L’islam in Spagna e l’inizio dello scontro

di Alessandro Vanoli.

Cominciamo dalla Spagna e dalla sua Reconquista, con una premessa necessaria: di questo termine, con cui oggi si indica il secolare scontro tra cristiani e musulmani avvenuto nella Penisola iberica, non c’è traccia nelle fonti medievali. Che la guerra ci fu, non è però in discussione; e neppure si può dubitare che nella Penisola iberica di quei secoli proprio la guerra tra cristiani e musulmani assunse un valore particolare, capace di distinguerla da ogni altro tipo di conflitto. Per una parola che non c’è, possiamo però assistere alla nascita e allo sviluppo di pratiche e convinzioni che la giustificheranno a posteriori. E’ questa storia che dobbiamo seguire.
Dal mondo latino, la Spagna visigota aveva ereditato un solo termine per definire la guerra nel suo senso più generico: bellum. All’alba del secolo VII ancora il nostro Isidoro da Siviglia aveva riassunto il problema in questi termini: vi sono quattro generi di guerra (bellum), giusta, ingiusta, civile (civile) e più che civile (plus quam civile) [1]. Per semplificare, la distinzione è tra la guerra combattuta secondo la ragione fissata dalla legge e le guerre che sovvertono, invece, l’ordine sociale (le guerre generate dal furore o le guerre civili). In questo senso acquista un significato ancora più chiaro l’etimologia di bellum proposta da Isidoro, secondo cui il termine deriverebbe da duellum; indicando, così, ancor più chiaramente la netta contrapposizione tra due parti dello scontro [2]. Questa serie di immagini isidoriane, è noto, aveva già un antico passato, essendo giunta al vescovo di Siviglia attraverso una lunga catena che rimontava, tra gli altri, ad Agostino di Ippona e Cicerone, ma era destinata anche a una notevole fortuna. Per restare alla Penisola iberica, si può dire che tale percezione della guerra si diffuse almeno attraverso due vie. Da una parte la tradizione religiosa, connessa alla diffusione dei grandi centri monastici del settentrione, come San Millán e San Martín de Dumio. Attraverso tale tradizione, molte delle idee legate alla guerra sarebbero confluite nel linguaggio della pratica monastica e dell’attività intellettuale, stimolate da opere quali, fra tutte, il famoso Commento all’Apocalisse di Beato di Liébana, uno dei testi più copiati e diffusi di tutto il medioevo spagnolo.

http://fr.wikipedia.org/wiki/Beatus

http://beatus.saint-sever.fr/

Dall’altra parte, l’idea di bellum trovò una fondamentale cassa di risonanza nella politica dei re asturiani, posti a capo dei primo nucleo cristiano in grado di opporsi, anche militarmente, al potere musulmano. A cominciare almeno dalla fine del secolo IX prese a confluire in questa idea di guerra una serie di elementi politici complessi e già maturi; lo vediamo, ad esempio, nel coevo ciclo cronachistico di Alfonso III. In primo luogo, i nuovi re cristiani affermavano una chiara continuità con la monarchia visigota, e più giù, per questa via, sino all’impero romano (e tale pretesa era ribadita tanto dalla produzione storiografica quanto dal consapevole uso politico della lingua e della cultura latine). In secondo luogo si scorgeva una prima equivalenza tra bellum e la guerra combattuta contro i musulmani. Uno degli elementi che aveva consentito che questo insieme ideologico, solo apparentemente confuso, si fosse coagulato in senso anti-musulmano, era stato probabilmente l’aspetto dell’esplicita rivendicazione territoriale formulata da parte cristiana. E’ questo, infatti, uno degli elementi che segna con maggiore chiarezza la profonda distanza con il mondo musulmano. Il monarca cristiano, sempre secondo Isidoro, era definito a partire dall’unità del possesso territoriale; al contrario, per i musulmani, era il lignaggio e l’appartenenza a un gruppo definito, piuttosto che la terra, ciò che concretamente definiva il luogo di residenza. Per chiarirci: se per i cristiani la Spagna sarebbe stata sempre tutta la Penisola iberica, per i musulmani al-Andalus fu solo quel luogo della Penisola iberica dove prevalse, in un particolare momento, la legge dell’Islam, indipendentemente da ogni modificazione dei confini geografici.

