
di Furio Cappelli
“Voi non siete Romani, siete Longobardi!”. La sprezzante sentenza era stata offerta all’ambasciatore di Ottone I dopo una lunga sequela di offese, il cui bersaglio era il misero esercito al servizio di quel sedicente imperatore. Il vescovo Liutprando di Cremona, invitato a parlare della potenza politica e militare del suo signore, aveva risposto in modo misurato e veritiero, ma Niceforo II Focas, il sovrano di Costantinopoli, vero e unico imperatore romano sulla faccia della terra, non aveva dubbi. Quell’ammasso repellente di crapuloni non poteva essere definito un esercito, e tantomeno un esercito imperiale. Quei soldati erano incapaci di stare a cavallo e persino impacciati nel combattere a piedi, per la pesantezza e l’ingombro dell’armamento. Erano solo imbattibili nell’ingordigia. La tavola era il loro vero campo di battaglia. Queste erano le forze di terraferma. Quanto alle forze sul mare, Ottone non poteva fare affidamento su una flotta. Costantinopoli contava su una grande potenza, sulla terra e sulle acque, e presto Ottone, che aveva problemi a impadronirsi anche di una pur piccola città, sarebbe stato spazzato via da un profluvio di milizie, innumerevoli come le stelle in cielo o le onde del mare.
Quel discorso, concluso per la verità da due versi dell’Ars amatoria di Ovidio, il che non si confaceva a un sovrano di rango militare e di lingua greca, risulta pronunciato a tavola, il 7 giugno 968, nel Triclinio del Sacro Palazzo di Costantinopoli. L’ambasciatore di Ottone I, relegato a quindici posti di distanza da Niceforo per evidenziare la scarsa importanza che gli veniva attribuita, per giunta trovandosi in un settore della mensa sfornito di tovaglia, aveva dovuto subire un pasto alquanto lungo e “osceno”, con pietanze condite in modo eccessivo, con fiumi d’olio e con una innominabile sostanza estratta dalle interiora dei pesci. A tanta smodatezza, degna di un convito di ubriachi, si univano i ghigni e le ingiurie del sovrano. Ma la replica di Liutprando fu lucida e spiazzante. Egli infatti si mostrò fiero della sua discendenza barbarica. Come il suo nome suggerisce, d’altronde, doveva essere proprio di stirpe longobarda. Ebbene, per Liutprando l’appellativo “romano” equivale a un insulto. Romolo, il fondatore dell’Urbe, non era forse un fratricida nato da un adulterio, che aveva congegnato un covo di criminali, tra cui un buon numero di assassini, schiavi in fuga e debitori insolventi? Questa turpe brigata era alle radici della romanità. Gli stessi imperatori antichi erano nati da quel seme. Longobardi, Sassoni, Franconi e quant’altri, fanno bene ad attribuire l’epiteto di “romano” a un nemico, bollandolo in tal modo come pregno di tutti i vizi del mondo. Se, poi, l’atteggiamento di Niceforo non muterà di segno e si dovrà così dare la parola alle armi, saranno i fatti a dire se gli “imbelli” Longobardi valgono davvero meno dei “potenti” Bizantini (che amano tanto definirsi “Romani”).
Questo episodio è tratto da un brillante opuscolo scritto dallo stesso Liutprando nei primi mesi del 969, a ridosso degli eventi narrati. Nota come “Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli”, l’opera ci è giunta solo grazie alla preziosa trascrizione condotta nell’anno 1600 da Enrico Canisio su un codice oggi perduto, già conservato presso la biblioteca del duomo di Treviri. Sin dalle prime righe, indirizzate ai propri sovrani, gli Ottone padre e figlio, e l’imperatrice Adelaide, il vescovo di Cremona si propone di illustrare dettagliatamente le ragioni dell’insuccesso della propria missione, mettendo in primo piano i modi oltraggiosi in cui è stato accolto, la ripugnanza di Niceforo e del suo stesso ambiente.
