Le istituzioni politiche di uno stato tardo-medievale: Genova nel Quattrocento

Le istituzioni politiche di uno stato tardo-medievale: Genova nel Quattrocento di Gabriele Ciaravolo

Il Comune di Genova nel Quattrocento costituisce, per molti storici, una variante impazzita rispetto al quadro generale dell’Italia di XV secolo, per molti versi estranea ai processi di riassestamento politico-territoriale che avevano luogo in buona parte della penisola. Infatti, di fronte al quadro che tende a dividere le realtà italiane del Rinascimento tra stati regionali in via di consolidamento e realtà minori incapaci di proiettarsi oltre il ristretto ambito cittadino, Genova costituisce un’eccezione, rimanendo ai margini di questi processi, disponendo sì di un proprio Dominio, ma dall’estensione relativamente ridotta e in larga parte irriducibile all’effimera autorità centrale, preda delle grandi famiglie signorili locali.
A tutto ciò deve aggiungersi la straordinaria instabilità politica genovese, la più alta dell’Italia del tempo, che porta a continui e repentini cambi di governo, perennemente instabili, al punto che si calcola che tra il 1300 e il 1528 Genova avrebbe conosciuto ben settantadue tra rivolte e cambi di governo, con una durata media per dogato che, anche nei casi più fortunati, non superò mai gli otto anni. Scrive con una certa ironia Riccardo Musso che, nonostante la tradizione storiografica sia solita indicare il periodo della storia genovese che va dal 1339 al 1528 come quello dei ‘dogi perpetui’, “nell’Italia del tempo non vi fu mai alcun potere meno ‘perpetuo’ di quello dei dogi genovesi”. A fronte del quadro sopra sommariamente delineato si può in un certo senso comprendere il disinteresse di gran parte della storiografia genovese in relazione al periodo qui preso in esame, soprattutto se rapportato ai fasti della Superba nei secoli precedenti e alla sua centralità finanziaria entro il sistema Asburgico in quelli successivi; senza dimenticare che, più in generale, gli studi sul capoluogo ligure in età medievale sono sempre stati restii a soffermarsi sulle vicende interne della Repubblica, affascinati più dalla sua vocazione mediterranea, dai suoi traffici e dai suoi commerci, che dalla complessità della vita politica e istituzionale della città. E se questo è vero per l’epoca più florida del Comune, vale a maggior ragione per un periodo così complesso e tormentato come quello che va dalla deposizione del Boccanegra alle riforme Doriane. Roberto Sabatino Lopez, Jacques Heers e Geo Pistarino, tutti sembrano concordi nel rievocare lo “scarso senso dello stato” che avrebbe contraddistinto il cittadino genovese, fino ad arrivare alla scorata constatazione di Gabriella Airaldi secondo cui “l’assenza dello stato” sarebbe “il carattere primario della storia genovese”.
