L’esperienza bellica aretina nel medioevo: una sintesi di Simone De Fraja
Giochi di potere e strategie militari sul territorio di Arezzo
“Di notte, con iscale, entraro in Cortona”: era il primo giorno del febbraio 1258.
Gli Aretini guidati dal vescovo Guglielmino Ubertini, inizialmente aderente al partito guelfo, agevolati da alcuni cittadini, si diressero verso il Palazzo comunale di Cortona, impadronendosi delle strade della città immersa nel sonno prima di procedere al saccheggio. Fu una azione repentina e ben pianificata che permise l’assoggettamento ad Arezzo dell’importante centro nella strategica Valdichiana. L’azione rientra, quale elemento culminante, nell’ampio quadro di recupero e controllo delle terre del contado aretino posto in essere dall’Ubertini nel giro di un triennio (1255-1258) attraverso le principali vallate.
Nella città di Arezzo, nel 1287, il popolo aretino, insorgendo contro i magnati, riuscì ad instaurare un governo guelfo, filo-fiorentino; come risposta i nobili si schierarono dalla parte del vescovo Ubertini che li condusse tutti, Guelfi e Ghibellini, ad un vero colpo di governo, esautorando ed annientando il Governo delle Arti. Dopo poco tempo, il vescovo esiliò i nobili Guelfi e si fece proclamare signore della città.
Come risposta Firenze, alleata del Regno di Napoli, strinse alleanza con Lucca, Siena, Pistoia e con gli altri Comuni guelfi dichiarando guerra ad Arezzo, ora ghibellina, anche dopo la rotta di Manfredi a Benevento nel 1266.
La morte di Carlo d’Angiò, nel 1285, aveva fomentato nuove spinte nella corrente ghibellina ed a Siena, come in altre città della Toscana, i fuoriusciti Ghibellini puntarono ad un rientro in città sfruttando l’incertezza politica in cui si trovava la fazione avversa, intravedendo nei fuoriusciti Aretini e nel vescovo Guglielmino Ubertini una buona possibilità di riuscita.
Infatti, come riferisce Giovanni Villani, il vescovo aretino – mutato partito – colse anch’egli l’occasione per far saltare, e far cadere in mano ghibellina, il castello – ad frontieras– di Poggio Santa Cecilia, sino ad allora avamposto guelfo sul confine tra le terre aretine e senesi. L’operazione, durata mesi, fallì a seguito dell’assedio posto dai Guelfi supportati dall’intervento dei Fiorentini e da Guido di Monfort.
Se la fortificazione di Poggio Santa Cecilia costituiva il punto di frizione tra il territorio aretino e quello senese, Laterina, nella valle dell’Arno, costituiva il maggior punto d’attrito tra il territorio aretino e quello fiorentino, entrambi in espansione ed in cerca di una valida testa di ponte strategica verso il territorio nemico.
Il 25 giugno 1288 l’esercito aretino riportò, grazie ad una pianificata imboscata, una vittoria contro le schiere senesi a Pieve al Toppo, ma l’11 giugno 1289, un anno dopo, presso Campaldino nella piana di Poppi, le schiere aretine, coadiuvate da contingenti di Romagnoli e di Marchigiani, forti anche della guida di Buonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzi, rimasero sconfitte ed il vescovo a terra.
La settimana seguente, sulla scia della conseguita vittoria, i Fiorentini, dopo aver preso Bibbiena (nel Casentino) e fatto smantellare le fortificazioni arresesi lungo il percorso, occupate anche altre postazioni militari nelle vallate aretine, si diressero verso Arezzo ponendo il campo a sud della città. Alcuni giorni di assedio operato dai Fiorentini non condussero ad alcun esito positivo in quanto, grazie ad una sortita notturna, gli Aretini riuscirono ad appiccare il fuoco alle macchine belliche erette nei pressi del limite urbano meridionale di Arezzo.
L’infausto esito della disfatta dei Ghibellini, l’indomani della battaglia di Campaldino, costituì una evidente svolta nella politica toscana, rafforzandosi i ceti popolari in conseguenza della perdita di potere della parte nobiliare.