Lo splendore del rituale e la maestà del sovrano che tanto avevano colpito Liutprando nella precedente ambasceria del 949, erano ormai un lontano ricordo. All’arrivo, il 4 giugno 968, Liutprando si ritrova davanti alla Porta d’Oro sotto una pioggia battente, appiedato, perché non si consente che cavalchi in pompa magna per le vie della città. A lui e alla sua comitiva viene assegnata una specie di prigione: un ampio e scomodo palazzo di pietra assai lontano dalla corte, freddo d’inverno e asfissiante d’estate. Manca l’acqua e ogni richiesta va rivolta dietro moneta sonante a un custode direttamente fornito dall’inferno, che fa le creste sugli acquisti e propina quanto ci sia di più avvilente, a partire da un vino allungato con pece, resina e gesso. L’incontro col sovrano avviene tre giorni dopo, la mattina di Pentecoste (a pranzo si svolgerà il discorso ricordato all’inizio). Niceforo è un mostro che viene dalla Cappadocia, “un pigmeo con la testa grossa”, gli occhi piccoli degni di una talpa, una “faccia da porco” inghirlandata da una fitta chioma di capelli, il collo piccolo, la carnagione scura (secondo lo storico bizantino Leone Diacono, olivastra, ma bruciata dal sole nel corso di tante campagne militari), vestito di una vecchia tunica finissima di lino, sudicia, ingiallita e consunta, con dei calzari ai piedi che andavano di moda a Sicione ai tempi degli antichi Greci, “arrogante nel parlare, volpe per l’ingegno, Ulisse per lo spergiuro e la menzogna!”.
A un primo colloquio segue il solenne ingresso in Santa Sofia, nella proverbiale cerimonia della proeleusis (“processione”). Lungo il percorso che va dal Sacro Palazzo alla Grande Chiesa è penoso vedere la gente che fa da ala al corteo, adorna di umili scudi e giavellotti e in larga parte sopraggiunta a piedi nudi, in ossequio al sovrano, mentre gli stessi nobili in veste da parata sono ridicoli, poiché hanno addosso dei capi ormai lisi a forza di essere usati. Il coro saluta in chiesa Niceforo come la Stella del Mattino, ma agli occhi di Liutprando un simile omaggio è grottesco: come si fa a paragonare al pianeta Venere, che annuncia la luce dell’alba, un “carbone spento” che cammina come una vecchia?
Liutprando “protorazzista”?
Lo stato di guerra fornisce la chiave di interpretazione dell’opuscolo di Liutprando. Vi sono indubbie esagerazioni, sia nel ritratto caricaturale di Niceforo che nella kafkiana rievocazione dell’ambiente. Benedetto Croce, nel 1936, ravvisa nelle parole del vescovo una pagina di “preistoria” del razzismo, ma la pelle scura del “negus” Niceforo, paragonato a un etiope che ci si augura di non incontrare nottetempo, o la purezza dei latini contrapposta alla corruzione dei greci, non riflettono un’ideologia o un clima generale di ostilità e di diffidenza. Simili toni prendono corpo e ragion d’essere in una situazione ben determinata, tant’è che lo stesso Liutprando mostra un approccio diametralmente opposto in un altro precedente opuscolo, l’Antapodosis (“La restituzione”), quando rievoca la missione del 949.
Bisanzio e l’impero d’Occidente erano in rotta per la sovranità sul Mezzogiorno italiano. Su consiglio dello stesso Liutprando, Ottone I aveva sospeso le operazioni militari in Puglia, come segno di buona volontà, e proponeva un’alleanza matrimoniale come pegno di una “pace eterna” tra gli imperi. Niceforo poteva offrire in sposa a suo figlio Ottone II la figlia del defunto imperatore Romano II (959- 963) e della consorte Teofano.

Si trattava però di una proposta inaccettabile già solo da un punto di vista protocollare, perché la principessa era porfirogenita: appena nata, era stata avvolta dai preziosi ed esclusivi tessuti tinti di porpora che erano prerogativa degli eredi di un legittimo sovrano (che aveva a sua volta assunto il potere come erede diretto della dinastia regnante). La principessa non poteva essere quindi data in sposa all’erede di un re qualunque, e tale era Ottone, nonostante la sua ingenua pretesa di essere riconosciuto come imperatore. Una proposta del genere, per essere seriamente vagliata, richiedeva una ingente contropartita: tutta l’Italia, a partire da Ravenna e da Roma, doveva rientrare nell’orbita di Bisanzio. Così si pronunciò un collegio di alti funzionari e di consulenti presieduto dal prefetto Leone, fratello di Niceforo. Liutprando ignorò in blocco una tale follia, glissò sulla vessata questione del titolo imperiale, e controbatté che si era verificato un precedente significativo: ammesso che Ottone sia solo un re, il ben meno potente Pietro, zar dei Bulgari, non poté forse impalmare Maria, la figlia del principe Cristoforo, nel 927? La risposta fu secca e implacabile: era senz’altro vero, “ma Cristoforo non era porfirogenito”. Suo padre, infatti, Romano I Lacapeno (920-944), era salito al trono come co-reggente di fianco al giovane sovrano legittimo (Costantino VII, 913-959).