Senza rovesciare questo consolidato paradigma storiografico, si potrebbero nondimeno porre in evidenza alcuni aspetti della Genova quattrocentesca, realtà molto più vivace e dinamica di quanto comunemente non si pensi, sia dal punto di vista socio-economico che da quello politico-istituzionale. La Superba, nel XV secolo, è tra le città più densamente abitate d’Europa, complice anche e soprattutto la massiva immigrazione di cui è stata oggetto dal contado, che le permette in tempi relativamente brevi di riprendersi dal trauma della grande peste del 1348. Essa, con una popolazione stimata da Heers tra le 80 e le 100mila unità, raccoglieva oltre i 2/3 della popolazione soggetta alla giurisdizione del Comune. Le case, alte e slanciate, addossate le une alle altre per sfruttare quanto più possibile lo spazio abitativo, andavano a creare vie strette e tortuose, quei caruggi che sono ancora oggi tra i simboli della città, e che vedevano la fervente attività economica di artigiani, mercanti, uomini d’affari e molti altri ancora, ciascuno partecipe, a modo suo, della ‘rivoluzione del capitale’ di cui è protagonista la città ligure nell’età del rinascimento. Infatti, se pure è innegabile l’atrofizzarsi del commercio estero di Genova, irrimediabilmente compromesso dall’avanzata turca nel mediterraneo orientale e nel Mar Nero, è altresì vero che i genovesi aumentano i loro traffici ad occidente, reperendo qui molte delle risorse un tempo importate dal Levante. Inoltre, ed è il dato forse più rilevante, i cittadini della Superba perfezionano in questo periodo le raffinate tecniche finanziarie che avevano messo a punto fin dal XII secolo. Vengono messe a punto le lettere di cambio e si fa un grande affidamento sui pagamenti effettuati in giroconto, che molti tra i più ricchi uomini d’affari genovesi preferiscono ormai al pagamento in contanti. Proliferano le banche, al punto che sempre Heers per il decennio 1450-60 ne contava ben venticinque, e molti tra i più importanti mercanti della città affidano il proprio denaro a questi istituti, o se ne fanno essi stessi promotori. Non c’è ancora una vera e propria specializzazione nelle attività finanziarie, e infatti la figura del grande banchiere è spesso accostata a quella del mercante, e viceversa, come nel caso, celebre, dei fratelli Filippo e Federico Centurione, tra gli uomini più ricchi della Genova del tempo.
Dal punto di vista politico, come si sa, Genova è retta da un dogato ‘popolare’ dal 1339, anno del rinnovamento istituzionale promosso da Simone Boccanegra, che modificò radicalmente l’assetto del Comune, in quell’anno retto dal capitanato congiunto di Raffaele Doria e Galeotto Spinola. Da quel momento principale carica del Comune diventa così quella di Dux Ianuensium et Populi defensor, titolatura che già di per sé riflette parte della complessità della nuova magistratura. Il doge infatti è al contempo rappresentante della totalità del corpo cittadino, la cui autorità si estende al Comune e alla civitas nella sua interezza, ma anche protettore del Popolo, di quel soggetto politico così variabile e complesso che già in molte città d’Italia aveva fatto sentire la propria voce, ergendosi a difesa degli interessi dei ceti produttivi contro i soprusi e le prevaricazioni del vecchio ceto dirigente, spesso coincidente con la vecchia aristocrazia. La contraddizione tra queste due anime può in parte contribuire a spiegare l’instabilità della carica dogale, che perde ben presto i suoi connotati originariamente popolari, diventando appannaggio di poche famiglie dalla fisionomia ormai chiaramente nobiliare, molto più vicine all’aristocrazia feudale che a quel popolo di cui fanno ormai parte più di nome che di fatto. Guarchi, Montaldo, Adorno e Fregoso, sono questi i nomi dei ‘cappellazzi’, che nel XV secolo esercitano un vero e proprio monopolio sul dogato.
Nonostante l’accesa competizione per l’ufficio dogale, molto generici sono i suoi poteri, e ancora oggi si dibatte accanitamente sulla loro effettiva portata, nonché sulla concreta possibilità da parte del doge di influenzare le decisioni delle altre magistrature cittadine. Una spiegazione verosimile a questa controversia potrebbe rintracciarsi nel fatto che, come evidenzia R. Musso, il potere dogale non era stabilito all’inizio del mandato, ma si definiva giorno per giorno, attraverso una lunga e continua contrattazione con i cittadini, dipendendo così dall’effettiva forza politica del doge di turno, la cui presa sulle istituzioni del Comune variava a seconda del suo prestigio e della sua capacità contrattuale. Pertanto un doge debole, senza grandi appoggi in città, privo di una propria forza militare e di una base economica in grado di sostenere le sue ambizioni, difficilmente poteva condizionare le più importanti cariche cittadine, mentre al contrario un doge forte, con una nutrita schiera di sostenitori, una consistente base patrimoniale e un proprio seguito di armati, era spesso in grado di imporre le proprie decisioni all’intero corpo politico della Superba.
