distinzioni di classi.
Questa è soltanto una breve descrizione generale sull’alimentazione medievale in una zona vastissima quale l’Europa continentale e mediterranea, ma le variabili regionali sono numerosissime e naturalmente quelle del Friuli Venezia Giulia non possono non essere prese in considerazione. Si passa ora ad un’analisi più approfondita e ricca di dettagli su questa meravigliosa regione posizionata nel nord-est dell’Italia.
Storia della gastronomia friulana medievale
Cenni Storici
La storia della gastronomia friulana inizia dai Celti, popolazione che si stanziò nelle nostre terre attorno al IV secolo a.C., introdussero la coltivazione dell’avena e della segala. Purtroppo le testimonianze giunte fino a noi non sono sufficienti per poter ricreare in modo corretto quello che poteva essere lo stile alimentare di questi popoli. Soltanto recentemente, grazie agli studi e alle scoperte archeologiche fatte in regione è stato possibile portare alla luce dati molto significativi e utili.
Proseguendo su di una linea del tempo immaginaria, nel 186 a.C. la calata, in territorio regionale di un gruppo di 12.000 Galli, fu uno dei motivi che spinse i romani a procedere alla colonizzazione di questo angolo orientale della così detta Cisalpina. I romani fondarono Aquileia, bonificarono le terre circostanti ed introdussero i vigneti e gli alberi da frutto. Famose al tempo furono le mele mattiane esportate in tutto l’impero. Durante la dominazione romana si coltivava anche frumento, l’avena, il miglio, l’orzo, il farro, le fave, le lenticchie e si produceva olio d’oliva. I romani stanziati in questa splendida regione insegnarono molto alle popolazioni locali. A loro si deve la conservazione e la macerazione, il gusto dell’agrodolce e degli abbinamenti “audaci”. (8)
Si arriva ora al fulcro più significativo in questa analisi storica, riguardante il medioevo friulano, al fine di comprendere al meglio i cambiamenti, le abitudini e i comportamenti dal punto di vista alimentare e della produzione.
- Le prime invasioni barbariche (Visigoti-Unni-Ostrogoti)
La riorganizzazione dell’impero operata da Diocleziano e da Costantino dovette subire notevoli sconquassamenti dovuti alla costante pressione delle popolazioni barbariche che portarono con loro morte e un diverso tipo di cultura.
Nel 401 d.C. le avanguardie dei Visigoti sconfissero l’esercito romano presentandosi sotto le mura di Aquileia espugnandola. Nel 452 d.C. il Friuli venne tragicamente sconvolto dall’arrivo degli Unni guidati dal noto condottiero di nome Attila; questi distrussero tutto quello che trovarono sulla loro strada, bruciarono ville e case, dilaniarono il bestiame, distrussero vigneti, alberi, campi, strade, canali e ponti, insomma tutto quello che in 600 anni di duro lavoro e sacrificio avevano plasmato e trasformato questa cultura e la visione della vita.
Nel 489 d.C. il Friuli venne scosso da un altro evento, la calata di Teodorico e dei suoi Ostrogoti. Durante il loro regno fu riorganizzata l’amministrazione civile e furono riattivati vari servizi pubblici. Tutto sommato, tralasciando le gravi carestie che hanno sempre afflitto il territorio friulano, la dominazione gotica normalizzò la situazione della regione.
- Lo Scisma dei Tre Capitoli
Nel 556 d.C. ebbe luogo il così detto “Scisma dei Tre Capitoli”, vale a dire, di tre esponenti della scuola teologica d’Antioca da parte del concilio di Costantinopoli. Il vescovo metropolita d’Aquileia si ribellò alle imposizioni dell’imperatore e si sottrasse all’obbedienza del Papa. Da allora il vescovo venne riconosciuto con il titolo di Patriarca.
- I Longobardi
Nel 568 d.C. i Longobardi, popolazione di ceppo germanico, entrarono in Italia dai limes del Friuli e nell’arco di un anno crearono uno stato-federale con capitale Pavia. L’occupazione del territorio non incontrò alcuna difficoltà, nacque così il Ducato longobardo del Friuli il cui centro di potere divenne Cividale. Militarmente il territorio si organizzava attorno ai castrum,vale a dire fortezze situate nei punti più strategici di un territorio, le principali della regione erano: Ragogna, Osoppo, Invillino, Gemona, Artegna, Nimis, Cormons e probabilmente Farra d’Isonzo.
È durante questa dominazione che si iniziò ad intravedere un nuovo genere di società che basava il suo sostentamento su un diverso modo di produrre, è l’inizio del sistema curtense. Cambiamenti sostanziali avvennero anche all’interno del sistema giuridico.
È proprio in questo periodo che inizia la penetrazione benedettina in Friuli, questo è un evento molto importante, infatti, il monachesimo svolse una funzione sociale, culturale ed economica assai notevole. Si hanno notizie di quattro monasteri, due maschili a Sesto al Reghena e Cervignano e due femminili a Salt di Povoletto e a Cividale
- I Franchi
Il cambio di rotta della Chiesa di Roma nei confronti dei Longobardi, iniziata durante il pontificato di Papa Gregorio III provocò l’entrata in scena dei Franchi nelle vicende politiche italiane. Questa popolazione portò il loro modello organizzativo carolingio, basato sulla divisione del territorio in province, ma soprattutto su quel rapporto politico- economico-sociale che prende il nome di feudalesimo. In un periodo come quello alto- medioevale caratterizzato da una grande instabilità politica la figura del Patriarca Paolino d’Aquileia, assunse un ruolo di primaria importanza nella storia della nostra regione. Molto amico di Carlo Magno godette di numerosi benefici che si rispecchiarono nella società civile del tempo, ebbe così inizio il potere temporale dei Patriarchi aquileiesi.
- Gli Ungari
Nel 899 d.C. vi fu la prima devastante discesa degli Ungari in regione, questa popolazione stanziata in Dacia e nella Pannonia era considerata il flagello dell’Europa visto che ovunque passassero lasciavano dietro di loro una scia di devastazione, bruciando abitazioni e massacrando la popolazione. Sino al 955, quando Ottone il Grande li sconfisse definitivamente, questo ferocissimo gruppo d’uomini giunse in Friuli non meno di dieci volte. I danni riportati al territorio friulano furono di portata enorme; arresto dell’attività commerciale, danneggiamenti e distruzione delle vie di comunicazione e di numerosi centri abitati, campi abbandonati e contrade spopolate. Questi sanguinari combattenti vennero fronteggiati dai Patriarchi che vinsero sorprendentemente e in un momento successivo favorirono lo sviluppo di castelli a difesi del territorio.
Cividale nel frattempo divenne la vera capitale del Friuli, qui vi si insediarono i Patriarchi, fu città moderna e culturalmente aperta.
- Il Patriarcato di Aquileia
Nel 1076 scoppiò la così detta “Lotta per le investiture”. In questo frangente l’Imperatore premiò la fedeltà del suo vassallo, il Patriarca d’Aquileia Sigeado, innanzitutto destituendo il Conte Lodovico, ed emettendo il 3 aprile 1077 un diploma con il quale concedeva al Patriarca l’investitura feudale del “Comitato del Friuli”. Nacque così il Principato patriarcale di Aquileia, il quale si presentava come uno stato autonomo a tutti gli effetti.
Il territorio dello Stato patriarchino comprendeva i maggiori centri urbani del tempo erano Cividale, Gemona del Friuli, Sacile e Tolmezzo. Lo stato friulano venne governato dai patriarchi dal 1077 al 1251 e furono tutti quanti tedeschi. Il Friuli in questo periodo ridivenne terra di transito e di contatto tra l’Occidente e l’Oriente. Sorsero alberghi, ospizi e con la circolazione delle persone seguì un ovvio aumento della circolazione della moneta migliorando così il tenore di vita nei maggiori centri urbani del Principato. Tutto ciò sarebbe stato molto più vantaggioso se non veniva ostacolato da una catena di dazi, gabelle, ecc… Pesante era anche la sosta obbligata per i commercianti a Gemona del Friuli dovendo depositare per una notte le loro merci all’interno della cittadina. Questa tassa, chiamato diritto del Niderlech causava un forte aumento dei prezzi delle merci.
Il Friuli nonostante tutto riuscì a mantenere la sua autonomia in un periodo davvero difficile. Dopo varie vicissitudini arrivarono al potere i Patriarchi guelfi e da questo momento in poi la regione entrò definitivamente a far parte dell’area culturale italiana e Udine divenne la vera “capitale” dello Stato. All’interno di questo panorama e di varie tensioni e odi tra diverse fazioni, si crearono due coalizioni; Venezia che aspirava ad annettersi il Friuli per avere il controllo dei valichi orientali ed al lato opposto il Re d’Ungheria che voleva annettersi il Friuli per avere l’accesso al mare. Nessuna delle due coalizioni ebbe successo, ma con l’aiuto dei conti di Savorgnan, Venezia riprese gli attacchi contro lo Stato friulano e il culmine arrivo quando nel 1419 Cividale capitolò e con lei nel giungo del 1420 si arrese anche Udine. Entro settembre, i veneziani, occuparono, senza grandi difficoltà, il Cadore e la Carnia. Questo susseguirsi di eventi a sfavore dello Stato friulano segnarono definitivamente la fine dello Stato Patriarcale d’Aquileia.
