
L’insediamento rupestre di Santa Cecilia di Roberto Giordano
I suggestivi resti di un abitato dell’alto medioevo, nel comune di Soriano nel Cimino
Nella vasta area boscosa che si estende tra i comuni di Bomarzo, Vitorchiano e Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, si trovano le suggestive vestigia di insediamenti umani che affondano le loro radici in tempi remoti. Tra la fitta vegetazione si celano imponenti “vie cave” scavate nel tufo, iscrizioni ed epigrafi, colombari e monumenti funerari unici nel loro genere, altari e abitazioni rupestri, un gran numero di “pestarole” (vasche usate per la pigiatura dell’uva e altre lavorazioni), grandi massi di origine vulcanica lavorati in maniera particolare e dalla funzione ancora da chiarire, aree sacre, dighe sui torrenti e tanto altro ancora. Una significativa presenza dell’uomo in epoca antica che, oggi, può sembrare addirittura anomala, in quanto è compresa in un vasto orizzonte temporale che inizia nella preistoria, prosegue nel periodo etrusco – romano e si conclude nel medioevo.
Itinerario di visita
L’insediamento rupestre di Santa Cecilia si trova in prossimità della cittadina Bomarzo, famosa per il “Parco dei Mostri” realizzato nel XVI secolo dalla famiglia Orsini. Per arrivare a Santa Cecilia si percorre la provinciale S.P. 20 in direzione Bomarzo, fino a uno spiazzo, a destra della strada, dominato da un alto serbatoio per l’acqua. Da questo punto si percorre una sterrata fino a un campo sportivo di calcio. Al vertice sinistro di questo si nota un sentiero da seguire in discesa per circa quindici – venti minuti, fino a giungere in un’ampia radura situata sul margine di un profondo dirupo, sul fondo del quale scorre il “Rio Castello”, conosciuto anche come “Fosso del Rio”; dalla parte opposta del dirupo si scorge il piccolo borgo di Chia.

Sul terreno roccioso della radura si distingue nettamente una sepoltura antropomorfa isolata, lunga poco meno di due metri; è il primo indizio di ciò che si trova più avanti. Sulla sinistra, poco oltre questa sepoltura, il percorso prosegue all’interno di una “via cava”, una profonda strada scavata nella roccia, probabilmente realizzata in epoca etrusca. L’ambiente cambia ora in modo repentino; è dominato da alte pareti di materiale vulcanico e dalla vegetazione che oscura la luce del giorno. Si percepisce nettamente l’impressione di scendere nelle viscere della terra, e possiamo ben comprendere i viandanti di epoche passate che, transitando su questa strada, alzavano gli occhi per cercare conforto in un’immagine sacra o una piccola fiammella situata all’interno di un riquadro scavato nel masso, definito scacciadiavoli, una nicchia circondata da linee incise che disegnano una specie di casa o tempio. Ci troviamo in località “Santa Cecilia”, una denominazione che già da sola è un piccolo enigma, in quanto la devozione a questa santa è poco diffusa nell’area viterbese e non vi è certezza, inoltre, che questo toponimo sia in relazione con l’edificio di culto nascosto nel bosco.
L’area archeologica

Si continua, sempre in discesa, per alcune centinaia di metri su questo sentiero finché, dopo aver oltrepassato una zona acquitrinosa, si intravede sulla destra un gigantesco masso isolato, accuratamente scavato dall’uomo per essere utilizzato come abitazione o riparo. Nel masso vi sono due aperture provviste di un solco interno, probabilmente per incastrare delle porte, e sormontate da canaletti per lo scolo delle acque piovane. Ancora pochi passi e si giunge nel sito della chiesa diruta.