Sono incerte, tutt’oggi, le modalità di elezione del doge, e per quel che ne sappiamo praticamente mai rispettate. Secondo la ricostruzione delle regulae cittadine fatta dal Giustiniani, importante storico della Repubblica vissuto a cavallo tra XV e XVI secolo, vacante il dogato i dodici Anziani avrebbero dovuto eleggere quaranta cittadini popolari, 4 per compagna, i quali avrebbero dovuto a loro volta nominare ventuno cittadini popolari, i quali avrebbero eletto altri 10 cittadini (sempre rigorosamente popolari), che avrebbero infine proceduto alla designazione del doge con una maggioranza di 7 voti su dieci. Solo Barnaba de Goano, effimero detentore della carica per alcuni mesi nel 1415, sarebbe stato eletto rispettando questa complessa procedura, volta a tutelare il processo elettivo da ogni ingerenza esterna, che aveva in realtà larghissima parte nella prassi concreta d’insediamento del nuovo doge. L’assunzione del dogato, infatti, si configurava spesso e volentieri come un atto di forza a tutti gli effetti, solo in seguito legittimato da un’apposita assemblea elettorale messa in piedi il più rapidamente possibile dall’aspirante doge, composta perlopiù da amici e partigiani del suddetto, che così poteva ammantare di un velo di costituzionalità il suo colpo di stato. Questa profonda discrasia tra la normativa ‘costituzionale’ e la pratica effettiva è, del resto, una costante della realtà politica genovese, soprattutto per quel che afferisce il dogato. Basti pensare che dei rigidi requisiti previsti dalle regulae del 1413 per tutti coloro che aspirassero alla carica, e cioè un’età minima di 50 anni al momento della nomina, la cittadinanza genovese e l’appartenenza alla fazione popolare e al partito ghibellino, solo l’origine cittadina e la qualifica di popolare – per quanto eminentemente nominale – erano rispettate. Molti dei Fregoso ad esempio non nascosero le loro simpatie per la pars guelfa, motivata dai legami e dagli interessi politici ed economici con i Fieschi, leader riconosciuti di quel che rimaneva del ‘guelfismo’ genovese, il cui sostegno militare era di frequente fondamentale per la conquista e, soprattutto, il mantenimento del dogato. Discorso simile vale per l’osservanza della soglia anagrafica, anch’essa disattesa il più delle volte, dal momento che, come già detto, i dogi prendevano possesso della carica manu militari, ed erano quindi, nella maggior parte dei casi, nel pieno del loro vigore fisico, con un’età media (al momento della prima assunzione dell’ufficio) che si assestava attorno ai 32-33 anni.
D’altro canto, secondo Pacini, le regulae stesse non erano un qualcosa di fisso e intoccabile, ma venivano spesso rimaneggiate di volta in volta dai diversi dogi, che così facendo cercavano di accrescere i propri spazi di manovra, anche se, è bene sottolinearlo, il doge avrebbe dovuto rispettare scrupolosamente quanto da lui stesso stabilito, senza considerare che i principi guida delle varie normative statutarie genovesi non potevano essere in alcun modo modificati, e nessuno si sarebbe mai sognato di farlo senza incontrare un’accanita resistenza da parte del popolo nella sua interezza, fermamente contrario a qualsiasi, possibile, deriva tirannica. La regolamentazione del potere del doge, così profondamente sentita per tutto il Quattrocento, rispondeva appunto a questa finalità, e fin dalle regulae del ’63 era affermato recisamente come queste fossero state pensate al fine di evitare che “Dux in tirannidem declinaret”, e non è un caso che, come scrisse a suo tempo Ernesto Sestan, Genova rappresenti una rilevante eccezione rispetto ai processi di insignorimento cui furono sottoposte realtà simili. Sempre Pacini riporta come esempio paradigmatico di quanto qui detto il diciottesimo capitolo delle regulae del 1413, che vietava espressamente di “vocare dominum ducem segnor”, per cui era consentito “solummodo dicere messer lo duxe”. La preservazione della libertas cittadina passava così anche attraverso gli epiteti e i formulari con cui rivolgersi alla suprema magistratura del Comune, che nella costituzione cittadina trovava delle barriere insormontabili ad un esercizio arbitrario delle sue prerogative.