Tornando al regno cristiano, è difficile dire quando si formò questa coscienza di un’unità politica, culturale e territoriale. A mio parere, tutto quello che possiamo affermare è solo che ci troviamo di fronte a un processo lento, i cui primi esiti cominciano ad apparire dalla fine del secolo IX; un processo che raggiungerà il suo completo sviluppo solo tra i secoli XI e XII, quando, per intenderci, la fine del califfato (1031) e la conseguente guerra civile lascerà un vuoto di potere che permetterà ai cristiani di aumentare il controllo sul territorio.

E’ a partire solo da questo periodo – ed evidentemente non si tratta di un caso – che cominciamo a disporre di un numero maggiore di documenti. Già a partire dal secolo XI è attraverso le fonti diplomatiche, soprattutto le leggi municipali (i fueros), che veniamo a conoscenza della diffusione di un linguaggio politico ormai consapevole. Così, ad esempio, nel Fuero della città di León (circa 1020), troviamo l’esplicito discorso di re Veremudo, in cui al tema della depopulatio, lo spopolamento, causata dai Saraceni, viene contrapposta la necessità di una re-populatio del territorio [3]. Si tratta di due termini chiave per comprendere l’idea di guerra così come fu percepita da parte cristiana. Il termine latino populatio, traduce, infatti, una complessa pratica di appropriazione territoriale attraverso il suo controllo amministrativo. Il fatto che questa pratica si leghi sempre più strettamente all’idea di guerra contro i Saraceni pare il segno evidente di un’ulteriore elaborazione del problema politico.

Poi arriveranno nuove parole, giunte dalla lingua volgare e utilizzate per designare tipi di conflitto più specifici. Proprio nel fuero di León fa una delle sue prime apparizioni il termine guerra, ma già nel secolo precedente, le fonti diplomatiche parlavano di fonsado o anubda: brevi razzie, turni di difesa attorno alle mura cittadine; tutte cose che avevano poco a che vedere con la religione e molto di più con l’economia; specchio di una pratica quotidiana del conflitto, lontana dalle idealizzazioni teologiche o politiche della guerra. E in tali attività, per così dire, più modeste, i destini finirono spesso per confondersi: un esempio sin troppo noto è quello di Rodrigo Díaz,, più conosciuto come il Cid (tra l’altro, un adattamento castigliano dell’arabo sayîd, ‘signore’), il quale, vissuto in quel periodo che vide lo sgretolamento del califfato in numerosi piccoli stati, poté prestare i propri servigi tanto al re Alfonso VI, quanto al sovrano – musulmano – di Siviglia.

L’impressione è, insomma, che occorra distinguere i piani: vi sono tracce, nelle fonti diplomatiche, ma anche in numerose cronache, di una situazione complessa in cui contano sempre di più le sfumature. Erano passati secoli dal loro arrivo e, ormai i musulmani non erano solo al di là di una più o meno ipotetica frontiera: ce lo raccontano le sempre più diffuse tracce linguistiche dell’influsso arabo nelle nascenti parlate iberiche; le descrizioni, stralciate dalle cronache, di cristiani dai tratti e dai nomi “esotici”; ce parlano le vite, in qualche modo “esemplari” di personaggi come Rodrigo Díaz, che solo in un luogo dalle identità così complesse avrebbe potuto passare alla storia come il Cid campeador.