L’alimentazione e produzione nel medioevo friulano
La gastronomia friulana nasce dalla povertà, in un regno chiamato cucina, costituita da un pavimento in terra battuta o mattoni, focolare al centro della stanza, paioli, panche attorno al fuoco, pentoloni di terra cotta, sedie impagliate e secchi in rame o legno. Un luogo oramai mutato e che in passato, caldo e confortevole, si presentava essenziale nell’arredo. (9)
Dal punto di vista alimentare e di produzione il passaggio dall’antichità e il medioevo può essere preso in considerazione come un processo di trasformazione culturale legato all’incontro di due diverse civiltà, quella romana e quella barbarica; il contatto tra questi due modi diversi di interpretare la vita, portò ad un processo d’acculturazione che formò un modello “misto”, per così dire, che divenne il cardine dell’alimentazione e della quotidianità del Friuli Venezia Giulia.
La civiltà greco-romana, come è stato già specificato in precedenza, attribuiva alla cerealicoltura e all’arboricoltura (vite-olivo) un ruolo di fondamentale importanza per la loro sussistenza; a queste produzioni si aggiungeva una magra pastorizia soprattutto ovina ed uno scarso utilizzo della carne, almeno per quanto riguarda i ceti meno abbienti.
Le popolazioni germaniche basavano il loro sostentamento su un’economia di tipo silvo-pastorale caratterizzata dallo sfruttamento degli spazi naturali, mediante la caccia, la pesca, lo raccolta dei frutti e l’allevamento brado del bestiame. Nel paesaggio del primo Medioevo friulano, in particolare, boschi, pascoli e paludi, erano ampiamente presenti in uno scenario degradato e tornato in gran parte allo stato selvatico.
L’età medievale, in forte disaccordo con quella romana, segnò il passaggio ad un’economia legata all’auto-consumo dei prodotti. Il venir meno di scambi e commerci portò ad una stagnazione e conseguentemente ad una produzione in loco del necessario per il sostentamento della vita materiale e spirituale delle persone. La popolazione dovette adattarsi al clima e al territorio sul quale vivevano.
Questo è il regno della gastronomia friulana, adattarsi a ciò che la natura e il terreno poteva donare alle famiglie: i cibi che troviamo sulle tavole della nostra regione, con il trascorrere dei secoli hanno subito profonde trasformazioni e pure le ricette presentano numerosi varianti.
Primi Piatti
Come già specificato dettagliatamente nelle parti precedenti, ciò che caratterizzò l’alimentazione medievale nella regione, è un sistema alimentare misto, dovuto essenzialmente al contatto tra la popolazione classica e quella barbarica. Oltre ai vari cambiamenti nel sistema alimentare e di produzione, questa unione, portò ad un cambiamento dei metodi e tempi di cottura. La cucina di barbari, longobardi e goti, caratterizzata da un consumo elevato di carne, favoriva metodi di cottura “veloci”.
Molti dei termini presenti nel lessico friulano danno conferma di questa peculiarità della cucina delle popolazioni germaniche:
- rustî (arrostire) risalente dal germanico raustjan
- sbrovâ (scottare), dalla voce germanica brojan (immergere in acqua calda). Questo termine da origine anche alla parola friulana broade/brovade, tipico piatto costituito da rape (10)
Abbondante e molto frequente era anche il consumo di carne bollita, di conseguenza la preparazione di zuppe, brodi e minestre era abituale. Il termine friulano brût (brodo) deriva dal germanico brod, indicante un alimento non usuale nelle mense dei romani, infatti questi ultimi non lo consumavano “in purezza”, ma bensì per insaporire altre pietanze o conservare per più giorni la stessa carne all’interno di questo liquido.
Il termine miniestre (minestra), è un deverbale del termine latino ministrare che tra gli svariati significati aveva anche quello di servire, scodellare, servire a tavola le porzioni.
Il termine friulano sope (zuppa), deriverebbe dal germanico suppa “fetta di pane inzuppata”. Non è una circostanza casuale visto che caratteristica delle zuppe medioevali è la presenza del pane al loro interno. La presenza di questo ingrediente ha origini storiche e sociali molto antiche; nel corso del Medioevo infatti l’uso di stoviglie (piatti, posate, ecc…) erano poco utilizzate se non inesistenti nelle mense dei poveri, diversa la situazione sulle tavole dei nobili. Nelle case della povera gente le mani erano le sostitute privilegiate alle posate ed il pane al piatto. Il pane, usato come vettovaglia, non veniva mangiato dai commensali, ma nemmeno gettato,anzi, messo in un pentolone molto ampio con dell’acqua o raramente con del brodo, costituiva il pasto della servitù.
Brodi, zuppe e minestre caratterizzarono in maniera univoca nel corso dei secoli la cucina friulana a tutti i livelli sociali, infatti il connubio che si instaura tra il brodo ricco delle proteine e dei grassi della carne, l’amido contenuto nei cereali, rende queste preparazioni assai nutritive, sazianti e allo stesso tempo facilmente digeribili.
Per quanto riguarda un altro importantissimo ingrediente, la fava, il Nuovo Pirona (vocabolario friulano) afferma che anticamente erano uno degli ingredienti più utilizzati, tanto che la campana appesa ad un lato della guglia di Mercato Nuovo a Udine si chiamasse cjampane da lis favis poiché suonava a mezzogiorno, l’ora in cui il popolo, che si nutriva specialmente di questo legume, prendeva il pasto. (11) Tipica del Friuli e preparata con le fave, non con i fagioli come si pensava poco tempo addietro, è la Jote. La prima attestazione della Jote in Friuli risale al 1432 nei cividalesi quaderni dei Battuti; è, o era, conosciuta da Collina di Forni Avoltri fino a Rijeka/ Fiume. Per l’uomo della strada si tratta, ora, di un cibo caratteristico soprattutto in Carnia e di Trieste. In realtà apparteneva all’intero Friuli e all’Istria. Le divagazione geografiche pertanto portano a concludere che non c’è una reale paternità della Jote, né si può dire quella è la “vera” Jote. Tutte sono vere, anzi la popolazione doveva necessariamente arrangiarsi con ciò che aveva.
Fra le pietanze più rappresentative del Friuli ci sono i Cjalsons, i quali in base alle varianti possono essere gustati sia come primo piatto che come dolce. Stando agli studi di Franco Finco l’origine della parola sarebbe la stessa del termine napoletano calzone, cibo consistente in pasta ripiena variamente farcita. (12) Nel corso dei secoli nulla è cambiato nella delicata forma a mezzaluna, ciò che cambia è il ripieno. Infatti ogni famiglia ha la propria ricetta segreta che tramanda da generazione in generazione. Il condimenti caratterizzante per i friulano è senz’altro il burro fuso, profumato con della cannella o della salvia e da una spolverata di ricotta affumicata. Il confezionamento è molto antico, essi erano il cibo di usanza per la Pasqua di Resurrezione.
In questa meravigliosa carrellata di primi piatti un posto speciale spetta anche al riso, un cereale che ben si presta alla preparazione di ricette brodose come minestre e minestroni, che asciutte come risotti o timballi.
L’uso del riso in Friuli è davvero antico, ne è un esempio l’inventario che è stato compilato nel 1446, in una bottega cividalese in cui si scrive: <<unum saculum de ris sigillatum>> (14).
Il riso coltivato in Cina, fin dal Medioevo venne trasportato in Europa e venduto a prezzi elevatissimi, come fosse una spezia delle più pregiate. La cultura del riso in regione infatti è sempre stata molto radicata; il riso nel latte era una minestra tipica delle feste dell’alta friulana.
Altre preparazioni molto conosciute in regione, sono la Uite, vale a dire una minestra a base si verza, spinaci, foglie di rapa cotte assieme all’acqua, latte e fagioli, fino a quando il tutto non aveva raggiunto una consistenza tale da somigliare ad una polenta tenera.
A queste preparazioni poverissime se ne aggiungevano altre, maggiormente sostanziose e nutritive, composte da cereali e dai legumi. Ecco quindi che si presentano sulle tavole della povera gente piatti come la minestra di crauti, di vergis, di fasui, di patatis, di cesarons e di uardi.
Accanto a questa cucina povera, di sopravvivenza, si trova la “mensa” dei nobili, dei ricchi, di coloro che potevano esaudire ogni capriccio culinario. È questa la cucina delle minestre di cereali e di carne, il maiale fa la sua comparsa in tutte le sue più inimmaginabili varianti, da piatto principale a semplice insaporitore; muset, lujanis, guanciale, crodie, ecc…
Una delle preparazioni più in voga all’epoca in regione doveva essere la sope cu lis tripis, a cui si dava il nome di sguazet. Era usanza consumarla dopo la messa di mezzanotte alla vigilia di Natale e doveva considerarsi piatto pregiato se, come risulta dalle note spese della Contessa Rabatta, questa preparazione veniva preparata per il pranzo della domenica e come non manca di sottolinearlo, era considerato piatto esclusivamente padronale e non della servitù.
Facendo un piccolo salto al futuro, oggi brodi, minestre, zuppe, risotti sono già belli e confezionati nel banco frigo al supermercato; basta aprire, scaldare e versare nel piatto. Ma qual è il vero gusto a mangiare piatti del genere, quando in un batter d’occhio con l’aiuto di una pentola, dell’acqua e tutto quello che serve per dar sapore al piatto si può avere la vera essenza di un alimento preparato in casa, fresco e naturale? Nel Medioevo tutto ciò era quotidianità.