Un affronto si aggiunse poi all’atteggiamento intransigente di Niceforo. Nell’ennesimo convito a cui dovette partecipare, a Liutprando fu assegnato un posto di second’ordine rispetto all’ambasciatore dei Bulgari. Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Non solo lo zar di quel popolo poteva stabilire agevolmente una pace con il sovrano di Bisanzio con tanto di nozze, ma il suo rozzo rappresentante, “rapato, sudicio e cinto di una catena di bronzo”, poteva essere tranquillamente anteposto all’ambasciatore di Ottone. Liutprando abbandonò la tavola e fu rincorso da Leone e da Simone, un funzionario di palazzo. Inviperiti per il suo gesto plateale, si giustificarono adducendo il fatto che gli accordi di pace con lo zar Pietro imponevano di anteporre il messo dei Bulgari al messo di ogni altro popolo, e ingiunsero a Liutprando di rimanere a pranzo, confinato nella mensa riservata ai servitori. Il vescovo di Cremona sopportò il diktat senza battere ciglio, anche perché gli venne servito un capretto davvero squisito, cucinato con maestria, tale da cancellare d’incanto ogni malanimo. Quella pietanza veniva direttamente dalla tavola del “santo” imperatore: è l’unico momento in cui Liutprando ha un moto di riconoscenza e di ammirazione per l’odiato Niceforo.
La porpora costituì per Liutprando una vera ossessione. Fece da ostacolo alla sua proposta di pace, e innescò uno spiacevole incidente. Trovandosi a Costantinopoli, vale a dire in uno dei maggiori centri di manifattura tessile del Mediterraneo, Liutprando si era prodigato a raccogliere un gran numero di drappi istoriati da riportare a Cremona, per impreziosire la sua cattedrale. Ne aveva acquistati molti in moneta sonante, altri gli erano giunti in dono da amici che aveva in città. Quando finalmente si apprestava a ritornare a casa, in precarie condizioni di salute, dopo un lunghissimo soggiorno forzato che aveva rasentato la prigionia, dovette subire l’ennesimo affronto. Nel corso di un incontro piuttosto teso con il patrizio eunuco Cristoforo, il 17 settembre 968, scaturito da una “sciagurata” lettera in cui papa Giovanni XIII aveva definito Niceforo “imperatore dei Greci” anziché “dei Romani”, venne ingiunto a Liutprando di restituire cinque magnifici drappi intinti nella porpora. Sete lavorate in tal modo potevano essere indossate solo dai più alti dignitari, potevano essere prodotte solo negli atelier del Sacro Palazzo, e ne era vietata l’esportazione nel modo più assoluto. I funzionari bizantini erano poi convinti che quelle sete erano destinate alla corte di Ottone, ed era impensabile che quel misero sovrano potesse fregiarsi della porpora dei Romani. In merito a tali stoffe, veniva dunque negata l’apposizione del bollo di piombo che permetteva l’uscita delle merci durante i controlli doganali. Il vescovo avrebbe comunque ricevuto il rimborso per le somme investite nell’acquisto dei beni sequestrati.

Liutprando reagì vivacemente a questa imposizione. Fece appello al fatto che Niceforo in persona lo aveva autorizzato ad acquistare e a riportare in patria tutto quel che avrebbe gradito, ma gli venne ribattuto che il “santo imperatore” non intendeva con questo autorizzarlo ad acquistare merci vietate. A nulla servì il riferimento alla precedente missione svolta per conto del marchese Berengario (in seguito re d’Italia), quando Liutprando era ancora un semplice diacono, nella cui occasione egli poté riportare stoffe migliori e in maggior quantità senza alcun controllo, e a nulla giovò l’aver sottolineato che i mercanti di Amalfi e di Venezia trafficavano in sete di tal fatta in gran numero, tanto che in Italia si potevano incontrare prostitute da due soldi e ciarlatani così abbigliati. I funzionari ribatterono con fermezza. La differenza di trattamento era dovuta al fatto che all’epoca della precedente missione sedeva sul trono il mite Costantino VII, incline ad accattivarsi le simpatie di tutti, mentre Niceforo era un sovrano tutto d’un pezzo che non faceva sconti a chicchessia. Quanto alla condotta dei mercanti italiani, si trattava di un intollerabile contrabbando che sarebbe stato severamente punito: “Non lo faranno più; saranno perquisiti accuratamente, e se verrà scoperta qualcosa del genere, il colpevole avrà tagliati i capelli e sarà ucciso a colpi di frusta”.