Il potere del doge, quindi, non era assoluto, e la normativa genovese prevedeva che fosse esercitato sempre di concerto con le magistrature cittadine, le quali rispondevano nella loro composizione a complesse logiche fazionarie interne al Comune, che prevedevano un delicato equilibrio tra i ‘colori’ cittadini, in modo che tutte le cariche pubbliche fossero ripartite equamente tra Bianchi (ghibellini) e Neri (guelfi), tra Nobili e Popolari, a loro volta divisi tra mercatores (che in un contesto diverso ma più conosciuto come quello fiorentino potremo indicare come ‘popolo grasso’) e artifices (definibile, secondo la stessa logica, come ‘popolo minuto’, pur con i dovuti distinguo). Si tratta di categorie molto sentite nella realtà politica genovese, anche a prescindere dal loro effettivo riscontro sul piano concreto. Se, infatti, la contrapposizione tra nobiltà e popolo e, al suo interno, tra mercanti ed artefici, era effettivamente percepibile nella vita socio-economica della Superba, non così si poteva dire per la vecchia dicotomia guelfi-ghibellini, ormai retaggio di un passato lontano, che però, forse anche per questo, si presenta sotto forma di nomi ancora prestigiosissimi, di abitudini dure a morire e ormai consolidate per antica tradizione. Si è Bianchi o Neri per lascito familiare, per frequentazioni di vecchia data e per contingenza politica. Non ci si fa troppi problemi ad abbandonare la propria livrea per un’altra, e quando parliamo di guelfi e ghibellini nella Genova del pieno quattrocento dobbiamo tenere ben presente che sono etichette svuotate di significato, senza alcun legame con le parti politiche del Duecento se non nei tronfi proclami di quelle famiglie che, come ad esempio i Fieschi, si presentano tutrici della pars guelfa per un’inveterata eredità familiare. Del resto, è lo stesso rilievo istituzionale assunto da queste parti che, in un certo senso, ne mina la carica eversiva. Dando ad ognuna delle fazioni cittadine una parte nelle magistrature del Comune sembra che i genovesi siano riusciti ad impedire che queste si infiltrassero nell’attività di governo. Insomma, il cittadino ricopriva una carica in quanto Bianco o Nero, Nobile o Popolare, e così, istituzionalmente riconosciuti, i colori cittadini venivano cooptati entro l’ordinamento dello stato, che in questo modo si manteneva – in maniera solo apparentemente paradossale – impermeabile all’influenza politica delle fazioni.
L’Anzianato, principale magistratura cittadina insieme a quella dogale, non faceva eccezione rispetto al quadro appena delineato. Gli Anziani infatti, eletti in numero di dodici per un periodo di quattro mesi, rispondevano pienamente all’intricato gioco di equilibri tra le fazioni cittadine, dividendosi tra sei nobili e sei popolari, questi ultimi ripartiti ulteriormente in una metà di mercatores e una di artifices. L’Anzianato così, come scrive Pacini, diventa l’ambito privilegiato dove si esplica il meccanismo delle rappresentanze cetuali, configurandosi come un’istituzione di eccezionale e sorprendente stabilità nella convulsa vita politica genovese, estraneo ai numerosi rivolgimenti e cambi di regime che, ad una visione attenta, sembrano circoscriversi fondamentalmente attorno al solo ufficio dogale. Diventa così inevitabile chiederci il perché di questa accesa competizione per il dogato, tanto più che, come già accennato, i suoi poteri sono lungi dall’essere ben delineati e molto lontani dal costituire una presa diretta sulla città. O forse no?
