Libri e biblioteche nell’Italia medioevale di Sofia Fagiolo
Il concetto di biblioteca investe in ogni epoca storica una molteplicità di significati diversi, implicando quindi vari modelli. Nel Medioevo l’evoluzione della biblioteca è determinata da una serie di elementi, quali l’utilizzo del libro e la concezione che si aveva di esso, il grado di alfabetizzazione della società e il sistema di circolazione del sapere.
Nell’Italia altomedioevale, così come in qualsiasi altra parte in Europa, il libro era considerato un bene prezioso, custodito alla stregua di un tesoro all’interno di monasteri e sedi vescovili. Le raccolte di libri trovavano posto nell’armarium, che spesso e volentieri era costituito da una semplice nicchia scavata al muro della chiesa o della sacrestia, ma potevano essere custodite anche in altri luoghi, come nella cripta o nel campanile. I manoscritti venivano prodotti in loco per le esigenze della preghiera e dello studio della comunità, pertanto si trattava essenzialmente di libri liturgici. Le fonti attraverso le quali possiamo ricostruire i fondi bibliotecari dell’alto medioevo sono costituite perlopiù da inventari di beni e libri, ma anche da cronologie monastiche e dai versus de biblioteca. Questi ultimi sono dei componimenti poetici che citano i principali autori cristiani presenti in una collezione di libri, quasi una sorta di “cataloghi in versi”.
Ricostruire con esattezza il contenuto delle biblioteche di questo periodo non è impresa facile, soprattutto per la mancanza di fonti in grado di fornirci un quadro completo della situazione. Sappiamo però che la maggioranza delle opere conservate nell’alto medioevo era costituita da quelle dei Padri della Chiesa: a occupare il primo posto era san Agostino; seguivano poi le opere di san Girolamo, di Isidoro di Siviglia, di san Ambrogio, di Gregorio Magno e di Beda il Venerabile.
A svolgere un ruolo di primo piano del periodo altomedievale fu Bobbio, uno dei più importanti centri monastici d’Europa e anche uno dei più grandi centri di raccolta e produzione libraria, con i suoi oltre 600 libri conservati. Questi libri sono riportati nel catalogo della biblioteca, purtroppo andato perduto e di cui oggi conserviamo solo la copia trascritta da Ludovico Antonio Muratori. Tuttavia, se si escludono le biblioteche di centri importanti e scriptoria particolarmente attivi come Bobbio, le collezioni altomedievali raramente superavano il centinaio di volumi.
Il mondo librario era però destinato a evolvere a partire dai primi decenni del XIII secolo. Infatti, con la rinascenza culturale che si ebbe in Europa a partire da questo secolo, cominciarono a sorgere nuove biblioteche, specialmente in ambito urbano. Si trattava di biblioteche private, legate agli Studia degli ordini mendicanti (francescani e domenicani), oppure costituite da istituzioni universitarie. A mutare fu la concezione stessa del libro. Non si trattava più di un oggetto posseduto per le sue qualità di pregio, rarità e bellezza, come avveniva in precedenza: il libro, oltre a essere conservato, veniva ora consultato e studiato.
Più tardi, tra la seconda metà del XIII secolo e l’inizio di quello successivo, il libro cominciò ad assumere anche il ruolo di passatempo e di distrazione. I principali detentori delle biblioteche erano adesso gli esponenti dei ceti mercantile e artigianale, attivi nelle città, e i membri della nobiltà, ma anche notai e maestri di grammatica. La principale caratteristica di queste biblioteche risiedeva nella presenza significativa di testi in volgare. Tra questi figuravano molto spesso la Commedia e il Decameron, accompagnati da altre opere letterarie, redatte anche in altre lingue (come il francese o il catalano). Anche nel caso di categorie professioniste come quella dei notai, i testi letterari prevalevano su quelli a carattere tecnico-professionale, ma con la differenza che vi era un’ampia scelta di autori classici, rispondendo così a intenti più colti. Lo stesso possiamo dire delle biblioteche dei medici, dove, accanto ai libri di medicina, erano presenti anche testi letterari come il Decameron, Il Milione di Marco Polo e altre opere in italiano e in altre lingue. Tale circostanza costituiva però più l’eccezione che non la regola, in quanto le raccolte librarie degli uomini di medicina erano piuttosto centrate sugli interessi professionali. In effetti, queste biblioteche riflettevano una cultura di stampo universitario, diversamente a quanto accadeva invece con notai e maestri di grammatica, i quali, non condizionati dalla formazione intellettuale universitaria, si volgevano con più facilità verso altre tipologie di testi.
Tornando invece alle biblioteche di mercanti e artigiani, possiamo dire che queste erano costituite da collezioni di piccole dimensioni, con una media di dieci o dodici volumi per persona o famiglia. Nondimeno, poteva accadere che un artigiano possedesse più libri rispetto a una persona appartenente a una classe più elevata: è il caso, per esempio, del sarto romano Viniano Catinelli da Scavo, vissuto verso la fine del XV secolo, con una raccolta di ben 23 libri, contro i 14 posseduti dal diplomatico senese Michelangelo Antonio Radicandole.
Tra la seconda metà del XIV e il XV secolo, con l’affermarsi del pensiero umanistico, si cominciò ad avvertire l’esigenza di istituire biblioteche che fossero liberamente fruibili. Il primo a sostenere il principio secondo il quale i libri dovessero essere considerati di uso pubblico fu Francesco Petrarca. Il poeta infatti promuoveva la libera circolazione dei propri libri tra i suoi numerosi amici e ammiratori, e criticava i collezionisti che custodivano gelosamente i loro manoscritti, sottraendoli all’uso di persone colte. Fu con questo spirito che nel corso del Quattrocento, negli ambienti umanistici, si fecero sempre più numerosi i lasciti librari alle istituzioni religiose o ai Comuni effettuati da grandi collezionisti come Niccolò Niccoli o Sozomeno da Pistoia, con l’intento di renderli accessibili agli studiosi.
Tuttavia queste biblioteche, pur essendo concepite come “pubbliche”, restavano aperte a una cerchia ristretta di persone, costituite da dotti, uomini eminenti e cortigiani. Per avere i primi veri esempi di biblioteca “pubblica” occorre attendere l’inizio del Seicento, con la fondazione di quelle che oggigiorno sono considerate tra le biblioteche pubbliche più antiche del mondo occidentale (la Biblioteca Angelica di Roma e la Biblioteca Ambrosiana di Milano). Ma qui ormai siamo già molto lontani dal Medioevo, la cui lunga storia è testimoniata dai manoscritti conservati in queste grandi biblioteche.
Riferimenti bibliografici
Nebbiai Dalla Guarda, I documenti per la storia delle biblioteche medievali, Roma 2002.
M. Olsen, Le biblioteche del XII secolo negli inventari dell’epoca, in Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari, 1997, pp. 137-162.
L. Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 1997, pp. 163-186.
Sofia Fagiolo
Laureata presso l’Università di Roma “La Sapienza” in Scienze archivistiche e librarie, con una tesi in Paleografia latina dedicata a uno studio su alcuni manoscritti prodotti nello scriptorium di Bobbio. Attualmente sta per conseguire la laurea specialistica in Scienze storiche, indirizzo di Storia medievale.
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