La carne
Il maiale
Uno degli animali in assoluto più popolare nel medioevo friulano è il purcit (porco), l’ospite più ben accetto a tutte le tavole friulane. La storia del maiale è lunga, fitta di intrecci e credenze popolari, superstizioni, usi, costumi e culture.
Il porco iniziò ad essere consumato dal IV millennio a.C. quando la caccia venne soppiantata dall’allevamento e dall’agricoltura, che divennero così il primo mezzo di sostentamento per tutta la popolazione. In quest’epoca il Friuli era popolato dai suoi progenitori, i Celti, guerrieri, che stanziati sui nostri monti, perfezionano l’uso del ferro riuscendo a coltivare avena e segala. Il suino soddisfa il palato dei nord europei, gli Etruschi spedivano a Roma ben 20 mila suini da macello e l’impero insegnò così ai friulani a considerare il maiale con il rispetto che meritava. Ad Aquileia i romani mangiavano salsicciotti e luganighe e la loro preparazione non si allontanava molto dalla nostra attuale.
Inizialmente allevato allo stato brado nei boschi, pascoli, paludi, il porco lo si trovava soprattutto nella Pianura Padana, che estendeva un lembo della sua terra del Friuli meridionale. Queste zone erano assai ricche di querceti e di ghiande, cibo di cui i maiali andavo ghiotti.
Durante il medioevo il porco predominava il paesaggio agricolo, ma per legge doveva essere allevato al di fuori della zona urbana e alle coltivazioni, a testimonianza di tutto ciò sono state trovate innumerevoli normative udinesi in merito al pascolo dei maiali. I suini allevati in quel particolare periodo erano animali di piccola taglia che di norma non superavano il mezzo quintale.
Il momento più atteso dell’anno per la popolazione friulana in periodo medioevale, e ancora oggi lo si attende sempre con una certa frenesia, erano le giornate da metà novembre a metà febbraio che veniva segnato dalla festa di S. Andrea (30 di novembre). Millenni di cultura popolare hanno insegnato che il periodo freddo era il momento migliore per lavorare le carni: era tempo di uccedere il maiale (purcitâ).
“Del maiale non si butta via niente!” Era questa la frase che veniva ripetuta ogni qualvolta un porco veniva ucciso. Affermazione più che corretta, visto che si mangiava davvero ogni parte dell’animale. Ogni prodotto, ovviamente, prima di essere consumato doveva giungere al giusto grado di maturazione, il calendario da seguire era molto preciso.
Del suino si mangia ancora oggi, come detto, proprio tutto: l’arista (schiena) arrostita, che è ottima anche fredda; la spalla, ideale per spezzatini ed arrosti. Si mangiano pure le costine, la coscia intera o al forno, i ciccioli o frizzi, sangue e il fegato. A quell’epoca veniva cucinato anche il cervello, ma oggi, con le nuove norme vigenti che obbligano ad uccidere il maiale con un colpo di pistola alla testa, non è più possibile per i frammenti che si potrebbero trovare all’interno del cranio dell’animale.
La selvaggina
L’uomo è stato prima cacciatore e poi contadino è questo particolare non è assolutamente da sottovalutare, a tavola infatti, la selvaggina ha un ruolo di primaria importanza e chi si occupa di gastronomia lo sa molto bene. Se in principio cacciare era soltanto un modo per garantire la sopravvivenza, col passare del tempo, venne riconosciuta come un modo per potersi sedere a mense ricche, ricercate ed esclusive.
Il Friuli Venezia Giulia, luogo ideale per la fauna, perché ricca di boschi e corsi d’acqua, attrasse addirittura la Serenissima e l’antica Sagra degli Osei, nata a Sacile attorno al 1300, è tutt’oggi una delle più note manifestazione del genere in Italia. (16)
In regione la caccia si diversificò in base alle zone: i triestini, per esempio, predilessero le battute in Istria e nelle colline carsiche. I goriziani conquistarono un ruolo importante nella caccia attorno al XVIII secolo mentre in Carnia la caccia assunse connotati molto affascinanti e la sua origine mistica, nelle storie e nei ricordi, si arricchirono di superstizioni. Secondo antichi documenti in questa zona si cacciavano orsi, lupi, gattopardi, volpi, daini, caprioli, beccacce, pernici, cervi e camosci.
Nel medioevo l’uccellagione, in Friuli, era di gran voga, avveniva attraverso tre trappole originali: il roccolo e la bressana (doppio filare di alberi che nascondevano una rete), la prodine (trappola con reti a scatto) e le panie (rametti ricoperti di vischio). Tutto ciò rappresentò un capitolo molto importante per l’economia domestica della famiglia friulana, non solo permetteva di mangiare, ma consentiva di vendere a caro prezzo gli uccelletti alle regioni, dove, prima che da noi, l’uccellagione fu proibita.
I Formaggi, le Erbe e la Polenta
Quando di parla di pane e polenta il pensiero corre subito al companatico; certo, come si è potuto verificare sino ad ora, i ricchi potevano gustare assieme a questi alimenti qualsiasi leccornia solo sulla base di un capriccio o desiderio, mentre per i poveri, i contadini e la servitù il discorso era molto diverso. Infatti, a causa delle ristrettezze economiche in cui si trovavano, non potevano permettere una mensa ricca ed abbondante consumando a piacimento pesce, carni o deliziosi insaccati. Ecco dunque che entrano in scena, diventando fonte importantissima di elementi nutritivi, alimenti come le erbe ed in generale tutti i derivati della lavorazione del latte.
I Formaggi
Il Montasio. Tradizione vuole che questo noto formaggio sia prodotto in Friuli sin dal XIII secolo, periodo in cui i monaci benedettini dell’Abbazia di Moggio Udinese affinarono le tecniche di produzione del formaggio che avrebbe preso nome dall’altipiano del Montasio, antico feudo dell’importante monastero situato lungo il corso della Val del Fella. Le tecniche di produzione si sparsero in tutto il Friuli ed in parte anche in Veneto,con il Canal del Ferro, punto strategico per i traffici mercantili e via di comunicazione importante sin dall’epoca romana.
Questo alimento ricco si poteva, e si può ancora, gustare fresco (60-120 giorni), semi-stagionato (5-10 mesi) o vecchio (oltre 12 mesi di stagionatura). Il sapore, man mano che la forma invecchia, dal gusto di latte si passa ad un sapore più piccante, parallelamente, il formaggio, da morbido, diventa friabile.
Il Formadi Frant. Anche questo formaggio è una preparazione molto antica della tradizione alimentare carnica. Tale preparazione un tempo aveva l’obbiettivo di recuperare i formaggi che non erano più idonei alla stagionatura per i più svariati motivi. Questo particolare alimento a causa del sapore molto intenso e piccante non veniva consumato molto di frequente come poteva esserlo il formaggio normale. Quindi oltre ad essere una preparazione che nutriva aveva bisogno anche di un razionamento; si mangiava poco formaggio e molta polenta.
Il Formadi. I più conosciuti in regione sono il Formadi Salât de Cjarnie ed il Formadi Asìn, la loro antichissima origine è ancora sotto i riflettori con discussioni e varie diatribe, ma nonostante tutto dagli ultimi recenti sviluppi sembra che il luogo d’origini di questo particolare alimento sia Pieve d’Asio.
Il Frico. Si tratta di una pietanza a base di formaggio cotto in padella, assieme al burro o lardo, finchè diventa croccante. Il suo consumo è ristretto all’ambito regionale, infatti non si conoscono in altri luoghi d’Italia e d’Europa preparazioni simili.
Le Erbe
Purtroppo durante i periodi di carestia le coltivazioni di ortaggi precipitavano rovinosamente e come si poteva sostituirli per preparare le minestre? Per le famiglie medioevali friulane non c’era cosa più semplice di uscire di casa e recarsi nei campi e nei boschi vicini, l’erba naturalmente non mancava mai.
A partire dal XV secolo, inizio delle peggiori pestilenze e carestie, i friulani diventarono grandi raccoglitori di erbe e piante selvatiche, forse i più solerti di tutta Italia, riuscendo ad elevare questi vegetali ai vertici della classifica gastronomica locale. La tradizione verde del Friuli Venezia Giulia comprendeva superstizioni, riti religiosi, medicamenti e cibo.
Le erbe furono alla base di numerosi medicinali che gli ormai leggendari cramârs, commercianti carnici, rivendevano all’estero. Accanto a stoffe, pizzi e capi d’abbigliamento, nelle loro crassignes,i mercanti friulani non dimenticavano mai di mettere spezie, droghe e medicamenti vegetali da rivendere in Germania o in Austria.
Secondo alcune credenze popolari, oggi dimenticate del tutto, le migliori ortaglie erano quelle seminate il venerdì santo mentre il giovedì santo, dopo il gloria, era il momento per seminare l’erba medica. Bisognava farlo vicino al proprio campo di grano e guai a dimenticarsene: in tal caso qualcuno della famiglia sarebbe morto entro l’anno.
Qualsiasi beneficio o maleficio che le erbe potevano dare, inoltre, era possibile solo se raccolte la notte di San Giovanni dopo la caduta della rugiada. Con tutte queste credenze e superstizioni i nostri antenati andavano a nozze.