Il rapporto tra il doge e gli Anziani è una delle questioni più delicate e complesse di tutta la storia genovese, e la storiografia di riferimento, come spesso accade, si divide in maniera alquanto perentoria tra coloro che ammettono un ascendente decisivo – se non preponderante – del doge nei confronti dell’Anzianato e coloro che invece ne negano recisamente ogni influenza. Tra questi ultimi non si può non menzionare Christine Shaw, illustre studiosa statunitense che, dedicando diversi lavori a Genova, ha sicuramente l’innegabile merito di aver fornito un’interpretazione piuttosto originale della politica genovese, su cui occorre soffermarsi. La sua tesi più ardita consiste infatti nell’evidenziare il ruolo propositivo e decisionale del collegio degli Anziani a scapito di un doge che, nella sua versione dei fatti, ha scarsissime possibilità di far valere un peso politico a conti fatti molto più presunto che fattuale. Vani, a suo dire, sarebbero stati i tentativi del doge di turno di mettere voce sull’elezione degli Anziani, inevitabilmente risoltisi in dei nulla di fatto, come nel caso di Pietro Fregoso che, nel 1454, avrebbe cercato inutilmente di fare eleggere uomini a lui fedeli e/o comunque compiacenti, dovendosi arrendere di fronte al rischio della piazza, che sarebbe sicuramente insorta contro un doge che avesse così palesemente snaturato la legislazione cittadina, aggirandola per il proprio tornaconto personale.
La questione, che potrebbe a prima vista essere relegata a dotta disputa accademica più o meno fine a sé stessa, è in realtà di fondamentale importanza perché, secondo la normativa genovese, il doge poteva poco e nulla senza il consenso degli Anziani. Determinare se il doge influenzasse la nomina dell’Anzianato significa dunque determinare la sua forza politica effettiva e la capacità (o meno) di influenzare le magistrature della Superba.
D’altra parte, per quanto stimolanti le considerazioni di Shaw, e fuor di discussione il suo fondamentale contributo alle dinamiche qui sommariamente esposte, non mi sembra in realtà che vadano a confutare le interpretazioni più ‘tradizionali’, pur stimolando il dibattito e rendendo sicuramente necessario uno studio più approfondito sulle istituzioni genovesi tardo-medievali. Per fare un esempio concreto, si torni al dogato di Pietro Fregoso, per cui Shaw sottolineava l’impossibilità di immettere nel consiglio degli Anziani uomini di sua fiducia. Ebbene, quello stesso dogato, riportano le fonti, fu costruito sulla base di un accordo preventivo tra il Fregoso e i Fieschi, in base a cui il futuro doge si impegnava a garantire agli alleati delle quote in tutte le magistrature cittadine, il che non era affatto una novità, dal momento che anche alcuni anni prima Raffaele Adorno aveva mantenuto il dogato in virtù di un’intesa con la pars fliscana che le assegnava la metà degli uffici. È evidente, quindi, che un’estraneità totale del doge rispetto alle procedure elettorali difficilmente si potrebbe conciliare con queste convenzioni stipulate extra leges. La vera domanda, a questo punto, è se anche l’Anzianato fosse oggetto di queste spartizioni, che alcuni potrebbero sostenere essere limitate alle magistrature ‘minori’ e agli uffici delle Riviere.
Certo, non si può rispondere alla domanda direttamente, ma ci sono ottime ragioni di credere che anche gli Anziani, nel caso di pattuizioni, dovessero rispondere a quanto stabilito negli accordi tra il doge e gli schieramenti nobiliari che decidevano di appoggiarlo. D’altra parte, le (pur complesse) modalità d’elezione presentate da Pacini non lascerebbero adito a dubbi circa il controllo che il doge aveva sulla loro nomina. Sarebbero stati infatti il doge e gli Anziani uscenti a scegliere otto elettori di prima istanza, i quali avrebbero a loro volta nominato altri otto elettori di seconda istanza, che avrebbero infine proceduto ad eleggere i nuovi Anziani. La preponderanza del doge è qui evidente nel fatto che, a differenza degli altri votanti disponeva, per ragioni di prestigio e di effettivo potere, di ben due voti, esercitando così un effettivo controllo sull’intero processo elettorale, senza considerare che, essendo designati gli Anziani con una maggioranza di sette voti su dieci, il doppio voto del doge si rivelava a dir poco determinante.