È importante sottolineare che la rivoluzione dello scacchiere politico non segnò tuttavia un blocco permanente, né per la ripresa della città di Arezzo, né per i giochi di equilibri di potere che, come uno sciame di scosse di assestamento, non tardarono a comparire.
È infatti bene evidenziare, avverso una datata corrente storicistica, che la disastrosa situazione in cui era precipitato Guglielmino Ubertini produsse – di contro – un “effetto molla” concretizzatosi in numerose e fulminee spedizioni militari, per “masanatam et cavallatam”, tuttavia con infausti esiti per gli Aretini.
Così fu, infatti, per la male organizzata spedizione del 1304 contro Firenze. L’assenza di un unico polo di comando, ovvero l’infelice scelta della stagione estiva, annientò l’ottimo intrigo pianificato costringendo gli Aretini a riportare unicamente, quale trofeo, il catenaccio della porta di accesso alla città di Firenze.
Pochi anni dopo, l’8 di giugno 1310, Firenze aveva organizzato una nuova operazione militare conto Arezzo; un contingente composto da 2 mila cavalieri “e popolo a piè grandissimo”, a cui si unirono i Guelfi aretini ed i Verdi, cioè i Ghibellini fuoriusciti da Arezzo, in questo momento turbato da forti tensioni politiche interne che muovevano la parte popolare.
Il breve periodo di relativa tranquillità militare che contrassegnò i primi anni del secondo decennio del Trecento vide il rafforzamento della famiglia Tarlati da Pietramala, che riuscì a porre sul soglio vescovile di Arezzo il giovane Guido Tarlati, al quale fu affidata la signoria della città con la quasi unanimità dei consensi della rappresentanza comunale; egli da tempo aveva ottenuto – ipso facto – i poteri di gestione del governo anche grazie all’influenza e presenza del sovrano Enrico VII.
Tuttavia, nonostante alla repentina morte di Enrico VII la città fosse posta sotto la nominale signoria del re di Napoli Roberto d’Angiò, Guido Tarlati si era mosso pianificando un serrato e importante programma di espansione e riconquista del territorio, specialmente delle postazioni strategiche delle vallate di accesso alla città.
In pochi anni Guido Tarlati riuscì a riconquistare le fondamentali fortificazioni dislocate nelle vallate di accesso alla città: Chiusi della Verna e Caprese Michelangelo vengono riconquistate e adeguate ai nuovi standards architettonici militari, così come il castello di Fronzola che fu “aforzato di ricche e forti mura e rocca per lo vescovo stato d’Arezzo di Tarlati”; altre sedi di valenti fortificazioni, come Monte San Savino, vennero smilitarizzate o demolite e, a Laterina, si fece “tagliare il poggio in croce, acciò che mai non vi si potesse su fare fortezza”. Per quanto riguarda le terre ad oriente della città, attraverso il corridoio del Fiume Cerfone, con Monterchi ben saldo e Citerna anch’essa nelle mani degli Aretini, Guido Tarlati il 2 ottobre 1323 compì il balzo finale conquistando Città di Castello, ormai in Umbria, che “capta est ab Arretinis per dolum”, secondo l’autore degli Annales Minores. Infatti coloro che osteggiavano dall’interno la politica di Branca Guelfucci, signore di Città di Castello, “diedono la notte una de le porte, e come gli Aretini furono dentro, co’ figliuoli di Tano da Castello degli Ubaldini e più altri Ghibellini, corsono la terra, e per forza ne cacciarono il detto messer Branca, ed eziandio tutti quegli Guelfi che aveano loro data la terra, e ben IIIIc altri Guelfi caporali, e in tutto si riformò a parte ghibellina”.
Ad ogni modo l’operazione notturna fu ben studiata e preparata, atteso anche il fulmineo risultato, avendo il Tarlati agito e pianificato le manovre militari “sagaciter et industrie cum magna subtilitate”.
La notizia della morte di Guido (1327) raggiunse il fratello, il generale di guerra Piero, detto Saccone, mentre era impegnato nell’assedio di Monte Santa Maria Tiberina.