Molti furono i medici e i farmacisti improvvisati, quelli però, purtroppo, erano tempi davvero duri durante i quali per curarsi era meglio pregare e affidarsi alla divina provvidenza.
In Friuli si raccoglie erba da tempo immemore ed il più buono e famoso insieme di queste si chiama lidum (fredum). Per comporre questo mazzetto di ottimi profumi per utilizzarlo nella preparazione di frittate o risotti, in alcuni paesi della regioni si raccoglievano ben 57 erbe di campo.
Tra le più note erbe che componevano il lidum c’erano: l’ardielùt (agnellino) in passato di pensava avesse poteri afrodisiaci, la blede (bietola) un tempo venivano spalmate di burro e posate sulle scottature o sulle ferite purulente della pelle, pan e vin (acetosa) mangiata cruda si pensava eccitasse l’appetito e la tale (tarassaco).
Ma la raccolta delle erbe non avveniva soltanto per il lidum, venivano utilizzate anche per la preparazione di numerose tisane, decotti, salse e marmellate. Inoltre erano impiegate anche per insaporire le grappe e creare delle ottime insalate e minetre.
La Polenta
La polenta è l’oro del Friuli Venezia Giulia, ha sfamato, bene o male, intere generazioni di contadini che, nel corso della storia, fra pestilenze, carestie, guerre ed offese alla propria dignità di uomini, hanno costruito l’identità di questo territorio, conoscendo, invece che la gloria, soltanto la fame nera. La polenta si può considerare uno dei cibi più antichi della regione e proprio in Friuli la si mangia da sempre.
Sbagliano coloro che credono che la polenta sia nata dopo l’arrivo del granturco dalle Americhe, infatti questo cibo, ricco di sostanza, veniva preparato con le farine di farro, sorgo, panìco, miglio, spelta o con il soròs (saggina) e il sarasìn (saraceno).
In questo alimento così elementare, stanno riposti millenni di sacrifici e di speranze, cucinata da almeno due o tre millenni, si può affermare che, se siamo al mondo, lo si deve tutti in buona parte alla polenta perché non era semplicemente un cibo, era il cibo, era la vita. Certo non bisogna dimenticare che essendo stata l’unico alimento a disposizione per la maggior parte delle famiglie friulane portò anche a gravi malattie quali lo scorbuto e la pellagra.
La tecnica di preparazione, dal punto di vista gastronomico, è rimasta bene o male sempre la stessa, quando ogni donna era, in un certo senso, geneticamente in grado di preparare la polenta alla perfezione. Era suo sacrosanto compito giornaliero, sul calar della sera, preparare la polenta per l’intera famiglia, non mancavano di certo le giornate dove doveva cucinarla anche due volte. La polenta serale serviva ad assicurare, oltre alla cena, anche la colazione del mattino successivo. (17)
Era un dovere saper far bene questa pietanza, tanto che, se una giovane sposa non ne era capace veniva, senza alcun ritegno, additata come incapace di saper mantenere una famiglia.
Accompagnata da ogni pietanza, la polenta la si mangiava sempre. Buona al mattino con il latte, in estate con la frutta e la sera con la carne, il formaggio o il radicchio. O semplicemente da sola, visto che in molte famiglie medioevali procurarsi altro cibo in periodo di carestie era davvero complicato.
Per sdrammatizzare il momento si cercava un rimedio nella fantasia, immaginando che una fetta fosse polenta, una seconda formaggio e la terza un’altra fetta di polenta a ricoprire il tutto.
Una bellissima frase, che spesso viene ancora oggi ripetuta a tavola quando tutta la famiglia si riunisce per il pasto, è patrimonio culturale delle tradizioni friulane tramandate a voce:
“a è ‘na roba su ‘na brea ch’a clama dongja duta la famea”. (18)
(c’è una cosa sul tagliere che chiama a raccolta tutta la famiglia)
I dolci
L’idea di dolce, come la intendiamo noi oggi, sia come chiusura sfiziosa di un pasto sia come una dolce parentesi in una giornata, comincia a diffondersi con l’arrivo in Europa dello zucchero di canna introdotto nella penisola attorno all’anno Mille dai Crociati. Tale prodotto, considerato di estrema rarità e molto costoso, era riservato alle mense dei ricchi signori e dei nobili, mentre per quelle della povera gente venivano utilizzati come dolcificanti: uva passa, miele e fichi secchi.
C’è da precisare che nonostante i dolci, come detto prima, fossero delle leccornie destinate soltanto alle tavole ricche dei signori, cera poi anche una classe media o medio bassa di piccoli artigiani e contadini che pur dovendo vivere in ristrettezza e privazione, in determinate occasioni importanti durante l’intero ciclo della vita, rompevano questa monotonia facendo nascere da situazioni di estrema povertà economica dolci semplici ma allo stesso tempo golosi e nutrienti.
La Gubane
È un dolce tipico del periodo pasquale che nasconde in sé il fascino della sua origine misteriosa ed in essa racchiude molto bene la storia della regione, visto che anche questo dolce, come le vicende storiche,subì le influenze di Venezia, dell’Austria, della Boemia ecc.. Quindi a quale epoca risale precisamente la Gubana? La prima attestazione di questo dolce risale al 1409, questa infatti fu una delle leccornie servite dal Comune di Cividale a Papa Gregorio XII di passaggio nella città friulana.
Il nome Gubana pare sia di origine slovena; infatti, gubàne è la forma friulana della parola slovena gibanica termine che a sua volta deriva da giba “ruga, piega”.
Come anticipato in precedenza questo dolce è tipico del periodo pasquale, ma c’è un motivo ben preciso se è stato scelto proprio questo periodo. La risposta è nella forma stessa del dolce che presenta la caratteristica sagoma a spirale che si avvolge in senso antiorario.
La spirale, simbolo antichissimo e largamente diffuso, è stato da sempre messo in relazione con il concetto di morte e rinascita, rappresenta il senso della continuità della vita e della sua ciclicità. La Pasqua prima di diventare la festa per la Resurrezione di Cristo, era la celebrazione della rinascita della natura e cadeva proprio nel primo plenilunio di primavera; era una festività, sentita dal popolo, come inno alla fecondità, al rinnovamento, alla “nuova” vita.
I Cròstui e lis Fritulis
Quando si parla dei pani e dei dolci friulani non si possono non menzionare le preparazioni tipiche di un altro periodo dell’anno molto importante, quello carnevalesco. Carnevale è il periodo degli eccessi alimentari prima del periodo della quaresima; è in questa fase che si può quindi contare su una presenza importante, nelle dispense delle case, di grassi di origini animale ancora freschi vista la recente macellazione avvenuta in periodo invernale.
Ecco quindi che grassi come lo strutto, venivano impiegati oltre che nella preparazione degli impasti, anche, nella cottura degli alimenti; per quanto riguarda i dolci, tipiche preparazioni del Carnevale sono appunti i Cròstui e lis Fritulis.
Il nome crostolo è diffuso in tutto il triveneto e proveniente dal latino crustum “biscotto sottile ricoperto da una crosta”. Anche le fritule è voce comune in tutto il triveneto e proveniente da un latino tardo frictula, a sua volta da frictum “cosa fritta”.
Le frittelle sono ricordate in numerosi documenti che attestano l’antichità nell’uso di confezionarle, per esempio nei Quaderni della confraternita dei battuti d’Udine dell’anno 1435, si dice: << Item spendey lu dì di sivrut par fa fazint fertili al povers>>.
Il pan cul’ue e pan di coce o pan zâl.
Attraversando lentamente tutto l’arco dell’anno, si arriva al periodo più triste per quanto riguarda il calendario cristiano, la commemorazione dei defunti (2 novembre). Usanza del Friuli Venezia Giulia era il confezionamento del pan cu l’ue, vale a dire pane all’uva, tradizione questa che sembra perdersi nella notte dei tempi se si pensa che già i romani, e prima di loro i celti confezionavano una specie di biscotto con l’uva oppure con le bacche di sambuco, in occasione di un funerale oppure dei giorni della commemorazione delle anime dei defunti.
Le anime ritornando sulla terra in date prestabilite, vedendosi omaggiati e ricordati, ritornavano nel mondo dei morti senza arrecare sventure o malefici.
Stessa funzione era svolta anche dal pan di coce; la zucca in periodo medioevale è sempre stata circondata da un alone di mistero. Era considerata, nell’immaginario celtico, pianta magica, simbolo d’unione tra gli elementi della natura: acqua, terra e cielo.
Per la religione cristiana, invece, la zucca era simbolo di buon augurio per gli orti dove si coltivava, nonché pianta benedetta, tale credenza è confermata dall’usanza di dipingere San Giuseppe con una zucca da vino appesa al bordone.
Altri dolci tipici delle zone friulane erano: lo strucul (strudel), i mostazzons (biscotti alle mandorle), la pinza e lis fuiazzis (focaccia schiacciata), il pistum (gnocchi di forma cilindrica) e i bussolai o colaz ( ciambelle).
Le bevande
“Un taj, par plasei!”
Quante volte la si è sentita pronunciare questa frase? Moltissime, ma raramente ci si sofferma sulle arcaiche origini di questa magnifica bevanda, il vino. Dalla storia complessa, ricca di significati mitologici, religiosi e filosofici. Per il vino sono state dedicate miliardi di parole e saggi, al questa magica bevanda sono state dedicate poesie, canzoni, cene e festini. In Friuli Venezia Giulia essere astemi è considerato come peccato ed un friulano lo sa molto bene.