Più in generale una rapida rassegna delle altre cariche della Repubblica mette in rilievo un’influenza dogale che pare sempre più indubitabile. Basti pensare al ruolo dei vice-dogi, formalizzato dalle stesse regulae cittadine. Essi infatti, nominati direttamente dal doge, avevano il compito di redigere dei libri conestagiorum, contenenti gli elenchi dei cittadini “ad negotia apti”, legittimati cioè a ricoprire un ufficio nell’ordinamento comunale, sulla base di nominativi forniti dai conestabiles, responsabili delle conestagie, ripartizioni demo-topografiche in cui era diviso il Popolo, i quali a loro volta erano eletti dal doge e dagli Anziani tra candidati scelti all’interno delle singole conestagie da commissioni composte espressamente da membri fedeli “domini ducis et status populi”. Pertanto, le fondamenta stessa dell’architettura dello stato venivano a dipendere strettamente dal doge, il quale agiva spesso impunito controllando anche il collegio dei sindacatori, tramite i soliti meccanismi elettorali, di cui riusciva agevolmente ad oliare i gangli. L’impatto potenzialmente destabilizzante sul dogato di questa vecchia magistratura comunale, la quale aveva il compito di sorvegliare sul corretto agire dei funzionari pubblici, era così ridotto al minimo, e lo stesso potrebbe dirsi relativamente alle diverse assemblee del Comune. Anche qui infatti, per quanto fosse incredibilmente confuso e complesso l’ordinamento consigliare genovese, possiamo ugualmente notare come la loro composizione fosse intimamente legata alle volontà del doge e del gruppo dirigente, soprattutto nel caso di quei consigli ristretti che, ormai una costante nella politica dell’epoca, andavano, nel caso specifico della Superba, a garantire i poteri del doge, ma anche a circoscriverne la portata.
Infatti, sebbene molto di quel che abbiamo esposto sembrerebbe testimoniare un arbitrio quasi assoluto del doge, non vi è nulla di più lontano dalla verità. Nonostante tutto, in fin dei conti, le regulae facevano il loro lavoro, e i rigidi confini che avevano stabilito al potere dogale ne riequilibravano la portata, impedendo qualsivoglia deriva signorile o pseudo tale. La stessa autorità giuridicamente riconosciuta al doge era piuttosto limitata, e anche nel caso del conferimento di una balìa speciale (spesso strumento, nel resto della penisola, per lo sviluppo di regimi personali), questa veniva assegnata al doge e agli Anziani, senza cioè una preponderanza giuridica del primo, la cui autorità veniva perciò sempre esercitata, come abbiamo visto all’inizio di questo articolo, insieme alle altre magistrature cittadine, in primo luogo proprio l’Anzianato. La sua influenza su quest’ultimo, del resto, così come sulla maggior parte degli uffici pubblici, è solo a prima vista in contraddizione con l’impossibilità per il doge di imprimere una radicale svolta autocratica alla repubblica.
Per quanto potesse avere voce in capitolo sulla composizione dei collegi questi continuavano ad esistere, e ad essere dotati di un’autorità effettiva, indipendente da quella dogale, la quale era, a conti fatti, incredibilmente contingente, legata più al detentore occasionale della carica che alla carica in sé. In questo modo, si spiega l’accesa competizione per il titolo di doge, che prometteva enormi vantaggi e possibilità per coloro che si fossero mostrati sufficientemente forti ed autorevoli, ma anche una perenne instabilità, oggetto degli appetiti dei cappellazzi, che attraverso il loro controllo sul Comune accrescevano le proprie risorse e, soprattutto, la loro influenza politica. Tuttavia, era molto raro che un doge riuscisse a governare stabilmente la Superba, epiteto quanto mai calzante in questo secolo per la riottosità dei suoi cittadini. I frequenti abboccamenti con le partes aristocratiche testimoniano la debolezza dei dogi, incapaci di sostenersi con le loro forze, bisognosi dell’appoggio degli scherani delle gentes nobili, che ne facevano incetta nelle Riviere. Lo stesso Pietro Fregoso, forse il doge più autorevole di tutto il Quattrocento genovese insieme allo zio Tommaso, non poté esimersi dall’accordo con i Fieschi, al punto che, quando questi gli negarono il proprio sostegno, la fragile egemonia del Fregoso venne inevitabilmente meno.