Le gesta del programma politico e militare per la riacquisizione del territorio e delle fortificazioni sono cristallizzate nel cenotafio, custodito nella cattedrale aretina, voluto dal fratello Piero, fidato generale nelle operazioni militari: un manifesto politico dell’epopea del vescovo e della continua ascesa della famiglia. Fu dopo i fatti di Sansepolcro che gli Aretini dei Tarlati pianificarono la spedizione a sud di Cortona, nel “Chiugi” a sud del Lago Trasimeno, che coinvolse le numerose fortificazioni intorno al lago sin quasi alle porte di Perugia.
Con una cavalcata di un’ora, la spedizione che Piero Saccone aveva affidato a Tarlato Tarlati giunse a Tuoro, sul lago Trasimeno, e mise al guasto le terre circumlacuali le cui tappe, ed effetti, sono annotate, quasi un bollettino di guerra, in una lettera destinata al proprio generale.
L’assedio e l’assalto: strategie di conquista
Il tradimento, o l’inganno, costituiva un sistema veloce ed economico, non solo in termini di mezzi ma anche di vite, per ottenere un obbiettivo sensibile. La risolutiva collaborazione di soggetti che, pur facenti parti degli assediati, sostenevano la causa e gli interessi degli assedianti, poteva intervenire nel corso delle operazioni di assedio, intrapreso con varie modalità, o rappresentare, sin dal principio, il punto di svolta di una tattica ben pianificata.
Nottetempo, poste le scale sulle mura e con la collaborazione di alcuni cittadini fuoriusciti Guelfi, il vescovo Guglielmino Ubertini riuscì ad entrare in Cortona, che per “mala guardia la perdero i Cortonesi” nella notte del 1 febbraio 1258. L’accesso alla città fu infatti garantito ed agevolato al contingente guelfo dalla Porta Bacarelli o Ghibellina che si riversò, attraverso il breve percorso in salita (oggi via Ghibellina), direttamente verso i palazzi della gestione del potere, mentre parte degli armati, per le strade, attuavano devastazioni, rapine e violenze.
Le tenebre offrono cospicuo vantaggio anche per agire durante il blocco statico d’assedio, durante il quale poteva non essere sospeso l’impiego di macchine da lancio od ogni attività ossidionale come, ad esempio, durante il blocco di Castel Focognano nel 1323, per cui Leonardo Bruni ricorda che Guido Tarlati operava “dì e notte strignendo l’assedio”.
Nella notte del 3 novembre 1335 un’operazione clandestina fu messa in atto da Guido di Biordo Ubertini, alleato dei Fiorentini, grazie anche alla complicità di alcuni uomini del castello di Rondine, nel Valdarno aretino, per cui lo stesso riuscì ad occupare la rocca. La consultazione di un calendario lunare mostra che il giorno 1 novembre, di quell’anno, la luna era piena; l’operazione notturna, salvo avversità meteorologiche, avrebbe dunque sfruttato il chiarore della luna per operare in segreto e godere così dell’effetto sorpresa sulla sorveglianza.
Da quanto annotato da Simo d’Ubertino si legge che l’operazione di Marco da Pietramala per accedere alla città di Arezzo, dalla quale era bandito, nella notte tra il 28 settembre 1384 e le prime ore del giovedì 29, si svolse contemporaneamente su due fronti: il Tarlati, con i suoi e “colla gente del sire di Chossì intraro per ischale da la porta di Santo Chimento al cantone che va a la fonte Pozzuolo, e sciesero de le mura dentro, et ispezzaro la porta et ancho ischalaro in quella ora a la torre che si chiama a l’Alboreto”. L’operazione d’assalto, valutate le condizioni politiche, venne sviluppata la notte antecedente al plenilunio del giorno 30 settembre, che avrebbe offerto condizioni di vantaggio al fine di mantenere l’operazione clandestina ed agire indisturbati senza l’utilizzo di dispositivi di illuminazione.