In questa meravigliosa regione il vino si beveva già da molti secoli prima della venuta di Gesù, si narra, infatti, che Diomede dopo aver abbeverato le sue cavalle nelle acque del Timavo, avrebbe offerto a questa terra la prima vite. Una semplice leggenda? Forse sì. Ma nonostante tutto è certo che il vino assunse grande importanza molto prima dell’impero romano e, più precisamente, ai tempi in cui i celti popolavano le nostre terre.
Molte testimonianze sono state lasciate anche per la conservazione di questo alcolico. Se Roma preferiva le anfore in terra cotta, in Friuli Venezia Giulia è probabile che si usassero le botti in legno, forse introdotte dal popolo celtico. Un cosa è certa però: i tempi e le abitudini cambiano, così come i gusti. I vini romani, infatti, se bevuti oggi sarebbero delle bevande piuttosto sgradevoli.
L’oro di Bacco assunse importanza fondamentale anche in periodo longobardo, va ricordato che dietro ad ogni monastero non mancava mai una coltivazione di viti. Al tempo il vino non era solo un elemento di piacere per lo spirito e il corpo, ma era anche usato per suggellare promesse e contratti, soprattutto matrimoniali.
I vini friulano hanno fatto davvero la storia: sulla Ribolla il conte Francesco di Manzano scrisse che la Rabiola, era tra i vini Friulani più apprezzati nel XII secolo. Il Dalmasso, invece, sostiene che verso la fine del 1300, la Ribolla fu decantata dai cronisti e dai poeti tedeschi, denominandola Rainfald. Il Tocai, si trascina dietro a se tantissimi dubbi, la sua origine infatti è ancora pregna di discussioni. Alcuni sostengono che il vitigno fosse stato importato dall’Ungheria dal conte Ottelio o dal vescovo Casasola. Altri che si tratti di un vitigno coltivato nell’Impero Austo-Ungarico e importato in Friuli in seguito alle vicende belliche. Altri ancora che si tratti di un vitigno autoctono trapiantato dall’Ungheria e ritornato in Friuli in tempi recenti. Pare, infatti, che nel XI secolo alcuni missionari fossero stati chiamati all’est dal re Stefano il Santo e che portassero in dono al sovrano alcuni vitigni di Tocai.
La Grappa
Antichissimo distillato. Acqua di vite. Acquavite.
Prodotto di antichissima origine, lo dimostrano gli alambicchi disegnati sui dipinti storici o sul vasellame, come quelli dell’alchimista greco Zosimo il Panopolitano. Roma, ancora Roma, non cessa mai si insegnare qualcosa a qualsiasi popolazione che ha avuto a che fare con lei. Plinio il vecchio, vissuto nel I secolo d.C., racconta il processo di distillazione del vino e durante l’impero si parla di aqua vitae de vino alba,acquavite di vino bianco.
Per secoli i distillati di vino sono rimasti diletto degli alchimisti e prima di conoscere la grappa, quale bevanda a tutti gli effetti, bisogna arrivare al Cinquecento.
Il primo trattato sulla preparazione dell’acquavite compare nel corso del XV secolo con il titolo De conficienda aqua vitae e fu scritto da Giovanni Michele Savonarola. (19)
I soli consumatori di questa bevanda restarono per molto tempo i contadini e la povera gente che abitava sulle alture. Accolse tantissimi significai: di amicizia, suggellava contratti, era offerta agli sconosciuti che si incontravano lungo i sentieri in montagna.
Qualsiasi cosa che sgorgasse da un qualsiasi alambicco non poteva non affascinare i medici del passato, acquisendo, automaticamente, pregi e benefici. Fu così che la grappa divenne bevanda miracolosa per illustri dottori, efficace, a loro dire, per perdere chili superflui.
In Friuli Venezia Giulia, chiaramente, terra di splendidi vigneti, la grappa assunse le sue caratteristiche migliori.
L’alimentazione nei castelli del Friuli: il caso del Castello della Motta di Savorgnano
Le ricerche nel Castellum Sabornianum.
I ruderi del castello della Motta di Savorgnano del Torre (comune di Povoletto – Udine) sono posti sulla sommità dell’estremità sud-ovest di un crinale, ubicato presso la confluenza del torrente Torre, che lo lambisce a ovest, e del rio Motta.
Il toponimo Motta compare in alcune mappe del XVI e XVII secolo, ma nei documenti più antichi l’insediamento fortificato è definito Castellum Sabornianum, cioè castello dei signori di Savorgnano. (20) La presenza dei nobili di Savorgnano non è documentata prima del 1257, anno in cui è citato Rodolfo, figlio di Rodolfo senior e fratello di Corrado.
Per ora ciò che si può considerare il più antico resto strutturale di questo insediamento si riferisce ad una casa-torre e a muri di altri edifici identificati al di sotto del mastio poligonale. La cronologia di questo resto, di periodo alto-medioevale, è stata dedotta, senza però averne la certezza, da frammenti di ceramica ritrovati in uno strato creatosi all’interno della stessa torre.
Nel 1997 ha preso forma il “progetto di recupero e valorizzazione del castello della Motta di Savorgnano.” Questo progetto ha come fine l’approfondimento delle conoscenze storico-archeologiche di un insediamento fortificato del Friuli e del suo territorio. Inoltre si opera anche per recuperare le strutture e l’ambiente circostante in modo tale da renderlo agibile e fruibile al pubblico.
I residui alimentari
I resti archeologici alimentari posso aiutare, anche indirettamente, a fornire numerosissime informazioni circa la situazione economica, agraria, sociale e commerciale di un determinato luogo in un determinato tempo. Naturalmente tutte queste notizie da sole non possono illustrare dettagliatamente gli usi alimentari propri di quel luogo, ma associati ed integrati da informazioni provenienti da fonti documentarie o iconografiche, sono indispensabili per “fotografare” con maggiori dettagli la situazione del luogo e del tempo preso in esame.
Gli studi effettuati e i resti ritrovati all’interno degli scavi effettuati nei ruderi del castello della Motta di Savorgnano, forniscono un quadro soddisfacente dei possibili generi alimentari consumati tra la fine del XII ed il XIII secolo.
Per quanto riguarda invece i resti faunistici, si può segnalare una scarsa presenza di volatili da cortile ad eccezione del gallo domestico, si può evidenziare, al contrario, l’uso a scopi alimentari, sottolineato anche dai segni di macellazione visibili sulle ossa, di buoi, maiali, caprovini e selvaggina da pelo.
La tabella (tab. 1.) sotto riportata è stata elaborata da Gabriella Petrucci (23)
Mammiferi | % |
Bue (bos taurus) | 14,00 |
Caprovini (ovis vel Capra) | 28,00 |
Maiale (Sus scrofa dom.) | 38,00 |
Cervo (Cervus elaphus) | 8,0 |
Capriolo (Capreolus capreolus) | 2,0 |
Cinghiale (Sus scrofa) | 6,0 |
Tab. 1.
I dati forniti dai resti carpologici, sinteticamente descritti nelle tabelle n° 2, 3 e 4 tratte dal lavoro condotto da Renato Nisbet e Mauro Rottoli, evidenziano come risultino rappresentate molte delle specie vegetali più comuni per usi alimentari anche se le quantità ritrovate, poco ci dicono sulla loro percentuale d’uso. (24)
Leguminose | Q.tà |
Favino | 3 |
Veccia | 11 |
Lenticchia | 2 |
Cicerchia o cicerchiella | 1 |
Tab. 2
Cereali | Q.tà |
Segale | 107 |
Avena | 66 |
Miglio | 62 |
Sorgo | 38 |
Orzo | 20 |
Panico | 7 |
Tab. 3
Frutti | Q.tà |
Nocciole | Fram. |
Noci | 2 |
Castagna | 1 |
Tab. 4
I resti di queste informazioni ci forniscono la certezza delle tipologie alimentari ma nulla ci può dire sulle modalità di utilizzo delle stesse. Molto particolare è la presenza della castagna in un contesto di mantenimento di derrate alimentari, che conferma alcuni studi fatti sull’alimentazione medioevale nei quali si affermava che la piantagione del castagno destinato al nutrimento umano iniziò a partire dal XI al XIII secolo, in concomitanza con l’aumento del numero della popolazione, dove la qualità del suolo risultasse poco favorevole ad altri tipi di coltivazioni.
Si potrebbe fare molti esempi, riprendendo ciò che è stato trovato alla Motta di Savorgnano, includendo moltissimi altri tipi di alimenti. Tutto ciò per arrivare ad una visione a 360° di ciò che poteva essere l’alimentazione in quel periodo e in quel luogo. Le conclusioni sono state chiare e molto semplici: l’alimentazione era basata essenzialmente sulla carne, molto varia, dai bovini alla selvaggina grossa. L’elenco dei cereali, la cui divisione potrebbe far intendere una diversificazione tra alimentazione tra il nobile e il “villano”, non fa rientrare in farro, elemento tipico della zona del centro/sud Italia.