Poi vi è un altro piano, quello, semplificando un po’, dell’ufficialità, della retorica politica oltre che dei discorsi giuridici e religiosi. E’ lì che vediamo sedimentarsi l’idea della lotta contro i musulmani, prima come necessità istituzionale, poi sempre più chiaramente, come destino, definizione stessa della natura spagnola. A questo processo avrebbe contribuito in maniera determinante un elemento esterno, in un certo senso, alla storia spagnola. Nel 1213, l’anno successivo all’importante vittoria cristiana di Las Navas de Tolosa, veniva emanata la bolla Quia maior, che sistemava in un insieme politicamente coerente (ripreso poi, due anni dopo, dal IV Concilio Lateranense), i temi che si erano venuti sedimentando già dalla prima crociata: l’offerta di salvezza intesa come “antico disegno di Gesù Cristo”, la carità per i cristiani oppressi, la regolamentazione delle indulgenze per coloro che partivano. Lentamente, spinta tanto dai canali diplomatici ecclesiastici quanto dalle poesie dei trovadori, una nuova idea era giunta in Spagna, legandosi strettamente a quanto si era già sviluppato autonomamente: l’idea del musulmano come nemico della cristianità.

Ma se esterna era la teoria, profondamente interna fu l’identità sociale e politica che su tale teoria si fondò. Ci voleva un santo per unificare forze di una cristianità iberica ancora sulla difensiva. La Spagna lo trovò tra i monti della Galizia, a Compostela, dove si diceva fosse conservato il sepolcro dell’apostolo Giacomo, quello che il Nuovo testamento diceva essere fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo. Santiago, secondo la pronuncia spagnola, divenne sempre più il simbolo dell’unità cristiana iberica contro il potere politico e militare dei musulmani. Il tutto fu inserito all’interno di una ormai consolidata storia sacra, con la cristianità iberica come nuova Israele, soggetta allo stesso rapporto punizione-colpa sancito dall’Antico Testamento, e dove Santiago giocava sempre di più il ruolo di guida: è lui il centro dei pellegrinaggi iberici ed è lui che, per questo, lega la Spagna all’Europa; è a lui che si prega prima di una battaglia; è lui che, nell’immaginario dei combattenti, guida lo stesso assalto. Lo videro in tanti, in quei secoli, sui campi di battaglia, armato di spada, al galoppo di un destriero bianco. Così lo descrissero le cronache, come quella voluta e coordinata da Alfonso X el Sabio alla fine del secolo XIII, la Primera Crónica General de España: una battaglia famosa, quella di Clavijo, e l’apparizione di Santiago, accato al re Ramiro I, che giunge alla testa di una schiera angelica, montando un cavallo bianco e brandendo una spada scintillante. E’ questa immagine ingenua che che giungerà sino ai giorni nostri, ossessivamente ripetuta nelle chiese che costeggiano i Pirenei e la cordigliera cantabrica, cristallizzata in una sorta di perfezione iconografica già dal periodo barocco.

Dalla metà del medioevo, dunque, Santiago divenne la guida di un esercito la cui identità cristiana era sempre più politicamente connotata. Dall’altra parte c’era Satana a dare manforte ai musulmani [4], un nemico che nel suo volto inevitabilmente nero ricostruiva, attraverso quel marchio diabolico, la lunga catena che legava i mori alla falsità dell’eresia.

La Reconquista, parola che ancora non esisteva, aveva trovato la sua teoria e la sua storia.

Bibliografia
Gran parte di quanto ora detto deriva da A. Vanoli, La Spagna delle tre culture. Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Viella, Roma 2006.
Per ulteriori approfondimenti si può attingere alla notevole serie di volumi (in lingua inglese) sulla storia medievale spagnola raccolta nel sito http://libro.uca.edu/

Note
[1] Etimologie, XVIII,1,2-4.
[2] Etimologie, XVIII,1,8-9.
[3] Fuero de León, ed. L. Vázquez de Parga, in «Anuario de Historia del Derecho Españól», XV (1944), pp. 464-98, XX, 65-66: “Costituimus adhuc ut Legionensis civitas, quae depopulata fuit a Sarracenis in diebus patris mei Veremudi Regis, repopuletur per hos foros subscriptos, et numquam violentur isti fori in perpetuum. Mandamus igitur ut nullus junior, cuparius, alvendarius, adveniens Legionem ad morandum, non inde abstrahatur”.
[4] Primera Crónica general de España, ed. R. Menéndez Pidal, 2 voll., Madrid 1955, pp. 698, 700, 807, 956, 1016, 1018.

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Alessandro Vanoli

È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.

Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).

Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.

È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.

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