Secondo la fonte aretina degli Annales, durante l’assedio di Castel Focognano posto da Guido Tarlati fu scavato un tunnel sotterraneo nella roccia calcarea-arenacea sulla quale si ergeva la fortificazione; non già una mina per causare il crollo delle mura, ma verosimilmente una galleria d’attacco per irrompere all’interno del circuito “usque ad medium castri”, o come altro cronista aveva già lapidariamente annotato per altro assedio, “castrum videlicet intrare sub terram”.
Una tecnica dunque elaborata e dispendiosa, sia in termini di costo che di tempo, che veniva realizzata mediante manodopera, anche specializzata (cavatores); questa doveva realizzare, con tecniche di miniera, rischiosi cunicoli sotterranei poi puntellati e resi agibili al transito o realizzati in modo da privare del naturale sostegno la soprastante struttura edificata e provocarne il crollo. Con riferimento all’assedio eseguito dai Fiorentini nell’estate 1220 alla fortificazione degli Squarcialupi in Mortennano nella Val d’Elsa, Giovanni Villani mostra una singolare genericità e stringatezza nell’esposizione delle vicende ossidionali, limitandosi a riferire che la fortificazione “per forza e ingegno si vinse”. All’opposto, la narrazione degli eventi militari effettuata dal Sanzanome riferisce chiaramente l’uso della galleria di mina.
Nel 1335, in novembre, dopo i fatti della spedizione del Trasimeno, l’esercito dei Perugini si spinse sino alle porte di Arezzo dal lato di mezzogiorno occupando la zona del Pionta, ove pose campo e ove si trovava il duomo di Arezzo prima del trasferimento entro le mura. Dalla chiesa riccamente ornata e di vetusta data, sopravvissuta sino all’intervento mediceo, i Perugini “exportaverunt columnam beati Petri Apostoli, cum tribus aliis”. Molti dei materiali asportati dal duomo furono tratti in Perugia quali trofei, tra cui “fuoro recate molte immagine di pietra, o volemo dire de marmo, le quale fuoro trovate nel dicto domo, le quale imagine de pietra le recaro gli buove su gli carre, et erano vestite gli buove e gli carre de panno roscio; et ditta imagine, venute che fuoro nella cità de Peroscia, fuoro poste denante al muro de la chiesa de san Lorenzo [la cattedrale] verso la piazza, et anco ce fu posto el dicto palio, perpetue rei memorie”. La decorazione esterna del prospetto inferiore della cattedrale di Perugia, rivolto verso la piazza con la Fontana Maggiore, conserva una parziale decorazione a trama geometrica di pseudo rombi in marmo rosa e bianco, forse realizzata con il materiale lapideo di spoglio della cattedrale aretina.
Molti eventi di storia medioevale aretina, nel corso del tempo, sono rimasti contratti e sintetizzati in brevi circonlocuzioni espressive che segnano una tappa, perlopiù astratta, del movimento politico e militare di un certo momento del passato. Ciò è soprattutto vero se si intende individuare ed indagare fatti d’arme, ricercare dati tecnici, con particolare riferimento alle dinamiche di assedi o tecniche di poliorcetica e, dunque, non tanto alla genesi e allo sviluppo degli eventi politici e militari. Ed infatti i documenti rimasti a disposizione, ovverosia gli eventi contemplati dagli annalisti e dalle cronache, non solo talvolta forniscono una versione di parte ma, sintetizzando gli eventi ovvero dando per scontati ed ovvii molti particolari e notizie al tempo invece ben conosciuti, forniscono solo accenni o riferimenti sintetici ai fatti stessi poiché, al tempo, notori e parte integrante della realtà o comunque, a giudizio del narratore, eventi e fatti da sorvolare e lasciare sottintesi.