Quindi ripercorrendo ciò che sono stati i ritrovamenti e analizzandoli con dedizione, si arriva alla conclusione che pane e polenta, assieme alla carne anche conservata e cioè salata o seccata, uniti ai legumi, sono state la base della piramide dell’alimentazione degli abitanti del Castello della Motta di Savorgnano intorno al XIII secolo.
Purtroppo l’ampiezza del sito e il periodo assai lungo di utilizzo richiederanno senz’altro ulteriori anni di studi e scavi, alla fine, probabilmente, sarà possibile con esattezza, ricreare la metamorfosi di cambiamento dell’utilizzo degli alimenti nel corso dei secoli.
Pertanto, dal punto di vista della ricerca storica relativa all’alimentazione medioevale nella regione Friuli Venezia Giulia, questo sito può essere considerato, senza alcun dubbio, un importante “laboratorio a cielo aperto”.
La cucina di Maestro Martino e l’ “onesto piacere” di Bartolomeo Platina
Nell’anno 1994 la “Società Filologica Friulana” ha riunito, effettuando un meticoloso lavoro editoriale, in un meraviglioso cofanetto, due volumi:
- l’edizione del manoscritto del Libro de arte coquinaria di maestro Martino da Como, cuoco del patriarca di Aquileia verso la metà del XV
- il De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Sacchi detto il Platina. il primo libro stampato in Friuli, esattamente a Cividale, il 24 ottobre (26)
Naturalmente i due antichi e preziosi cofanetti sono stati riuniti insieme, visto che il Platina, nella seconda parte dell’opera, riprende e traduce nel suo delicato ed elegante latino quasi tutte le ricette di maestro Martino. Infatti, se si presta attenzione, il Platina fa numerosi riferimenti, ringraziando implicitamente tutti gli insegnamenti appresi dal maestro. In uno dei 417 capitoli che formano l’opera, uno in particolare, che elogia il cuoco, il Platina esorta un possibile aspirante cuoco ad “…assomigliare in tutto, se gli riesce, a Maestro Martino, principe dei cuochi ai nostri tempi, dal quale ho imparato il modo di cucinare ogni pietanza”. (27)
Martino de’ Rossi o Martino de Rubeis è stato un cuoco e un gastronomo italiano, fu il più importante cuoco europeo del ‘400. La sua opera, nominata precedentemente, è un caposaldo della letteratura gastronomica italiana.
Della sua storia personale non si hanno certezze, tanto che sue notizie si avranno soltanto nella prima metà del ‘900 dall’America ed in Italia si dovranno attendere la metà degli anni ’70, quando molti cuochi riuniti si interessarono alla figura di Maestro Martino. (29)
L’opera di Maestro Martino condensa, in 65 fogli non numerati e scritti in lingua volgare, l’arte di cuoco estroso e modernizzatore. Le prime tracce avute risalgono al 1456, continuando incessantemente fino al 1467.
Uno dei principali elementi distintivi dei suoi piatti, è il recupero del gusto originale delle materie prime, evitando l’abuso di spezie, com’era d’abitudine nella tradizione medioevale quando le spezie, e la loro abbondanza, simboleggiavano la ricchezza del padrone di casa. (31)
Lo stile dell’opera è preciso, dettagliato e ordinato. Tutte le ricette sono in ordine di portata e di ingrediente, è evidente che il maestro voglia farsi comprendere da tutti, sia dai poveri che dai ricchi. Molto interessanti sono anche le sostituzioni che suggerisce ai lettori, se, in credenza, dovesse mancare qualche ingrediente in particolare.
A Maestro Martino si rende il merito di aver inventato per primo la parola polpetta, assente dai ricettari sino al XIV secolo, chiaramente non si intendeva una pallina di carne macinata, come del resto la intendiamo noi oggi, ma bensì un involtino di carne allo spiedo. In cucina fu il progenitore delle prime regole igienico – sanitarie, inoltre introdusse nuovi generi di arnesi per la preparazione delle ricette.
Con il suo viaggio a Roma, Martino da Como conobbe un’importante figura, che permise in tutta Italia e in Europa la divulgazione e il successo della sua opera: Bartolomeo Sacchi, detto il Platina,umanista e forte sostenitore del famoso cuoco.
Bartolomeo Sacchi nacque a Piadena, un paese vicino Cremona chiamato in latino Platina, da qui prese il nome. (33) Del suo passato non si conoscono molte informazioni, del resto ha avuto una vita da girovago, ha visitato molte città, ha conosciuto persone molto influenti e ha ottenuto un importante privilegio dal Papa, fu il primo bibliotecario della Vaticana dal 1475 al 1481.
Il Platina ci lascia in eredità il primo esemplare del primo incunabolo stampato in Friuli Venezia Giulia, l’Opusculum de obsniis ac de honesta voluptate et valetudine (34), uscito dai torchi di Gerardo di Fiandra a Cividale, il 24 ottobre 1480: un libro che non è tanto un ricettario, ma piuttosto un manuale del buon vivere e, in particolare, al cibo e alla mensa, dove convivono con eleganza prescrizioni culinarie e citazioni dotte.
Questo incubabolo rappresenta un prodotto di estrema qualità: un piccolo volume in 4°, di 94 carte numerate, senza segnature o richiami. La carta, anch’essa di qualità ottima, presenta diverse filigrane: oca, ancora, cigno, bilancia. (36) Le copie dell’opera del Platina sono ancora molto numerose, circa 50, sparse in tutto il mondo.
Il De honesta voluptate non solo testimonia, anche in campo culinario, il passaggio tra il Medioevo e l’Umanesimo, ma riassume anche una civiltà della mensa fatta di ricette, ma anche e soprattutto di cultura.
Gemona del Friuli: La canipa, la cucina e l’attrezzatura agricola
Non c’è cibo, ingrediente o spezia che prima non venga coltivato, lavorato e cucinato. Un processo lento e meticoloso che portava, prima gli uomini nei campi, poi le donne, a passare la maggior parte del loro tempo quotidiano nel campo vicino casa o nella stanza più importante di tutta l’abitazione, la cucina.
Analizzando ciò che accadeva a Gemona del Friuli nei primi anni del ‘400, è emerso attraverso intensi e lunghi studi, che i contenitori, all’interno dell’ambiente famigliare occupavano, per quanto riguarda l’ambito dell’alimentazione, una posizione di primo piano tra gli oggetti di uso comune. Alcuni di essi, di maggiori dimensioni, erano presenti solitamente nella canipa (cantina), mentre altri di dimensioni ridotte erano rintracciabili nella coquina (cucina).
La canipa
- Vas o vasum: era il recipiente che si trova più frequentemente nella canipe e normalmente non se ne trovava soltanto uno, ma addirittura cinque o sei. La sua capienza, che si solito variava dai 7 agli 8 conzi ( unità di misura in uso in Friuli. Un conzo equivaleva circa a 79 litri) (37). L’uso principale era la conservazione del vino, la sua immancabile presenza nelle case medioevali era del tutto simile all’uso che si fa oggi della botte. Oltre che far da contenitore per il vino, veniva usato anche per la conservazione degli aridi, come fave, grano saraceno,avena
- Vas aceti: molto più piccolo del normale vas, era adibito, fino a qualche decennio fa, al mantenimento dell’aceto.
Tinum o tina : è il più grande dei recipienti che si potevano trovare all’interno della canipa, all’interno di esso, avvenivano la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto.
Per quanto riguarda la conservazione dell’olio, sempre all’interno della cantina, possiamo trovare sia per denominazione, sia per capacità, gli stessi recipienti usati per l’aceto. Non potevano mancare i contenitori propriamente specifici, cioè l’ornatium o il botaficulus, probabilmente un botticella. Tuttavia, per questo particolare uso, erano utilizzati contenitori in pietra (lapis o petra ad oleum).
Per completare il corredo della cantina, nelle abitazioni medioevali di Gemona del Friuli, erano presenti, inoltre, la plera o pliria, un attrezzo solitamente in legno usato per il travaso del viso dalle botti grandi al fiaschetto.
Se si può essere così precisi nell’elencare tutti i contenitori presenti nella canipa, di certo non si può dire la stessa cosa per quanto riguarda gli aridi. Chiaramente, attraverso gli studi, si possono trovare quantità anche abbastanza rilevanti di grani riposti nei luoghi più diversi, ma purtroppo non c’è la possibilità di decifrare in maniera precisa il metodo e gli elementi che garantiva la conservazione delle scorte. Questo accadeva perché all’epoca l’abitudine era di classificare l’oggetto, ma non il bene deperibile.
Piuttosto polifunzionale era la cosiddetta sempla,un mastello o piccola tinozza assai frequente nelle canipe friulane, che veniva usata per il sale e per gli aridi in generale, ma era utilizzata anche per il formaggio (sempla ad tenendum caseum) (39).
La coquina
Passando all’angolo più importante di tutta l’abitazione, la coquina (cucina), ciò che si poteva trovare erano recipiente assai più piccoli e meno ingombranti di quelli posti in cantina. Tra di essi il più diffuso in assoluto e quello che tutt’oggi è ancora rimasto come istituzione in tutte le famiglie friulane, era ed è la calderia. Un paiolo di ghisa o rame che aveva una capacità variante fra la mezza situla (calderucia) e le tre situle. (40) Serviva soprattutto a cuocere cibi e a riscaldare l’acqua e, veniva appesa al focolare per mezzo di una catena con gancio. Il catenatius, la calderia ed il cavedalis rappresentavano elementi fondamentali nelle cucine medioevali a tutti i livelli sociali della popolazione.