Infine, per concludere, un ultimo, interessante aspetto su cui si mostrano sostanzialmente d’accordo tutti gli storici che si sono occupati della Genova dell’epoca è l’incredibile tenuta dell’ordinamento comunale, tanto più sorprendente a fronte del caos politico che dilagava in città; un caos che, però, riguardava esclusivamente la carica dogale. È qui, infatti, che converge la conflittualità cittadina, il che conferma da un lato la perdurante vitalità di cariche come l’Anzianato, e dall’altro il vorace appetito dei magnati genovesi, desiderosi di controllare la Superba attraverso l’ufficio di doge. Gli Anziani quindi, nonché i membri dei diversi offici dell’amministrazione pubblica, agiscono nel concreto in maniera piuttosto autonoma ed indipendente dalla volontà del doge, la cui presa sulla città, per quanto potenzialmente notevole, rimane in larga parte teorica, condizionata a tutta quella lunga serie di accidenti cui abbiamo già citato in precedenza.
Pertanto, in estrema sintesi, volendo chiudere in termini propositivi si può sicuramente dire che il quadro politico-istituzionale genovese, lungi dall’essere una realtà ben definita e dai contorni netti, è difficile e complesso, segnato da incredibili quanto affascinanti contraddizioni. La continua dicotomia tra una costituzione ideale, cui si ispira la prassi politica, e la sua declinazione effettiva, viziata da influenze esterne e da una spregiudicata lotta per il potere, è uno degli aspetti sicuramente più interessanti della Genova quattrocentesca, su cui ancora molto si potrebbe – e dovrebbe – dire. È un campo d’indagine ancora aperto, e molto ancora resta da indagare sui processi abbozzati in queste pagine, che spero possano convincere il lettore della necessità di uno studio approfondito sull’argomento.

Riferimenti bibliografici:

Airaldi, G., Genova e la Liguria nel medioevo, Torino, UTET, 1986.
Borlandi, A., “Janua, Janua Italiae”: uno sguardo al quattrocento genovese, in Archivio storico italiano, gennaio-marzo 1985, Vol. 143, No. 1 (523), pp. 15-38, Casa Editrice Leo Olschki s.r.l.
Fiaschini, G., A proposito di Genova e Venezia tra Tre e Quattrocento, in Archivio Storico Italiano, 1970, Vol. 128, No. 3/4 (467/468), Casa Editrice Leo Olschki s.r.l., pp. 335-344.
Heers, J., Genova nel Quattrocento, Milano, Jaca Book, 1984.
Musso, R., Lo stato cappellazzo. Genova tra Adorno e Fregoso (1436-1464), in Studi di Storia medioevale e di diplomatica, 17 (1998), pp. 223-288.
Pacini, A., La tirannia delle fazioni e la repubblica dei ceti : vita politica e istituzioni a Genova tra Quattro e Cinquecento, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 18 (1992), pp. 57-119.
Shaw, C., Principles and Practice in the Civic Government of Fifteenth-Century Genoa in Renaissance Quarterly , Vol. 58, No. 1 (2005), The University of Chicago Press on behalf of the Renaissance Society of America, pp. 45-90,
Id., Genova, in Lo stato del Rinascimento in Italia, a cura di A. Gamberini e I. Lazzarini, Viella, 2014, pp. 203-217.

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