Nell’area, coperta dal bosco e situata in deciso declivio, si trovano numerosi manufatti realizzati dall’uomo; vi sono dei massi che presentano cavità e nicchie, pilastri monolitici e diverse strutture murarie. Da un primo impatto visivo si ha l’impressione di trovarsi in un luogo sconvolto e devastato, così evidente da indurre l’archeologa Joselita Raspi Serra, che negli anni 1973-74 condusse il primo e finora unico scavo scientifico dell’area, a ritenere che in tempi passati fosse avvenuto un violento evento tellurico. In realtà l’area compresa tra Soriano e Bomarzo è considerata a bassa sismicità, mentre dai racconti degli anziani di Bomarzo si apprende che alcuni resti pertinenti alla chiesa erano ancora in piedi fino agli anni ‘50 del ‘900, così come aveva documentato Augusto Egidi in un suo articolo del 1959. Molti di questi resti furono utilizzati per ricavare del materiale da costruzione e la situazione odierna è dovuta, in gran parte, alla sistematica spoliazione degli antichi edifici, iniziata certamente in tempi lontani.

Nel mezzo di tale area emergono i resti di una piccola chiesa, edificata su una piattaforma tufacea spianata artificialmente attorniata da diversi sarcofagi disposti tutto intorno. Sul piano si distingue la pianta dell’edificio religioso a una sola navata, con l’ingresso orientato a nord-ovest. Durante gli scavi archeologici della Raspi Serra furono rinvenuti vari elementi architettonici: dei frammenti parietali decorati con motivi animali, archi dentellati e capitelli tipicamente di fattura romanica. Grazie a questi reperti l’epoca di realizzazione della chiesa venne fissata intorno al XII secolo. Un’ulteriore conferma a questa datazione arrivò dal ritrovamento di un “Provisino”, una moneta in argento databile al 1184-1250. Nel procedere degli scavi furono rinvenuti altri elementi che, per la loro tipologia, evidenziarono una precedente frequentazione del sito. Le indagini archeologiche, infatti, misero in luce un edificio di culto più antico, risalente al VI – VII secolo, anch’esso ad aula unica, scavato direttamente nel banco di tufo e composto da una piattaforma leggermente rialzata che coincide, all’incirca, con l’area absidale dell’edificio romanico e anche una parte dei sarcofagi furono attribuiti cronologicamente alla prima chiesa. Tali sepolture sono realizzate in due modalità distinte: la prima è rappresentata da sarcofagi “a vasca”, ricavati scavando l’interno di un blocco monolitico di pietra, mentre la seconda consiste in fosse realizzate direttamente nel terreno. Entrambe le modalità appartengono ad una particolare tipologia funeraria, attestata nel periodo altomedievale, definita “a logette”. Questa tipologia, rinvenuta in diversi siti del Lazio settentrionale generalmente in associazione con edifici sacri, consiste nell’esecuzione di sepolture antropomorfe munite di incasso in corrispondenza della testa che, in alcuni casi, presenta anche una specie cuscino, sempre modellato nella roccia. La sepolture “a logette” sono state rinvenute a Corviano, un insediamento rupestre nel comune di Soriano nel Cimino, in località Palazzolo, presso Vasanello, a Nepi all’interno della chiesa di San Biagio, a Norchia accanto alla chiesa di San Pietro, a Viterbo nella chiesa di San Giovanni in Zoccoli e in diversi siti dei Monti della Tolfa. Le sepolture “a logette” sono diffuse anche in Africa settentrionale, nel meridione della Francia e in Spagna e coprono un arco temporale che va dal VII al IX secolo.

Nell’area sono anche presenti dei manufatti la cui funzione è difficilmente decifrabile; come, ad esempio, un enorme masso lavorato in modo particolare che è stato variamente definito come tempio megalitico, luogo sacro degli etruschi o altare rupestre.
Questa imponente costruzione è realizzata su vari livelli: si distingue una rampa che parte dal terreno e arriva a un livello superiore situato a poco meno di due metri di altezza. Questo spazio è delimitato da una parete di fondo di forma triangolare, dai resti di una parete laterale e sulla parte frontale da un pilastro monolitico, a sezione quadrilatera, alto circa tre metri. In un altro masso, posto in alto, la sommità è stata spianata in modo da lasciare una sorta di parapetto roccioso tutt’intorno, in modo da costituire la base d’appoggio al muro perimetrale di un’abitazione. Vi sono, poi, altri massi con vasche e pestarole, nicchie, loculi e solchi per la canalizzazione delle acque. Sono presenti, inoltre, diversi pilastri monolitici, alcuni eretti altri frammentati a terra, la cui funzione è tutta da chiarire. La complessità di tali strutture, la difficoltà di attribuire ad esse una funzione ben definita e l’assenza di fonti documentarie ha favorito il diffondersi di numerose ipotesi e teorie sul percorso storico di questo insediamento. Per ricostruire le sue vicende bisognerà, quindi, basarsi sugli eventi storici avvenuti in questo territorio dal III – II sec. a. C., fase finale della presenza etrusca, fino all’età altomedievale.