Quest’attrezzatura minima era sempre presente, anche nelle condizioni sociali più marginali e povere e costituiva la base per la sopravvivenza. I bisogni primari e la ritualità famigliare venivano soddisfatti in qualsiasi momento. Un’altra pentola, diffusa però tra le cucine della nobiltà, era la stagnata, un contenitore stagnato, appunto, internamente.
Passando allo scalino che esprime, nella distinzione dei contenitori e dei manufatti, la ricchezza della mensa nelle abitazioni dei signori, si evidenzia un intento di ostentazione strettamente legato alla convivialità della tavola. Le scodelle e le scodelline di peltro, i cucchiai d’argento e d’ottone, le caraffe riccamente lavorate a mano, i contenitori per le spezie e le salsiere veniva certamente attinte ai prodotti artigianali di tradizione veneziana o comunque non locale.
L’attrezzatura per la preparazione dei cibi evidenzia una realtà più omogenea, e quindi la ricchezza di esprime soprattutto nella quantità. Innanzitutto un patrimonio di pentolami: la calderia, già precedentemente analizzata, la frixoria e una serie di olle. (coperchi dalle più svariate misure e forme)
- la frixoria: era generalmente identificata come una padella, di solito in ghisa o più raramente in rame, qualche volta forata per permettere la cottura delle castagne (ad coquendum castaneas o borias). Essa rappresenta, nella cucina media di quasi tutte le famiglie friulane medioevali, la dotazione minima per la
- il choppus: strumento indispensabile per attingere cibi solidi e
Passando ora in esame gli attrezzi più minuti, ma non per questo meno indispensabili, si prendono in considerazione le stoviglie:
- i piatti: si rileva una trasformazione ed una evoluzione nella loro funzione e nelle caratteristiche. Un esempio: nel ‘400 , per indicare la stoviglia di uso più comune per il consumo di cibo solido, si utilizzavano alternativamente incisorium e L’incisorium non era altro che una sorta di piattello – tagliere di largo uso e varie dimensione, mentre la platina, era orientata verso quella nuova società che si andava creando in quell’epoca. Questo utensile, la platina per l’appunto, ( da cui il friulano <<plat>>) non era altro che un piccolo tagliere utilizzato come base d’appoggio attorno al focolare. (43)
- il coltello: questo utensile si rinviene in particolare nei ceti di rilievo, dove esso si posiziona in servizi di una certa
Per la frammentazione degli alimenti, si utilizzavano essenzialmente tre generi di utensili:
- il mortaio di pietra (mortae, mortarium): serviva per la frantumazione dei grani
- la pestedoria: costruita in legno, era probabilmente utilizzata per la preparazione di cibi
- il grateformadi: attrezzo presente anche nelle cucine più povere, quasi certamente utilizzato all’epoca visto che l’attività di allevamento nella zona aveva stabilito una certa predominanza dell’attività casearia domestica. Non veniva impiegato solamente per questo scopo, ma era anche un valido aiuto per grattugiare le rape, alimento consumato frequentemente dalle famiglie friulane.
L’attrezzatura agricola
Le fonti prese in considerazione, dal punto di vista sociale, riprendono purtroppo soltanto il settore mercantile – artigiano, ma non è detto che tutto ciò che è stato rinvenuto non possa essere stato usato anche dalle classi inferiori, visto che molti degli attrezzi ritrovati venivano utilizzati anche pochi decenni fa dalle famiglie contadine friulane nella zona pedemontana.
Le fonti segnalano gli attrezzi più rappresentativi:
- la zappa: (ligo, sappa, saponus, sarculus) il suo uso era connesso alle più svariate attività agricole: l’orticoltura e la viticoltura
- l’erpice: (grappus) uno strumento che serviva a rimuovere e a pulire lo strato superficiale del
- palum ferrum: molto diffusa la sua presenza, utilizzato per la fondazione delle costruzioni di tipo rurale e la realizzazione delle difese (steccati, palizzati).
Alcuni strumenti si sono rinvenuti nelle zone specifiche di mietitura e pulitura dei grani:
- la sesila e il seseluttus: ossia la falce messoria che venivano usate per mietere i cereali sotto la spiga
- il batale ad triturandum bladum: ossia il correggiato, usato per la trebbiatura.
Gli attrezzi per la fienagione sono stati ritrovati in gran numero e scontata,rispetto a questo genere di attività, la presenza della furca ad fenum. Assai diversa nella forma dalla furce ad letamen o ad finum.
Naturalmente i contadini in epoca medioevale non potevano non soffermarsi sul bosco, e proprio per il lavoro che si doveva svolgere all’interno di esso, non si può non prendere in considerazione una gamma di strumenti da taglio:
- l’azetta: attrezzo a manico lungo e lama pesante, utilizzata per il taglio degli
- la manarie e il massangus: a lama molto larga, con questo, invece, si procedeva al taglio delle legna.
Molti altri arnesi di più piccola taglia venivano adoperati, questo perché era usanza nelle famiglie friulane realizzare sia le costruzioni agricole in legno, che i più semplici manufatti di uso domestico a mano.
Non c’è quindi da meravigliarsi, se ancora oggi nelle più antiche cascine e stalle del nonno o del bis-nonno, si possano ritrovare vecchi arnesi arrugginiti risalenti ad epoche antiche. Le funzioni non sono di certo cambiate ed il ritorno alle vecchie usanze talvolta rende il lavoro più piacevole, sentendosi vicini con lo spirito a ciò che facevano gli abitanti di epoche lontane nella nostra regione.
Gemona del Friuli: il caso dell’Ospedale San Michele
La Magnifica Communitas Glemonae (Gemona del Friuli), come del resto l’intero Friuli, all’inizio del Quattrocento soffriva una lenta ed inesorabile decadenza: un processo continuo, su cui incisero notevolmente eventi di grave e particolare gravità.
Di certo non si possono prendere in considerazione né gli episodi di peste né i circoscritti, ma devastanti, disastri causati dalle piene del fiume Tagliamento, perché tutto ciò rientrava nella quotidianità di un periodo molto difficile, in cui epidemie e devastazioni si susseguivano stagione dopo stagione. Un evento, che rese ancora più complicata la situazione, fu senz’altro l’incendio, che nel 1437, distrusse la maggior parte dell’abitato dentro le mura, lasciando molte famiglie senza un tetto sopra la testa. Di portata eccezionale, che andò ad aggravare ancora di più la situazione economica e finanziaria della cittadina fu la carestia del 1432, le scorte non furono sufficienti a far fronte alla fame ed il governo Comunale fu obbligato a chiedere l’aiuto della Marchia e della Puglia. Naturalmente non tutte le fasce sociali ne furono colpite, c’era chi stava ancora bene, come gli artigiani, i proprietari di bottega ed i mercanti. Ma mentre le classi ricche e benestanti elevavano ad arte quella che per i nobili era soltanto una questione di sussistenza, i più miserabili rappresentanti della società gustavano la raffinatezza dei piatti, soltanto nei loro sogni tra un crampo di fame allo stomaco e un raffreddore mortale. E come rispondeva la collettività a tutto ciò? L’unico rimedio, in questo Friuli mal ridotto, era la carità.
“La sera poi andremo a l’ospitale
Dove saranno gionti altri furfanti
E quivi appresso un fuoco badiale
Allegri mangeremo in suoni e canti”
Così cantava Gian Pitocco alla sua Grisolina ne L’arte della furfanteria del Croce (45). I centri abitati rappresentavano per i poveri un forte richiamo, non solo perché in essi era più agevole fare appello alla pietà individuale e privata, ma anche per la presenza di istituzioni religiose e laiche, che perseguivano finalità caritative: le confraternite, le chiese e gli ospitali.
“La alimosina de la fava”
L’ospedale di Gemona del Friuli, esisteva già da vent’anni quando, nel 1279, venne fondata la confraternita di San Michele. Molto probabilmente fu l’importanza dell’ospizio a suggerire la fondazione di un’istituzione che ne regolasse il funzionamento. Da allora per ben cinquecento anni confraternita e ospedale rimasero saldamente legati, fino al 1784, quando i compiti organizzativi furono assunti da un Consiglio dell’Ospedale. (46)
Due dei principali atti, la carità e la preghiera, potevano essere esercitati senza alcun ostacolo, attraverso queste due organizzazioni spesso fisicamente vicine e complementari: l’ospedale e la chiesa. Alla confraternita spettava il compito di regolare i tempi e i modi delle pratiche devozionali.
Era decisamente complicata e sofferta la vita nel medioevo, si sperava sempre in un aiuto, pregando Dio. Grazie al grande lavoro svolto dalle confraternite, ricoveri ed ospizi, le distribuzioni annuali di cibo, che avvenivano solitamente una o due volte all’anno, davano un gran sostegno e un respiro di sollievo a tutte le famiglie gemonesi in grave difficoltà.
