Le origini medievali delle terre comuni

Pergamena della Regola di Cortina d’Ampezzo

Le origini medievali delle terre comuni di Alfredo Incollingo

Dagli albori dell’età moderna gli Stati nazionali e la giurisprudenza hanno tentato di eradicare tutte le forme di proprietà che non si conformassero alla concezione borghese e individualistica del possesso. La norma n. 544 del Codice Civile francese del 1804 così recitava: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Era inaccettabile, alla luce del diritto moderno, qualsiasi visione comunitaria del possedere. Le proprietà collettive e i diritti di uso civico della terra furono considerati residui di età arcaiche e illiberali. Sul finire del Settecento, soprattutto nel Regno delle Due Sicilie, si iniziò a legiferare per eliminarle dai catasti.
La natura delle terre comuni
Le proprietà collettive presuppongono un’antropologia differente, che pone la comunità e non l’individuo in relazione con la terra. Un bosco o un pascolo può essere di esclusivo godimento di una collettività, che vi esercita un utilizzo razionale volto ad assicurare la fertilità del suolo. Vi era in gioco, in tempi passati, la sopravvivenza di villaggi e città e, oggi, la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. La legislazione più recente in materia, come la legge n. 168 del 20 novembre 2017, ha messo in luce la valenza ecologista delle proprietà collettive e degli usi civici della terra.
Reperti dell’antichità
I demani comuni hanno origini antiche: li si vuole di discendenza romana o, secondo la pandettistica tedesca, vengono considerati un lascito dei popoli germanici. Entrambe le culture conoscevano forme di gestione comunitaria della terra per sopravvivere in territori difficili e disabitati. Anche gli italici, soprattutto gli Etrusci, annoveravano nel loro diritto la gestione collettiva del suolo. In Germania, per esempio, le tribù traevano le risorse naturali nelle foreste circostanti i loro villaggi, indispensabili per tutti i singoli membri della comunità. La proprietà privata, come noi oggi la concepiamo, non poteva emergere spontaneamente, perché avrebbe limitato la disponibilità di beni per il resto della tribù. Nell’antica Roma, in età repubblicana, quando si fondava una nuova colonia, si permetteva ai coloni il libero utilizzo di una parte delle terre pubbliche, sottoforma di ager compascuus, ad esempio, affinchè provvedessero autonomamente ai loro fabbisogno.
Origini medievali
In alcune regioni dell’Impero Romano, soprattutto in Italia, queste istituzioni giuridiche sopravvivvero nella Tarda Antichità e furono ereditate dall’Alto Medioevo come consuetudini locali, consolidate e in grado di resistere alle prevaricazioni dei signori feudali. Le proprietà collettive laziali o della dorsale appenninica si svilupparono in piena età feudale, a partire dal IX secolo, quando i vassalli del papa o dell’imperatore concedevano ai loro sudditi il diritto di usufruire liberamente di una parte dei feudi. Dove le proprietà collettive avevano un’orgine ben più antica, presentavano sistemi di gestione della terra già formalizzati, garantendo la piena autonomia delle comunità rurali. È il caso, ad esempio, della Regola di Cortina d’Ampezzo, in Veneto, il cui statuto risale però al XII secolo. I feudatari tentarono di usurparle per riportare sotto il proprio controllo i villaggi indipendenti. Nella maggior parte dei casi le terre collettive si svilupparono a partire da concessioni fatte direttamente dal feudatario e da monasteri. Una delle maggiori preoccupazioni dell’aristocrazia feudale era la sopravvivenza dei coloni e della servitù della gleba, soprattutto in periodi di carestia o durante le epidemie. Affinchè costoro provvedessero autonomamente alla propria sussistenza, gli abati e i feudatari erano soliti concedere parte del proprio patrimonio fondiario alle comunità rurali. Queste potevano così usufruire liberamente dei beni naturali, come assegnatari del dominio utile del fondo. Il dominio nominale, di fatto, rimaneva prerogativa del feudatario o del monastero. Si parla tuttora di legnatico, se gli intestatari della proprietà collettiva godono del diritto di raccogliere legna; pascolatico, se è stato concesso il libero pascolo; fungatico e seminatico, per la raccolta di funghi o per la semina. Così la consuetudine, consolidata nel tempo, e una gestione razionale e comunitaria della terra permise alle comunità dell’Appennino centrale o dell’arco alpino di sopravvivere per secoli a difficili condizioni climatiche e ambientali.
Bibliografia di riferimento
Grossi Paolo, Un altro modo di possedere: l’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano, 2017;
Marinelli Fabrizio, Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni, Pacini Editori, Pisa, 2016;

Alfredo Incollingo
Alfredo Incollingo (Isernia, 1991), giornalista pubblicista, è laureato in Lettere presso la Sapienza – Università di Roma. Appassionato di storia medievale, è autore di saggi e di articoli a tema storico.
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