Come si è accennato, Liutprando fu costretto a soggiornare al cospetto di Niceforo ben oltre il necessario. L’imperatore, infatti, prometteva a vuoto che il suo ospite sarebbe stato presto congedato, e inanellava incontri e conviti in varie circostanze, rinnovando il proprio sdegno nei riguardi di Ottone e insistendo a richiedere senza alcuna contropartita la propria sovranità sui territori detenuti da Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e di Benevento. In realtà ogni questione era stata chiusa piuttosto repentinamente, e il soggiorno era tirato per le lunghe onde lasciare Ottone sulle spine, impedendo a Liutprando di diffondere prima del tempo notizie sulle alleanze e sulle manovre in atto. Niceforo, infatti, non si faceva remore ad accogliere alla luce del sole Grimizone, messo di Adalberto, re d’Italia (con il defunto padre Berengario II) detronizzato da Ottone nel 952. Offrendosi come ostaggio nella fortezza bizantina di Bari, Adalberto si alleava con Niceforo stesso mettendo a disposizione il proprio fratello Cona con un contingente di armati. Niceforo dal canto suo inviava un cospicuo donativo per imbaldanzire quei mercenari, oltre a un esercito “raccogliticcio” al comando di un personaggio sessualmente ambiguo (“una certa uomo”), forse prescelto proprio a dileggio del nemico Ottone.
Nel mentre, Niceforo si preparava ad assalire la Siria con ben altro impegno. Liutprando non ha alcun interesse a ricordarlo, ma il nobile sovrano si era segnalato in molteplici occasioni come un condottiero di solida tempra. La sua ascesa al trono fu determinata da una formidabile serie di vittorie contro munitissimi presidi musulmani. Aveva riconquistato Creta, Cipro e la Cilicia, ed ora le imminenti operazioni avrebbero segnato la caduta di Antiochia e di Aleppo. Gli elevati costi di siffatte imprese erano ricaduti sulla popolazione con ingenti prelievi fiscali. Le scorte alimentari erano state riversate sul mercato a prezzi insostenibili. Proprio alla vigilia dell’invasione della Siria, come lo stesso Liutprando attesta, la carestia era giunta a Costantinopoli. Frattanto, il 25 luglio 968, durante un convito in località Umbria, a diciotto miglia dalla capitale, Niceforo chiese a Liutprando se Ottone possedeva delle riserve con animali di un certo interesse, come quegli asini selvatici (onagri) della Persia che il sovrano bizantino possedeva in gran numero, e di cui era molto orgoglioso. Visto che Ottone aveva delle riserve ma di siffatti animali non aveva mai sentito parlare, Niceforo invitò l’ambasciatore a visitarne una, in un posto d’altura.
Liutprando vede i famosi onagri qua e là, in mezzo a gruppi di capre, e non è minimamente affascinato, anzi. Gli sembrano in tutto e per tutto dei volgarissimi asini domestici, come se ne vedono dovunque. Nel mentre gli si affianca un cortigiano di Niceforo e gli chiede le sue impressioni, aspettandosi elogi sperticati sul conto di quegli animali favolosi. La risposta del vescovo è portentosa: “Non ne ho mai visti di simili in Sassonia”, intendendo con ciò che il suo signore Ottone ha visto degli asini di qualità di gran lunga migliore. Ma il cortigiano non coglie affatto l’ironia e prospetta al vescovo una succulenta opportunità. Se Ottone farà il bravo con Niceforo, il sovrano bizantino sarà ben felice di donargli un bel numero di onagri, “e al tuo signore verrà non piccola gloria, perché possiederà quel che nessuno dei suoi predecessori vide neppure!”. E Liutprando rincara la dose. Rivolto proprio a Ottone, gli giura di aver visto al mercato di Cremona degli asini della stessa identica qualità, con l’aggravante che erano animali domestici, non selvatici, e nonostante questo si muovevano allo stesso modo, anche se la loro groppa era gravata dalla soma.