In epoca etrusca l’insediamento si trovava in un’importante zona di confine, tra il territorio di Volsinii, sul lago di Bolsena, l’agro falisco e la valle tiberina, attraversata dalla via Ferentana, un itinerario etrusco – romano che transitava dalla città di Ferentum fino ad arrivare al Tevere, la grande “autostrada” dell’antichità; una regione, quindi, intensamente frequentata da tempi remoti. Gli scavi archeologici non hanno restituito, però, rilevanti testimonianze del periodo etrusco pertanto, allo stato attuale delle ricerche (certamente non esaustive del punto di vista scientifico), non è plausibile riferire le strutture rupestri di Santa Cecilia tale epoca e tanto meno alla preistoria, mentre è possibile affermare, in seguito al ritrovamento di laterizi recanti bolli riferibili al II sec. d.C., che in età romana, e per tutto il V secolo, questo insediamento, come la maggior parte degli altri presenti nel territorio, era stretto in collegamento con le diverse fornaci e fabbriche di materiali per edilizia presenti in zona e dedicato alla lavorazione dell’argilla e al trasporto a Roma, tramite il fiume, del prodotto finito. In conseguenza al declino dell’autorità centrale di Roma, tutti gli insediamenti rurali e quelli a vocazione artigianale come Santa Cecilia, conobbero un lungo periodo di instabilità. Le popolazioni si distribuirono nel territorio in maniera non omogenea, riunite in piccoli nuclei vicini a risorse idriche (fiumi o torrenti), o accanto ai resti di ville rustiche di età romana. Il villaggio organizzato in comunità sarà una creazione successiva ed anche la realizzazione di strutture fortificate poste a difesa della popolazione arriverà quasi alle soglie dell’anno mille, quando inizia il fenomeno dell’incastellamento, in pratica la concentrazione delle popolazioni sparse nelle campagne in un unico insediamento fortificato. Intorno al VI – VII secolo, quindi, Santa Cecilia era uno dei tanti insediamenti dell’alto Lazio che gravitavano intorno al corso del Tevere. Il grande fiume rappresentava, durante quei periodi di insicurezza, una valida alternativa alle strade romane, non più presidiate e quindi poco sicure, e permetteva di effettuare degli scambi commerciali con le altre realtà abitative del territorio. Dal Tevere, inoltre, secondo diversi studi, arrivarono diversi gruppi di religiosi provenienti dall’area nord africana in fuga dalle violenze dei Vandali. Questi religiosi, approdati sulle coste tirreniche direttamente dal nord Africa o dalla Sardegna, si impegnarono nell’opera di evangelizzazione dell’entroterra umbro-laziale, utilizzando come percorso di penetrazione il cosiddetto “corridoio bizantino”, una lunga e stretta striscia di territorio tra il Tirreno e l’Adriatico, all’interno della quale erano rimaste, tra le genti, dei retaggi di pratiche religiose legate a culti pagani. Furono, probabilmente, alcuni tra questi monaci e religiosi a fondare i primi edifici di culto e diffondere l’uso delle sepolture “a logette” secondo l’usanza dei territori di provenienza. L’archeologa Raspi Serra, che effettuò scavi archeologici a Santa Cecilia, Corviano e Palazzolo ritenne, in un primo tempo, che queste sepolture fossero una espressione culturale dei mercenari Mauri al soldo dei Bizantini. In realtà per realizzare tali deposizioni, molte delle quali sono destinate a bambini, è necessaria una lavorazione accurata e non approssimativa, come avviene durante le guerre, e anche la loro disposizione, in prossimità e all’interno di un edificio sacro, è la dimostrazione di una frequentazione abituale del sito, a fine devozionale, da parte di genti del luogo. La presenza di un edificio di culto a Santa Cecilia portò, come conseguenza, ad una