Queste spartizioni di viveri venivano denominate alimosina de la fava ( poiché si offriva zuppa di fave e pane) o alimosina di Sant Indreia ( dato che si svolgeva il 30 novembre, festa, appunto di San Andrea). Non c’è alcun accenno all’origine di questa tradizione, che, nonostante numerose difficoltà, rimarrà in vita sino al 1828. (47)
Si può benissimo immaginare che mendicanti e poveracci avessero bene impresso in mente il calendario delle varie elemosine e si spostavano da un paese all’altro anche tenendo conto di questo fatto. Certamente nel giorno di San Andrea si raccoglieva nel cortile dell’ospedale di San Michele una numerosa folla, formata da affamati di passaggio e gemonesi. Per la cittadina era un impegno notevole riuscire ad organizzare un evento del genere, le persone impiegate, la quantità di cibo offerto e la spesa comportavano delle ingenti uscite per il Comune.
Per fare un esempio di ciò che il governo Comunale andava incontro si pensi soltanto che nel 1439 si comprarono quattro staia e mezzo di fave a circa settanta soldi lo staio. Le fave, la carne di maiale, assieme alle cipolle ( 15 mazzi nel 1439) ed al sale, costituivano gli ingredienti di una robusta e densa minestra, che veniva cotta nei locali dell’ospedale in grandi caldaie (chaldergis). La zuppa di fave, appena cotta, veniva posta in mastelli ( semplis) e con un apposito mestolo (cop) distribuita agli affamati. Molto importante per questa gente era che anche i frati minori di Sant’ Antonio e le monache del convento di Santa Chiara ricevessero una porzione, condita soltanto con un filo d’olio. (48)
Coltivazione ed allevamento nel podere dell’Ospedale
Fortunatamente per Gemona del Friuli non c’erano soltanto spese e sacrifici per riuscire a sfamare tutta la popolazione povera. Secondo il Baldissera fu Bettuccia, vedova di Daniele del Lici, a donare all’ospedale nel 1398 “un terreno con casa, che è l’orto o brollo di San Michele subito fuori le porte”. (49) Un ampio spazio dedicato alla piantagione e alla coltivazione di diversi tipi di ortaggi ed erbe. Un vero tesoro per l’Ospedale che con il raccolto provvedeva alla preparazione dei pasti per gli ospiti malati.
Purtroppo non è stato possibile ricostruire un quadro completo ed attendibile di ciò che si coltivava nel podere, perché i registri accennano soltanto a quelle che richiedevano le spese. La produzione orticola, nonostante tutto, deve essere stata sufficiente alle necessità primarie, poiché non si acquistavano ortaggi, a parte discrete quantità di cèsari (piselli).
Il vigneto rivestiva un ruolo fondamentale per il notevole impiego di personale e materiali, all’epoca, del resto, il vino, rappresentava la principale voce nei commerci agricoli in territorio gemonese. Molto probabilmente a Gemona quasi tutte le famiglie, di qualsiasi rango, disponevano di un orto, un porcile e una vigna, indispensabili per un’alimentazione di sussistenza.
La base alimentare, come già affermato nei capitoli precedenti, erano i cereali. Nel giugno del 1437 si registra l’acquisto di una falce messoria, da utilizzare probabilmente per il taglio di uno dei cereali a semina autunnale (frumento, orzo, avena, segale). La fava, in particolare, era un alimento insostituibile per le sue elevate qualità nutritive.
Per quanto riguarda la stalla, annessa all’orto, si rileva in questi anni la presenza di uno o al massimo due capi di bestiame. Le mucche non erano utilizzate come animale da tiro, ma venivano sostituite dai buoni, animali più robusti e resistenti.
Nel porcile si allevavano uno o due maiali e la loro alimentazione era costituita dalla crusca e dal sorgo, integrati, oltretutto, attraverso il pascolo brado. La macellazione aveva luogo in dicembre o in gennaio. Non potevano mancare gli animali piccoli da cortile, infatti la presenza di galline libere era una fonte di produzione di uova importante per l’ospedale, anche se purtroppo il numero era esiguo e si doveva ricorrere molto spesso all’acquisto da produttori esterni.
Per Gemona l’ospedale e la chiesa furono punto di riferimento importantissimo per l’intera comunità, erano un aiuto fondamentale per tutta la povera gente che non riusciva a sopravvivere con ciò che guadagnava; erano l’ancora di salvezza per i mendicanti, gli ammalati e i viandanti. All’interno delle mura, assieme al maestoso Duomo della Maria Assunta, non potevano passare inosservati. Purtroppo però, con il devastante terremoto che colpì la cittadina nel 1976, l’anima e le pareti che racchiudevano i pensieri, le lacrime, i sorrisi di queste persone, furono rase al suolo. Assieme alle macerie e alle vittime se ne andò anche un pezzetto di quell’epoca in cui Gemona del Friuli fu un borgo medioevale fiorente e di immensa bellezza architettonica e di vita.
Conclusioni
“Intorno al tavolo si intrecciano lievi discorsi, si rinsaldano vecchie amicizie… se ne creano di nuove, il tutto condito dal sapore dell’attesa e dai profumi che vengono dalla cucina”. (50)
Il Friuli Venezia Giulia è stato, sin da tempi immemori una terra di grandi lavoratori, famiglie numerose, uomini e donne che, duri e severi in apparenza, dimostrano un carattere ospitale e generoso. Sono nata circondata da queste tradizioni, da questi modi di fare, da quei visi provati dalle lunghe giornate nei campi o, in tempi più recenti, nelle fabbriche.
E facendo un viaggio a ritroso nel Medioevo, immagino i miei avi, stanchi e senza forze, trovare ristoro e un po’ di pace nell’unico angolo riscaldato della loro umile dimora, la cucina. Era proprio all’interno di queste quattro mura che tutta la magia di una famiglia che viveva con il minimo indispensabile, si avverava. Fossero stati soltanto in due, marito e moglie, o una famiglia numerosa, nulla importava, sedersi al tavolo tutti assieme e condividere un pasto, scambiandosi pensieri e parole, era il momento più sentito della giornata.
Ciò che viene analizzato in queste pagine rappresenta proprio ciò che si poteva gustare su queste tavolate, ciò che veniva offerto all’ospite e alla relativa famiglia. Come si faceva per procurarsi gli ingredienti, come coltivarli e mantenerli nel tempo. È stato un tuffo meraviglioso nel passato, ripescando, in documenti e citazioni, attimi di vita e tradizioni ancora vive nella memoria dei friulani e non solo.
Purtroppo però non si vive di illusioni, la cultura gastronomica dei secoli passati si può studiare e ricostruire con una certa credibilità, ma il passaggio al piano pratico dell’esperienza (le sensazioni individuali dei sapori) appare totalmente troppo ambizioso. I tempi sono cambiati, il mondo si sta evolvendo con una rapidità tale che, generazione dopo generazione, il modo di vivere cambia radicalmente. La tecnologia fa passi da gigante in ogni ambito e per non rimanere obsoleti è necessario adeguarsi.
Per andare più nello specifico e ritornare sull’argomento alimentazione, si nota un cambiamento anche nell’oggetto stesso (i prodotti non sono più quelli di mille anni fa, anche se portano lo stesso nome) e, quel che più importa, è cambiato il soggetto: i consumatori non sono più gli stessi e la loro educazione sensoriale è enormemente diversa. Sul piano intellettuale quindi, la full immersion nel passato in qualche modo può funzionare; sul piano emozionale è tecnicamente impossibile. Nel Medioevo era “normale”, per noi non lo è più. In ogni caso ci si deve accontentare di un’approssimazione, un po’ come quando, viaggiando in paesi lontani, cerchiamo di comprendere, ma ovviamente non possiamo condividere, culture diverse dalla nostra.
Ancora più ambizioso è ricostruire la ricetta “autentica”, difficile da applicare, ma ancora più complicata è la comprensione, visto che l’arte della cucina è essenzialmente l’arte dell’invenzione. Molti dei piatti friulani e degli ingredienti citati sono ancora oggi d’uso comune nelle cucine friulane, ma è chiaro che i sapori, gli ingredienti e la mano della donna che li cucina non sono più quelle di un tempo passato. Molte rievocazioni medioevali, cercando invano di riproporre piatti citati in qualche ricettario medioevale ritrovato nella biblioteca comunale, non riescono a far rivivere al visitatore la vera essenza di ciò che avrebbe potuto essere, per esempio, un vero piatto di “fagioli e porco”.
La quantità incredibile di varianti che si trovano per vivande dal medesimo titolo, non è solo espressione di varietà regionali o locali, che pure sono importanti nella definizione dei modelli di cucina, ma è anche la metafora del principio-base che ogni bravo cuoco, non solo nel medioevo, dovrebbe seguire: “Per queste cose dette sono”, recita un testo italiano del Trecento, “il discreto cuoco potrà in tutte le cose essere dotto, secondo la diversità dei regni, e potrà i mangiari variare o colorare secondo che a lui parrà”. (51)
L’arte della cucina è tradizione, la tradizione è memoria e la memoria è ciò che ognuno di noi dovrebbe tenersi stretta ai ricordi per poterla offrire a quelle generazioni che, correndo verso un futuro asettico e senza emozioni, vivono senza orgoglio ed ammirazione per ciò che il passato ci ha lasciato.
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Ylenia Lepore, nata a Gemona del Friuli nel 1991. Laureata in Scienze del Turismo Culturale, appassionata di viaggi, cucina e medioevo. Volontaria e direttrice artistica per tre anni alla Pro Loco Pro Glemona per l’organizzazione della rievocazione medioevale Tempus est Jocundum. Affascinata dalla storia e lettrice accanita, attualmente tirocinante come addetta ai servizi turistici.