Il cortigiano capisce che la proposta non è andata a buon fine. Non potendo far tornare Liutprando a mani vuote, Niceforo gli regala due capre.
L’onagro funesto
L’episodio della riserva introduce un’ampia riflessione. Una sentenza dell’Anticristo, libello profetico scritto in greco dall’antipapa Ippolito, condannato all’esilio in Sardegna nel 235, suona così: “Il leone e il leoncino, uniti, stermineranno l’onagro”. Liutprando interpreta il vaticinio in questo modo, rapportandolo alla situazione del suo tempo: Ottone I (“il leone”) e suo figlio Ottone II (“il leoncino”) “stermineranno l’onagro, cioè l’asino selvatico Niceforo, che non a torto è paragonato ad un asino selvatico, data la sua vanagloria ed il suo incestuoso matrimonio con la propria signora e comare”. L’accusa di incesto derivava dal fatto che Niceforo aveva fatto da padrino al battesimo dei figli di primo letto della moglie Teofano, i porfirogeniti Basilio II e Costantino VIII, figli di Romano II. Secondo una severa norma canonica, infatti, il padrinato fondava un rapporto spirituale che non avrebbe consentito l’unione carnale di Niceforo con la madre dei due figliocci. La lussuria e la “vanagloria” dell’onagro derivano poi dal famoso De rerum naturis seu universo (842) dell’enciclopedista Rabano Mauro. Ma aldilà della lettura moralistica, è interessante sottolineare come l’onagro funzioni in chiave negativa come simbolo di appartenenza etnica. Nativo della “selvaggia” Cappadocia, Niceforo è raffigurato da un animale esotico “rozzo” e irrequieto, mentre lo stesso onagro sin dall’epoca preislamica veniva considerato in Persia come simbolo di forza, tenacia e vigoria sessuale.

L’alleanza tra Niceforo e l’ex re italico Adalberto (che finirà i suoi giorni in Borgogna tra il 972 e il 975) aveva dato buoni risultati all’inizio. Il principe Pandolfo Capodiferro era stato tratto prigioniero a Costantinopoli e Capua era stata assediata. Tutta l’Italia meridionale sembrava passata sotto l’egida di Bisanzio. Ma l’arrivo dei rinforzi d’oltralpe aveva rinvigorito le truppe di Ottone. L’assedio di Capua fu tolto e i Bizantini, largamente impegnati sul fronte siriaco, subirono una dura sconfitta ad Ascoli Satriano (969). Frattanto la bellissima e spregiudicata imperatrice Teofano si invaghì del generale Giovanni Zimisce, ben più prestante del taurino Niceforo. Il grande sovrano morì avvelenato, nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 969.
Il nuovo imperatore Giovanni intavolò una pace con Ottone in base a cui Pandolfo, nel frattempo liberato, poteva continuare a dominare su Capua e Benevento restando fedele al sovrano germanico, mentre la Puglia e la Calabria rimanevano sotto l’egida bizantina. Il matrimonio tra Ottone II e la principessa Teofano, celebrato nell’Urbe il 14 aprile 972 da papa Giovanni XIII, coronava degnamente l’accordo. La soluzione fu praticabile perché la sposa non era porfirogenita.
Si realizzava così quel che Liutprando aveva caldeggiato alla luce del suo insuccesso. Niceforo era stato tolto di scena e Ottone aveva fatto valere le sue ragioni con la forza. Le sospirate nozze avevano finalmente avuto luogo, ma nell’estate 972 Liutprando risulta già deceduto. Forse non seppe nulla di quella cerimonia.
Da leggere
Liutprando da Cremona, Tutte le opere, a cura di Alessandro Cutolo, Milano, Bompiani, 1945.
Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, a cura di Massimo Oldoni e di Pierangelo Ariatta, Novara, Europìa, 1987.
Benedetto Croce, La Germania che abbiamo amata, in “La Critica”, 34 (1936), pp. 461-466.
Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993.
André Guillou – Filippo Burgarella, L’Italia bizantina. Dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia, Torino, UTET, 1988.
Il presente articolo è stato pubblicato sul mensile “Medioevo” (ottobre 2013, n. 201) ed è tratto da https://independent.academia.edu/FurioCappelli.

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