maggior aggregazione di persone che cercavano un luogo sicuro dove vivere, al riparo da scorrerie e violenze. L’isolamento di questo e degli altri siti rupestri della zona, anche durante il travagliato periodo delle invasioni, però non sarà stato però assoluto; i suoi abitanti avranno avuto dei contatti con i vari gruppi etnici che periodicamente si riversarono in questo territorio. Vi saranno stati, di certo, degli episodi violenti con Goti, Longobardi e Bizantini (questa zona era nel pieno del limes, l’incerto confine tra Goti e Bizantini) ma, probabilmente, la maggior parte degli incontri fu caratterizzata da scambi commerciali o simili. Solo le incursioni dei temibili pirati Saraceni portavano grande scompiglio e terrore tra le genti. È storicamente accertato che le varie “ondate” di invasori si adattarono, gradualmente, agli usi, ai costumi alla religione delle popolazioni locali e trasmisero, a loro volta, i propri. Questo reciproco trasferimento di conoscenze portò alla realizzazione di manufatti caratteristici (fig. 4), che si innestarono in un processo di adattamento, presente da tempo, all’ambiente circostante. Le strutture rupestri di Santa Cecilia, con i grandi massi lavorati, i pilastri monolitici e altro, rappresentano la testimonianza, secondo il nostro parere, di specifiche lavorazioni artigianali elaborate nel corso del medioevo, per le quali non possediamo, tranne nel caso delle pestarole, una sufficiente documentazione; a causa di ciò questi manufatti ricavati nel masso sono stati rivestiti, secondo alcune ipotesi, di funzioni e significati probabilmente non aderenti alla realtà storica ma, forse, più intriganti dal punto di vista della ricostruzione fantastica.

Dal X – XI secolo, con lo spostamento delle popolazioni verso le più sicure roccaforti di Bomarzo e Soriano, la frequentazione del sito rupestre di Santa Cecilia iniziò a diminuire. Solo la piccola chiesa continuò a essere frequentata anzi, come dimostrano le strutture del periodo romanico, fu perfino ingrandita e abbellita, così come avvenne per la chiesetta di San Giorgio, a Soriano nel Cimino, con la quale presenta delle notevoli similitudini architettoniche e artistiche. Negli anni successivi, però, anche la chiesa di Santa Cecilia venne a perdere la funzione di edificio sacro e una parte dei suoi ambienti furono trasformati e utilizzati per attività artigianali, come è stato dimostrato da recenti e interessanti ricerche scientifiche. Le indagini hanno evidenziato un successivo e progressivo abbandono delle attività che si svolgevano in questa zona in quanto, tra il XIV e il XV secolo, la maggior parte dei commerci e del lavoro artigianale, ormai, si svolgeva nei vicini feudi di Bomarzo e Soriano. Di conseguenza anche il ricordo di Santa Cecilia si affievolì nella memoria delle genti fino a scomparire del tutto; la chiesetta, la necropoli, le strutture ricavate dal masso furono avvolte dal bosco che ne nascose il ricordo, conservandone il segreto fino ai giorni nostri.
Roberto Giordano è nato a Roma nel 1958 e lavora dal 1979 nel mondo dell’Information Technology. Con il Gruppo Archeologico Romano ha partecipato, dal 1981 al 2001, a numerosi cantieri di scavo archeologico e ricognizione del territorio, nel Lazio e in Toscana. Da tempo si dedica allo studio del periodo etrusco e alto-medievale e ha pubblicato diversi articoli e brevi saggi su riviste di settore, ha tenuto, inoltre, numerose conferenze su tematiche storiche. Collabora con diverse associazioni culturali e Comitati di Quartiere in qualità di esperto in storia e archeologia.Nel 2013 è stato pubblicato il suo libro “L’Enigma Perfetto, i luoghi del Sator in Italia”.
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