Le cronache relative al periodo dell’Italia dei Comuni adottano lessico e termini spesso generici nell’indicazione degli “ingegni per combattere la terra”; tale approssimazione dei cronisti nell’uso dei termini militari, conduce talvolta ad ambigue interpretazioni degli eventi stessi attesa la polisemanticità dei termini utilizzati. Ad esempio Giovanni Villani propone spesso il termine “aedificium” o “dificio”; tale generica espressione è utilizzata dalle fonti anche come semplice riferimento a macchine belliche per l’assedio, non solo da lancio, così come il frequente termine “ingegni” o il semanticamente connesso ed ellittico avverbio sagaciter, utilizzato dal cronista aretino degli Annales Maiores con riferimento ancora più ampio a tecniche belliche del Tarlati, ivi compresi piani d’azione e stratagemmi.
Per quanto attiene le vicende belliche aretine, le modalità dell’assedio di Poggio Santa Cecilia (1285) operato dai Guelfi di Siena e Firenze contro la fortificazione detenuta dagli Aretini di Guglielmino Ubertini, consistettero, dopo l’apposizione del blocco statico al fortilizio, nel “gittare dentro molti difici”, intendendo con tale sincopata ed ellittica espressione il prevalente impiego di numerose macchine ossidionali da lancio, probabilmente trabocchi, che dovevano operare un bombardamento aereo all’interno della cinta muraria della fortificazione isolata dal Monfort mediante fossi e steccati.
L’assedio della città di Arezzo intrapreso dai Fiorentini l’indomani della battaglia di Campaldino (1289) fece pressione su un settore di mura (occidentale e meridionale) ancora incompiuto, le cui falle e i tratti non ultimati erano tutelati da fossati asciutti, apprestamenti in legname e steccati, del resto piuttosto comuni anche ad altre situazioni difensive del tempo, e qualsiasi altro espediente, realizzato per lo più con materiale deperibile e posticcio, che potesse costituire un ostacolo per l’aggressore.
I Fiorentini, in quell’occasione, decisero che dovessero “rizzarvisi più dificii, e manganarvisi asini colla mitra in capo, per dispetto e rimproccio del loro vescovo [Ubertini]; e ordinarvisi molte torri di legname e altri ingegni per combattere la terra”, allestendosi in breve tempo (venti giorni perdurò il campo fiorentino) un cospicuo parco macchine d’assedio. Tali macchine, sebbene smontate, dovevano trovarsi, almeno in parte, già al seguito dei reparti che avevano seguito l’esercito presso Campaldino ed in parte dovettero essere allestite direttamente sul posto. Furono probabilmente installate varie tipologie di macchine da lancio, principalmente trabocchi e mangani, per mezzo dei quali venne effettuato il sarcastico lancio, entro le mura, degli asini con riferimento alla tragica fine del vescovo Ubertini.
Il presente articolo è parte del saggio “Assedi e fortificazioni nella vicenda medievale aretina” di Simone De Fraja (Società Storica Aretina, 2018) con una introduzione di Aldo A. Settia, pp. 180, € 15,00. Vincitore Primo Premio XXI Edizione Premio Saggistica “Tagete” 2019.
Il volume ripercorre le tappe della storia medievale aretina (secoli XIII-XIV) da un punto di vista innovativo rispetto a quello tradizionale. Le fonti, documentarie e cronachistiche, sono gli elementi fondamentali con cui analizzare gli eventi bellici e le politiche che hanno caratterizzato il controllo del territorio. Il rapporto tra documento e realtà topografica, l’interazione tra iconografia superstite e tracce materiali avvicinano il lettore ai fatti realmente accaduti, ma anche alla psicologia che li determinò. Pressione emotiva, tradimento e dileggio sono fra le componenti fondamentali per l’assalto e per l’assedio, con macchine ossidionali, delle fortificazioni, che vengono a loro volta analizzate in dettaglio. Giochi di potere si uniscono a considerazioni militari, esigenze pratiche, costruttive, tecniche e simboliche a stratagemmi e inganni, talvolta descritti da cronisti portatori di contrastanti punti di vista. La dettagliata analisi degli eventi bellici fornisce un quadro tutt’altro che di immobilismo, dopo la battaglia di Campaldino (1289), così come invece tramandato da una storiografia ormai desueta.
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Simone De Fraja, Avvocato, saggista e studioso delle fortificazioni medioevali; ricercatore indipendente. Per contattare l’autore clicca qui !